Il capitale, come aveva intuito Rosa Luxemburg, ha bisogno di ripetere periodicamente la fase dell’accumulazione, ricreandosi un suo altro, un suo «fuori» che possa assorbire l’eccedenza produttiva che i processi di affinamento e razionalizzazione provocano. Il processo di accumulazione originaria in realtà tende a ripetersi diversificando il suo carattere per poter contare anche su un fuori, coloniale o post-coloniale che assorba le sue crisi. Con appunto la differenza per la quale oggi questi processi finiscono spesso per produrre esclusione, mentre in passato immettevano i soggetti espropriati nel circuito capitalistico della riproduzione allargata. Un gioco di inclusioni e di esclusioni di soggetti che rimandano a territori e recinzioni formali o astratte atte allo scopo. Una continua produzione di spazi differenziati, che permettono la riproduzione del dominio capitalista.
Se l’accumulazione originaria era quella delle enclosures – delle recinzioni degli appezzamenti agricoli che provocò l’allontanamento dei contadini, il loro divenire proletariato e il loro inurbamento che arricchiva l’esercito di mano d’opera a disposizione per l’industria nascente – la nuova mossa non si discosta molto: cambiano gli oggetti, ma rimane fondamentalmente la stessa. In Inghilterra le recinzioni sottrassero ai contadini le terre comuni – o quelle di uso comune (ad es. i campi a maggese, aperti al pascolo comune, convertiti in colture a foraggio) – favorendo i grandi proprietari che adottarono nuove forme di coltivazione intensiva. Adesso con una crisi ormai endemica della produzione manifatturiera, il capitale vira verso la rendita, la finanziarizzazione, la messa a profitto dei beni comuni, e diviene «estrattivo» con una strategia che ha qualcosa di simile al processo di chiusura dei campi comuni.
L’accumulazione originaria era comunque un esproprio, diretto alla separazione dei produttori dai mezzi di produzione: precondizione essenziale per la nascita e lo sviluppo dei rapporti capitale-lavoro centrali della forma di produzione capitalista. Ma l’operazione non si fermava lì. Il secondo passaggio, tale da permettere quel plusvalore ricercato, era rivolto ad altre due espropriazioni/appropriazioni che riguardavano: una, l’energia e le materie prime; l’altra, il lavoro di riproduzione e di cura, sia della mano d’opera – della forza lavoro – sia della natura (le trasformazioni che rimandano all’Antropocene). L’accumulazione originaria, come scrivono Patel e Moore, aveva bisogno, oltre che di forza lavoro a basso costo, di materie prime e di energia sempre a basso costo. Da una parte, infatti era necessario rifornirsi di risorse al costo più basso possibile, dall’altra liberarsi dei costi rappresentati dai rifiuti e dall’inquinamento. E la forza lavoro a basso costo era tale anche perché il lavoro riproduttivo non era calcolato.
Per far ciò, era sufficiente non pagare il lavoro femminile di riproduzione e cura: serviva una recinzione. Ecco allora la forma di organizzazione familiare di tipo patriarcale. In essa, l’onore è il contenuto del capitale simbolico: il costante impegno degli uomini nelle relazioni esterne atte a consolidare od accrescere tale «valore», ne è la conseguenza. Perseguire il valore, l’onore della casata, è infatti compito e ruolo quotidiano del maschio, attività sociale da compiere fuori di casa, esterna alla casa, di ordine economico e non oikonomico. Mansioni che riguardano più la polis che non l’oikos. E che determinano anche una separazione spaziale dei ruoli: all’uomo la piazza, lo spazio sociale; alla donna la casa, lo spazio domestico. A lei la conservazione, a lui la produzione dei beni materiali, ma anche simbolici. Siamo qui, di fronte a enclosures che «lavorano» su tutti e tre i piani – ambientale, sociale e mentale – di cui scrive Guattari (infra).
Le riduzioni dei margini di profitto della industria manifatturiera, il suo periodico cadere in crisi da sovrapproduzione, sposta l’intervento del capitale in altri ambiti: la rendita, la finanziarizzazione, i commons. Se per le prime due si tratta di estrazione di valore in forma diretta, non mediata da altri attori, per quanto riguarda i beni comuni, l’azione del capitale è più mediata e meno evidente e si concentra intorno al nodo concettuale che si dipana tra proprietà ed uso. L’essere comune di certi beni, non li fa essere di proprietà (enclosure), seppur comune, ma proprietà di nessuno in quanto di uso comune. Secondo la Commissione Rodotà un bene pubblico è quello che rimanda a questa definizione: «Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona» (https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?contentId=SPS47617). Se l’interesse del capitale e dell’opposizione allo stesso nei confronti dei beni comuni più intuitivamente espliciti come la terra, l’acqua, l’aria, è facilmente comprensibile, quella verso beni quali la salute, l’istruzione, l’abitazione (oikos), la città (polis), è meno diretta, ma più ricca di conseguenze e foriera di riflessioni spesso illuminanti. Dalla definizione di Rodotà si vede che gran parte dei beni che vi rientrano erano quelli oggetto delle politiche pubbliche del welfare, il cui smantellamento mostra semplicemente l’ingresso del privato nei vari comparti, l’intervento cioè del capitale che estrae così profitto anche da questi ambiti. L’operazione di recinzione consiste in questo caso nell’aziendalizzazione, nella messa in opera di un dispositivo di valutazione e di quantificazione, descrittivo e circuente, che profila gli utenti, coloro che sarebbero depositari del diritto di accesso a questi servizi, riducendoli a consumatori. Il capitalismo cognitivo produce poi nuove enclosures a partire dall’uso spregiudicato dei diritti di proprietà intellettuale e dai brevetti.
