Agostino Petrillo ricorda Emilio Quadrelli, con cui ha condiviso varie esperienze politiche.
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Nel reparto oncologia dell’Ospedale Galliera a Genova, poco più di un mese fa, la discussione si protraeva e si faceva accesa. Con Emilio ero raramente d’accordo in politica... Tra lo stupore dei medici, degli infermieri e degli altri attoniti malati la vivace discussione tra il degente e il suo visitatore verteva sul… leninismo. Eravamo partiti commentando la recensione del libro L’altro bolscevismo scritto da Emilio, che il comune amico Sandro Mezzadra aveva da poco pubblicato, per finire poi a parlare del Lenin degli operaisti, tra Toni Negri e Mario Tronti e del destino della forma-partito. Quanto Hegel c’è in Lenin? Marx è veramente così antiautoritario come pare? Soggettività e organizzazione in che rapporto stanno? I quesiti, antichi, insidiosi e per lo più ovviamente inevadibili, echeggiavano per le stanzette striminzite dell’ospedale, divise solo da esili paratie…A un certo punto ce ne siamo resi conto e abbiamo abbassato la voce, e mi è venuto da ridere pensando che pareva quasi fossimo finiti in una fottuta versione di sinistra di Divisione Cancro di Aleksandr Solzenycin… Nonostante la gamba gonfia e i postumi evidenti di una forte terapia farmacologica, Emilio era combattivo e intelligente come al solito. Mi confortai. Temevo di trovarlo peggio. Negli ultimi tempi lo incrociavo di rado, a qualche manifestazione e a qualche dibattito, ma ero io, più di quanto non fosse lui, ad avere diradato le mie presenze pubbliche.
Lo conoscevo di vista dal 77, lo sentii parlare in un paio di assemblee prima che finisse in galera, in particolare ne ricordo una, mi pare fossimo alla vecchia Casa dello Studente di Corso Montegrappa, in cui il suo intervento non mi avevano fatto una grande impressione, mi sembrava su posizioni dure e pure da cui mi sentivo lontano. Seppi poi che era stato arrestato e che era finito in carcere, dove rimase, tra varie condanne, per sette anni. Lo conobbi meglio quando usci definitivamente di prigione, negli anni Ottanta. Animavamo all’epoca con Sandro Mezzadra e altri compagni un circolo politico-culturale il «Pickwick», e lui comparve e comincio a partecipare a qualche riunione. Ebbi in quel periodo modo di apprezzare meglio le sue qualità personali, l’umorismo felpato e sornione sempre pronto a diventare sfottò aperto, la cultura ampia, varia, e sempre originalmente interpretata. Si era anche trasformato fisicamente. Lo ricordavo prima del carcere magro e asciutto, ne uscì massiccio, body-builder e culturista. La pratica sportiva che era diventata uno dei suoi chiodi fissi, contribui non poco a creare intorno a lui un’aura di possanza fisica che ne fece un personaggio. Lo sport lo conservava giovane, sembrava che Emilio non invecchiasse. Mi colpì, una volta che eravamo insieme a una manifestazione, un vecchio compagno che lo rivedeva a distanza molto tempo che gli disse: «Emilio ma sei tu… o sei tuo figlio?». Fu soprattutto nei Novanta però, in particolare a partire dal 1993 quando demmo vita alla Associazione Città Aperta in risposta ai pogrom antiimmigrati del luglio di quell’anno, che la frequentazione tra noi divenne più stretta. Emilio fu vicino all’associazione anche perché la sua insaziabile sete di conoscenza politica lo aveva portato a interessarsi di immigrazione, e lo trovammo al nostro fianco nei non rari fronteggiamenti con membri dei comitati e fascisti che li spalleggiavano. Nel frattempo l’arrivo a Genova di Alessandro Dal Lago aveva richiamato intorno alla Facoltà di Scienza della Formazione un gruppo di ricercatori militanti tra cui Emiio si inserì. Nel 1996 sia io che lui diventammo assistenti di Dal Lago, curando i seminari pomeridiani con gli studenti. Anni di grande lavoro collettivo di ricerca su temi che per il paese erano poco esplorati, e che condussero a una produzione scientifica che rinnovò un settore in precedenza rimasto molto accademico, quale era la Sociologia delle Migrazioni. Dal lavoro di questo periodo scaturisce il libro firmato a due mani con Dal Lago (ma la cui magna pars, non solo le