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Döblin e la Nuova Oggettività




Nel mio saggio appena pubblicato da DeriveApprodi Il collasso della coscienza borghese. Dall’uomo della folla all’uomo senza qualità, analizzo il percorso identitario della borghesia e la sua crisi a contatto con la civiltà di massa e della folla, quali si manifestano nella Storia della Letteratura fino alla cosiddetta narrativa del «flusso di coscienza». In questo contributo inedito, considero un romanzo (Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin) che fa parte di quest’ultimo filone, ma con una sua specificità: il protagonista è un proletario. (G.M.)


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Commentando Berlin Alexanderplatz (1929) di Alfred Döblin, Ladislao Mittner scrive:

Dal punto di vista formale il romanzo, i cui capitoli sono preceduti da sunti in forma di didascalie simili a quelle di cui sulle orme del cinema anche il teatro aveva cominciato a fare uso, è in gran parte un ‘reportage’ con inserzioni di notizie giornalistiche, di slogan commerciali e di canzonette di moda. Il procedimento, indubbiamente àddito, rende faticosa la lettura del romanzo molto lungo e troppo superfluamente lungo; ma il trucco diventa poi la sostanza stessa del romanzo, sostanza genuina, perché la ripetizione ostinata di tanti elementi tecnicistici crea una specie di flusso irresistibile, che si rivela più forte della volontà del protagonista ed a tratti anche del senso critico del lettore. La tesi e lo stile vengono allora a combaciare; la metropoli è il destino del protagonista, che gira, disperato, sconvolto, ma spesso anche divertito per le strade della città-alveare, stordito dalle sirene e dai clacson, dalla réclame diffusa contemporaneamente da tutti gli altoparlanti e dalle facili canzoni fischiettate da tutti i passanti[1].

La descrizione di Mittner non rende giustizia al romanzo di Döblin e appare al contempo generica e «àddita», cioè aggiuntiva ed eccedente. Il procedimento rimproverato a Döblin non è poi così diverso da quello dell’Ulisse di Joyce, del Potomak di Cocteau, del 42° parallelo di Dos Passos e dello stesso Uomo senza qualità di Musil, che si apre con un capitolo dedicato al caotico traffico urbano. Il presunto tecnicismo per didascalie di Döblin è in realtà ironia sulla scrittura stessa (Il mercoledì nero di Reinhold, ma questo capitolo si può anche saltare, è il titolo di un capitolo del Libro Nono). Quanto al «superfluamente lungo», che dire allora dei lunghissimi e tagliatissimi romanzi di Thomas Wolfe? Il punto non è il gradimento del critico, ma comprendere criticamente il senso di questa narrativa dell’epoca, infelicemente e felicemente smarrita nel «flusso irresistibile», appunto, della moderna civiltà di massa, e cosa contraddistingua la poetica di Döblin.

Meglio affidarsi al contemporaneo, e berlinese, Walter Benjamin che in un suo saggio del 1930, tradotto in prefazione all’edizione italiana di Berlin Alexanderplatz, riconduce il romanzo all’epica classica, analogamente, ma non necessariamente all’Ulisse di Joyce, in quanto Döblin si contraddistingue stilisticamente per un procedimento assai specifico: il montaggio. La tecnica è al fondo, cinematografica. All’inizio del romanzo, il protagonista Franz Biberkopf, appena uscito dal carcere, si infila in un cinema.

Il grande locale era pieno zeppo, novanta per cento di uomini col berretto in testa, che non si tolgono. Al soffitto tre lampade velate di rosso. Davanti un pianoforte giallo con sopra dei pacchetti. Un’orchestra che faceva un chiasso ininterrotto. Poi buio e il film comincia. Si tratta di educare una bambina, non si capisce però chiaro perché. Si puliva il naso con le mani, sulle scale si grattava il di dietro e tutto il cinematografo rideva. Una strana sensazione invase Franz a sentire quel riso sommesso intorno a lui. Uomini liberi che si divertono e nessuno ha niente da dire, oh quant’è bello ed io sono qui in mezzo a loro. Il film continuava. Un elegante barone aveva un’amante che stava distesa su una amaca e alzava dritte in aria le gambe. Aveva le mutandine. Chi sa perché la gente si commuove tanto quando torna la cenerentola tutta sporca, e si diverte perché lecca i piatti! Ed ecco di nuovo quella delle gambe. Il barone l’aveva lasciata sola e lei scendeva barcollando dall’amaca e correva tra l’erba e si buttava lunga distesa. Franz fissava lo schermo ed ecco già un altro quadro: ma lui vedeva ancora quell’altra correre e stendersi nell’erba. Si masticava la lingua, oh Dio, che cosa era. Quando poi un altro, che però era anche l’amante della cenerentola, comparve ad abbracciare questa bella donna, sentì nel petto come la sensazione di abbracciarla lui stesso. Gli andò alla testa e si sentì ammazzato. Una donna. (C’è altro a questo mondo, che terrori e dolori. Perché tante glorie? Aria, amico, qui ci vuole una donna!)[2].