Se per Guattari, le ecologie sono tre: ambientale, sociale e mentale, le recinzioni si svolgeranno su piani relativi ai tre ambiti. Un piano che riguarda la territorializzazione; un piano intorno alle istituzioni (mi riferisco a qualcosa del tipo della norma e/o della legge); un piano che riguarda le gabbie mentali. Alcuni degli urbanisti del Laboratorio Politico perUnaltracittà di Firenze dicono spesso che certi spazi urbani dismessi, di proprietà pubblica, vanno lasciati senza destinazione. Devono godere cioè di una possibilità d’esistenza legata al loro uso pubblico e non assegnati a una destinazione di tipo mercantile. È quest’ultima «recinzione» che porta alla loro alienazione, ad una sottrazione al comune che svela un’appropriazione da parte del privato. Il meccanismo delle enclosures è qui evidente.
Sul piano della territorializzazione e della istituzione (norma/legge) c’è un termine greco che ha avuto fortuna nell’ambito disciplinare della filosofia politica a partire da un abuso da parte di un pensatore di destra stranamente iper citato da autori di sinistra: il termine è nomos, il pensatore è Carl Schmitt. Vediamo un po’ di cosa si tratta. Per Varrone, il termine «territorio» indicava delle terre di uso comune; successivamente il termine territoria rimandava invece a luoghi interni all’impero ma occupati da barbari. Ecco da subito un’ambiguità, se non un conflitto, tra un fuori e un dentro. Il termine nomos ha inizialmente qualcosa che ha a vedere con territorio, ma, subito dopo, tende a prendere un’accezione diversa, allorquando il nomos diviene il paradigma della governamentalità, quando cioè il campo semantico vira verso l’ambito del diritto. Questo avviene per tramite di una delle accezioni etimologiche del termine che rimanda al concetto di «pascolo». Il governo pastorale, ma «il potere del pastore non si esercita su un territorio, […] si esercita essenzialmente su una molteplicità in movimento» (Foucault, p. 100) o, meglio ancora, sui loro legami, sia quelli tra di loro, sia tra questi e le cose, territori compresi.
L’elemento territorializzante a cui rimanda il termine nomos, si costruisce intorno alle sinergie di tre elementi interpretativi di una particolare polisemia – o trisemia – del termine stesso. Che per il reazionario di Schmitt sarebbero appropriazione, spartizione e pascolo, da cui trae queste conseguenze:
«Nomos significa in primo luogo Nahme, “presa di possesso, conquista”. In secondo luogo significa “dividere” e “spartire” ciò di cui si è preso possesso. Il nomos e dunque secondariamente la fondamentale procedura di divisione e di spartizione del terreno, nonché l’ordinamento proprietario che su di essa è basato. Il terzo significato di neimen è weiden, “pascolare”, vale a dire l’utilizzazione, la coltivazione e la valorizzazione del terreno ottenuto con la divisione, dunque la produzione e il consumo» (Schmitt, p. 73)
Sin qui Schmitt. Ma vediamo cosa ne pensa Benveniste: «Altri verbi in greco significano dividere per esempio dateomai; ma la differenza sta in questo: nemo è dividere secondo la convenienza, per questo un pascolo spartito secondo il diritto basato sul costume si chiamerà nomos» (Benveniste, p. 62).
Si tratta di una ripartizione senza divisione e senza singola appropriazione. Se un’appropriazione c’è, è di tipo collettivo, è comunitaria. «Il nomos ha finito per designare la Legge, in primo luogo in quanto si trattava di una distribuzione, di un modo di distribuzione» (Deleuze Guattari, p. 452) dicono Deleuze e Guattari che poi citano un lavoro di Laroche:
«La radice “nem” indica la distribuzione e non la divisione, anche quando le due operazioni sono legate. Ma, appunto, in senso pastorizio, la distribuzione degli animali si fa in uno spazio non limitato e non implica una divisione delle terre. Il lavoro di pastore in epoca omerica, non ha nulla a che vedere con una divisione di terre. Far pascolare (nemo) non rinvia a suddividere, ma a disporre qua e là, distribuire le bestie. E soltanto a partire da Solone, nomos designerà il principio delle leggi e del Diritto (thesmoi e dike), per identificarsi poi con le leggi stesse» (Ivi, p. 498, nota 44)
Per rendersi conto che il nomos originario non era trattabile nei termini di cui parla Schmitt se non attraverso quella violenza simbolico-materiale che il dispositivo delle enclosures mette in atto, Deleuze e Guattari ce ne danno anche una rappresentazione figurata, paragonano il nomos al gioco del go, in contrapposizione alla polis che corrisponderebbe agli scacchi: «Nomos del go contro Stato degli scacchi, nomos contro polis» (Ivi, p. 424). Perché il go corrisponde ad una disseminazione rispetto agli scacchi che tengono il senso legato al “valore” reciproco dei pezzi. Se una regola presuppone una stanzializzazione, le lotte i desideri, i movimenti delle minoranze, le minorità evocano una nomadizzazione dell’esistere, dice Tiziana Villani (http://effimera.org/divenire-donna-partire-deleuze-guattari-tiziana-villani/).