centinaia di interviste, ma anche l’ideazione e la costruzione, va ascritta a Emilio) intitolato La Città e le ombre, uscito nel 2003. Il libro, tuttora citatissimo negli studi urbani, offre uno spaccato unico di una Genova sotterranea, al confine tra città legittima e città illegale. Un sottobosco liminale in cui si muovono tanto figure della piccola criminalità quanto cittadini «modello» - stimati professionisti che pagano volentieri le prestazioni sessuali di immigrati minorenni, impiegati insospettabili che prima di rincasare dal lavoro non disdegnano i favori di prostitute straniere, giovani di buona famiglia che frequentano abitualmente i pusher o tranquilli pensionati che raccolgono scommesse clandestine. Ma Emilio era anche rimasto molto legato al suo passato politico, di cui ricostruiva pazientemente vicende e aspetti, raccogliendo materiali e interviste a coloro che ne erano stati protagonisti. Da questo enorme lavoro d’indagine sarebbe scaturito Andare ai resti del 2004, uno dei libri più belli sulla stagione di rivolte degli anni Settanta, in cui viene ricostruita la vicenda delle gang giovanili che nelle grandi metropoli del triangolo industriale vanno all’assalto di quel che resta del boom economico italiano. Al crocevia tra il crimine e la politicizzazione della violenza, i protagonisti, parlano in prima persona, decisi a giocarsi il tutto per tutto, a cominciare dalla vita stessa, in una sfida di totale belligeranza verso la società. Per il suo raro talento di intervistatore e per la capacità di restituire storie e vicende personali inserendole in un più ampio contesto storico e sociologico, Emilio avviò anche una collaborazione con il Manifesto, pubblicando spesso suoi materiali sul supplemento Alias, materiali che a volte anticipavano contenuti di suoi libri successivi. Proprio in questi anni ci perdemmo progressivamente di vista, io ormai entrato stabilmente al Politecnico a Milano, lui piano piano marginalizzato dal giro accademico, e costretto a guadagnarsi da vivere con altre attività. Venne ancora qualche volta a fare lezione da me a Milano, e furono lezioni che gli studenti apprezzarono molto. Faticai anche a pagargli queste sue collaborazioni, perché era così distratto da darmi due volte un IBAN sbagliato su cui accreditargli il compenso… Ci si incrociava ancora nei centri sociali, ricordo un paio di belle discussioni al Crash di Bologna. Gli ultimi suoi libri li avevo guardicchiati senza in realtà leggerli con attenzione, mi parevano tentare di istituire una continuità con il passato che non mi convinceva, ma L’altro bolscevismo lo avevo trovato originale e interessante, come provai a spiegargli nella nostra concitata chiacchierata ospedaliera. Nella mia memoria rimane la sua figura come quella di un pezzo di Settantasette orgoglioso e non sconfitto, coerente con le proprie convinzioni fino all’ostinazione, ma anche capace a volte di dire ancora una parola significante e di offrire una riflessione utile alle generazioni successive, in condizioni storiche così profondamente mutate. Come recitano i versi di una bellissima poesia di Dylan Thomas: «in noi, esiliati, risvegliamo il molle, inerme, scabro e setoso amore, che frantuma ogni pietra».
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Agostino Petrillo, architetto e filosofo, professore associato al Politecnico di Milano. È direttore del corso di perfezionamento in Cooperazione internazionale allo sviluppo. Collabora a riviste specializzate – «Sociologia urbana e rurale», «Mondi migranti», «Filosofia politica», «Territorio», «Archivio di studi urbani e regionali» – e al quotidiano «il manifesto». Traduce articoli e saggi di numerosi studiosi tra cui Foucault, Maffesoli, Mike Davis, Loic Wacquant. Tra le sue pubblicazioni: I confini della globalizzazione. Lavoro culture cittadinanza (manifestolibri 2000); Max Weber e la sociologia della città (Franco Angeli, 2001); Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Aires, Genova (ombre corte 2004); Villaggi città megalopoli (Carocci 2006); Peripherein: pensare diversamente la periferia (Franco Angeli 2013).
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