La mente di Franz rievoca memorie carcerarie: il suo spiare, attraverso le inferriate della cella, qualche donna occasionale che attraversa il cortile. Quando esce dal cinema, va a cercarsi una donna.

Si descrive una «nuova oggettività» della percezione: il film è muto, il linguaggio è gestuale. Il racconto cinematografico è un montaggio di scene che pur nell’intreccio mantengono ciascuna una propria iconicità e richiamano modelli, stereotipi conosciuti, estraibili dal contesto. Il tempo si moltiplica: c’è il tempo del film; c’è quello del riconoscimento (l’immagine stereotipo); quello della percezione interiore (l’immagine della bella donna che corre e si distende nell’erba, permane in Franz anche quand’è passata, cioè si è fissata in lui); quello della sensazione, che dal racconto cinematografico si astrae nel momento stesso in cui lo spettatore viene coinvolto; c’è infine il tempo del desiderio, sollecitato e al contempo sorgivo, e della ricerca di una donna vera, una qualsiasi, là fuori, all’esterno della sala cinematografica.

La «Nuova oggettività» (Neue Sachlichkeit) era una corrente artistica tedesca di radice espressionista, distinta dal realismo perché intrisa di elementi visionari, all’incrocio tra la crudezza verista e il realismo magico. Il soggettivismo caratteristico del movimento espressionista, cedeva a un’esigenza di rappresentazione sociale oggettiva e allo stesso tempo tale rappresentazione si esprimeva in grottesco, cioè nel caricare all’estremo le distorsioni, anche percettive, della società, degli individui, degli ambienti, degli stili di vita e dei messaggi caratteristici della civiltà urbana di massa, e nella riproducibilità tecnica di tali raffigurazioni, diffuse a stampa. Döblin ne fu, a suo modo, l’esponente letterario. Vediamo come racconta il delitto che il suo protagonista ha scontato con quattro anni di carcere.

Franz ha ucciso la sua fidanzata, Ida, il cognome non importa, nel fiore degli anni. Questo è successo in seguito ad una discussione avvenuta tra Franz e Ida, in casa della sorella di lei, Minna, in conseguenza della quale furono dapprima danneggiati i seguenti organi della donna: la pelle del naso presso alla radice, e l’osso che c’è sotto con la cartilagine, la qual cosa però fu notata soltanto all’ospedale ed ebbe poi una certa parte negli atti giudiziali, inoltre la spalla destra e la sinistra che riportarono leggere contusioni con uscita di sangue.

La descrizione oggettiva si esaspera fino a un rapporto da coroner, spogliato di ogni emotività. A questo punto, Döblin opera una conversione a U, descrivendo la furia che ha posseduto l’assassino nell’atto e i fenomeni emotivi che l’hanno scatenata.

A questo punto però le parole diventarono vivaci. Le espressioni «ruffiano» e «sfruttatore» eccitarono terribilmente Franz Biberkopf, un poco decaduto moralmente, sì, ma sensibilissimo nell’onore, il quale era eccitato anche per altri motivi.

Segue il gesto omicida, compiuto colpendo al petto Ida, più volte, con un frullino. Dall’esterno si passa a una descrizione anatomica interna del corpo della vittima e a un’esposizione delle leggi che presiedono alla «rigidità, elasticità, colpo e contraccolpo». Si cita Newton e se ne trascrivono le formule. La narrazione epica si ribalta in anti-epica. Si considerano le cose da un punto di vista «aggiornato e moderno», descrivendo la dinamica del movimento di Ida in caduta. Solo a conclusione del fenomeno, si portano in scena le erinni e il loro grido d’orrore che si propaga in fuoco. E poi si scarta di nuovo, rimarcando il contrasto con le moderne telecomunicazioni che si diffondono per irradiazione e tramite un meccanismo del tutto neutro. «Entusiasmarsene è un po’ difficile; funziona, e questo è tutto».