Mi sembra evidente un passaggio: una privatizzazione di un bene comune la si potrà ottenere soltanto attraverso un’assegnazione escludente, una recinzione. In origine non si trattava dunque di un’appropriazione di un diritto d’uso, d’uso comune. L’accento dovrà essere infatti messo non sulla proprietà, ma sull’uso. Non si tratta di appropriarsi della terra, si tratta di «abitare un mondo». Un mondo non è un territorio circoscritto, racchiuso entro confini definiti, si tratta di abitudini, cosmogonie, storie da raccontare, ritmi musicali, esperienze da condividere. Ecco che emerge il plesso semantico del termine nomos che si riferisce alle consuetudini e non alle leggi, alle istituzioni/recinzioni.
Altre recinzioni, le gabbie mentali. Non basta la critica al modo di produzione, la critica dell’economia politica, occorre destituire l’economia in quanto categoria metafisica che diviene una tecnologia del dominio. Azzerare tutto perché il capitale ha costruito il suo dominio non solo attraverso l’economia, quella gli serve per incamerare il profitto, ma il comando e l’obbedienza sono stati costruiti attraverso secoli di lotta etica e di trasformazione della morale.
La recinzione come dispositivo
Le recinzioni di genere, le identità sessuali, agiscono su entrambi i generi, soltanto così infatti ci possono restituire forza lavoro «disponibile» e concentrazione domestica della riproduzione e cura con soggetti predestinati (recintati anche in senso spaziale). Tenendo però presente che in un’economia dei beni simbolici, la riproduzione biologica è subordinata «alle necessità della riproduzione del capitale simbolico». Ecco emergere un’indispensabilità simbolica di attributi aggressivi tipicamente (recinzione) maschili. Le fa da specchio, l’empatia femminile (recinzione), causa od effetto che essa sia. Si produce così un surplus di senso che funziona meglio quanto di più comporti la reverenzialità della paura (dispositivo e recinzione). L’accumulo di strumenti (delle energie) atti a suscitare il terrore fonda la prima dinamica sociale, ad essa è consustanziale l’educazione del maschio ai ruoli aggressivi da cui si dipanano alcune distinzioni di genere che fondano la supremazia maschile, che, a sua volta, forgia gli attributi, l’aura di senso, del termine “virile”. Dice Bourdieu:
«Come l’onore – o la vergogna, la sua contropartita, che a differenza del senso di colpa, sappiamo esser provata davanti agli altri – la virilità deve essere convalidata dagli altri uomini, nella sua verità di violenza attuale o potenziale, e certificata dal riconoscimento dell’appartenenza al gruppo dei “veri uomini”» (Bourdieu, pp. 63-64)
C’è un circuito dell’onore che tramite una serie di strategie (matrimoniali, successorie, economiche, etc.) orientate ad assicurare la conservazione o l’aumento del capitale simbolico, costringe l’uomo, determina per lui un’urgenza, gli dà delle cose da fare, degli investimenti agonistici, per mantenere e accrescere l’onore stesso. «Lo status di uomo nel senso di vir implica un dover essere, una virtus, che [gli] si impone» (Ivi, p. 61). Una volta entrato in circolo, in quell’ambito in cui l’onore detta le sue regole, l’uomo non si può più tirare indietro, deve in ogni momento e in qualsiasi circostanza dover (potere) affermare la propria virilità, intesa come capacità riproduttiva, sessuale e sociale, ma anche come disponibilità e attitudine alla lotta con la conseguente propensione all’uso della violenza. La vir è una prestanza, una possibilità, l’avere in potenza, una capacità di fare violenza; è dunque un attributo maschile, virile. Il termine «violento» è etimologicamente imparentato con il concetto di forza e a quello di prepotenza, recinzione legata al maschile. La forza, anche in termini «figurati» (vedi la carta dei tarocchi, VIII arcano maggiore), è invece più femminile.
Bibliografia
Rosa Luxenburg, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, Einaudi Torino, 1960
Raj Patel e Jason W. Moore, Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo,Feltrinelli, Milano 2018
Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005
Carl Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002
Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 2009
Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 2 Voll., Einaudi, Torino 1976
Gilles Deleuze e Felix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010
Commenti