Tale contrapposizione continua, a montaggio serrato e spiazzante, tra l’enfasi epica e lirica e la raggelante oggettività del linguaggio tecnico-scientifico, si ritrova pari pari nel Kabarett berlinese dell’epoca. Per esempio in Hungerkünstlerin (L’artista della fame) di Friedrich Hollaender, canzone ispirata a un racconto di Kafka del 1922. Nella versione di Hollaender, in dialetto berlinese, si narra la storia di Fakira, un’attrice ridotta alla fame che del suo protratto digiuno fa spettacolo, esibendosi sempre più smagrita dentro un acquario. La performance si prolunga per ventitre giorni, finché il corpo nudo e scheletrico di Fakira si blocca in una fissità obitoriale. Segue una descrizione da coroner, illustrata per tavole anatomiche, che raffigurano il corpo di Fakira a brani, con relativi valori, come tranci di bue contrassegnati dai prezzi. Infine, la diagnosi della causa di morte: «È morta per una cotoletta di vitello». Si implica che qualche spettatore impietosito le abbia passato una bistecca. Fakira è morta per aver mangiato, non per aver digiunato. Fa ridere questa canzone da Kabarett? Con tutta la buona volontà, no. Il risultato è grottesco. Eppure nella sua raggelante esposizione tecnica, la canzone è potentemente espressiva e rimanda a uno spettacolo, teatralizzato, assai più violento che se venisse rappresentato secondo i codici del Grand Guignol. Nuova oggettività espressionista.

E veniamo a un altro tratto spiegato magistralmente da Walter Benjamin. Perché il romanzo si intitola Berlin Alexanderplatz e il nome del protagonista compare soltanto in sottotitolo?

Cos’è Alexanderplatz a Berlino? È il luogo in cui, da due anni, accadono le trasformazioni più violente, scavatrici e battipali sono incessantemente in attività, il terreno vibra per i loro colpi, per le colonne di autobus e di tram, più profondo che altrove le viscere della città, i cortili che si affacciano su Georgenkirchplatz, e più silenzioso che altrove tra gli inquieti labirinti di Marsiliusstrasse (dove i funzionari della polizia per stranieri sono alloggiati in un grande edificio), vicino a Kaiserstrasse (dove, di sera, le prostitute fanno la loro vecchia passeggiata), luoghi che hanno tenuto dagli anni novanta. Nessun luogo industriale, affari soprattutto, piccola borghesia. E quindi il suo negativo sociologico: i malviventi, che trovano il loro rinforzo numerico tra i disoccupati. Uno di questi è Biberkopf.

La vicenda si svolge in un raggio di mille metri. L’esistenza di Biberkopf è tutta racchiusa in questo cerchio. Alexanderplatz domina il suo «Dasein». In tal senso e in tale considerazione del sociale, «la storia di Döblin è borghese, e quasi più limitatamente per origine che per tendenza ed intenzione». La nozione di borghese viene così ricondotta all’origine, cioè al borgo. Continua Benjamin:

Ciò che qui emerge di nuovo con forza improvvisa e affascinante è la grande illusione di Charles Dickens, in cui borghese e delinquente sono così meravigliosamente affiatati tra loro, perché hanno i loro stessi interessi (certamente opposti) in uno – e in uno stesso – mondo. Il mondo di questi malviventi è omogeneo a quello borghese; l’itinerario di Franz Biberkopf, da sfruttatore di donne a piccolo borghese descrive solo un’eroica metamorfosi della coscienza borghese.

Tale coincidenza tra borghesia, piccola borghesia e sottoproletariato, nel luogo condiviso e nella contrapposizione degli interessi, la si osserva anche nella Dublino dell’Ulisse di Joyce. Si tratta davvero di una metamorfosi della coscienza borghese se confrontata alla coscienza borghese esplorativa e dispersa, ma tutto sommato chiusa in sé, esclusiva ed escludente, descritta da Musil nell’Uomo senza qualità. Si tratta di una borghesia intrinsecamente relazionata alla folla. Per origine più che per tendenza ed intenzione.

Quali sono le tendenze e quali le intenzioni? C’è chi va a est, chi a ovest, in tutte le direzioni, chi scompare e chi ricompare. «Cosa succede in loro? – chiede e si chiede Döblin - Chi potrebbe dirlo? Sarebbe un capitolo enorme. E se anche lo si facesse, a cosa servirebbe?». Queste domande ricordano quelle che si pone e pone al lettore Elizabeth Gaskell nel suo romanzo del 1848 Mary Barton, seguendo l’operaio John Barton lungo London Road, a Manchester, tra fiumi di passanti: «Come si possono sapere le intricate vicende di ogni vita? Le dure prove che ognuno sopporta? […] Non avete mai pensato dove sono dirette le migliaia di persone che incontriamo ogni giorno per la via?»[3]. Il punto di vista di Gaskell è però sociologico-sentimentale e si apre a interrogativi religiosi e morali tipicamente cristiani, quello di Döblin resta oggettivo e comportamentale. Intendiamoci: sono numerosi e ostentati, nel romanzo, i richiami alla tradizione ebraica, ma interpolati, nel senso che non scaturiscono direttamente dai personaggi. Un esempio: nei frammenti che fanno riferimento al Libro di Giobbe, non per caso la voce immateriale con cui dialoga Giobbe-Biberkopf è per lui la voce, irriconoscibile, di un seccatore estraneo e molesto. La tradizione religiosa aleggia su di lui, gli è vicina, lo ammonisce e lo protegge, ma è per Biberkopf un retaggio dimenticato, inconsapevole.

L’ultimo interrogativo (a cosa servirebbe?) introduce a una riflessione sarcastica sullo stato della narrativa nella società di massa, il calo delle vendite perennemente lamentato, la dispersione delle pubblicazioni, la scarsa incidenza della scrittura sull’ “educazione sentimentale” del popolo, il declino, insomma, della fiducia ottocentesca nella letteratura come guida o orientamento della coscienza collettiva. Quelle persone in incessante movimento…

…leggono giornali di diversi partiti, conservano l’equilibrio in grazia della chiocciola auricolare, immagazzinano ossigeno, s’appisolano, hanno dolori, non hanno dolori, pensano, non pensano, sono felici, sono infelici, non sono né felici né infelici.

Si cerca di orientarle attraverso le affissioni pubblicitarie e la radio, invitandole, per esempio, a contribuire al successo di un lavoro teatrale, ma «in una città di quattro milioni di abitanti c’è una considerevole quantità di gente». Gli invitati possono non aderire all’invito per i più svariati motivi: non vi hanno prestato attenzione, hanno altri impegni, sono malati o momentaneamente lontani, e possono anche dubitare della veridicità del messaggio pubblicitario. La segnalazione che la commedia è «piacevole, a chi fa piacere, per che cosa piace, come può arrivare a piacermi, non ho nessun bisogno che mi piaccia».

È chiaro: in una grande città come Berlino molti ci sono che dubitano e trovano da ridire e criticano tutto, anche parola per parola, il manifesto pagato così caro dal direttore. E anzitutto non vogliono saperne del teatro.

Il modo in cui Döblin considera la folla, è, come si vede, diverso da quello di Gaskell, divergente da quello di Poe, e opposto a quello di Musil che legge nel flusso dei passanti e del traffico urbano numeri, traiettorie, relazioni matematiche e dinamiche, qualità misurabili senza qualità umana specifica, o quanto meno dubitabile. Lo sguardo di Döblin è ironico e rinviene ironia nei soggetti stessi. Ci si astiene dalla sollecitata partecipazione a un certo evento perché si partecipa a un altro o a nessuno in particolare, in virtù delle più diverse urgenze. Ci si raduna tanto quanto ci si disperde. L’indifferenza è critica, attiva, tutt’altro che apatica. Il movimento compatto non è necessariamente eccitato. Ciascuno, in quella folla, ha i suoi affari e le sue faccende da sbrigare o da lasciare in sospeso, il suo stato d’animo, i suoi gusti e le sue ubbie. Sono massa, ma non cessano di essere individui. Si può misurare la massa, ma le particolarità dei singoli sono incommensurabili, e poi… avrebbe davvero senso misurarle, classificarle, descriverle una per una e nelle loro relazioni, in un romanzo potenzialmente infinito destinato all’incompiutezza e all’ininfluenza sul senso di sé della gente? Döblin, nella sua scrittura, non è affatto orientato al superfluo, come sostiene Mittner, anzi segue un protagonista ben individuato, il suo errabondo e confuso procedere alla giornata, le relazioni che lui stesso intrattiene nel gran caos di trasformazioni quotidiane rumorose, che abbattono interi edifici, anche storici e dal glorioso passato, per edificare chissà cos’altro al loro posto, metamorfosando un’identità urbana che è cantiere permanente di eterni «lavori in corso», tra i quali si intrecciano e ramificano percorsi. Döblin si applica a seguirne uno, per tappe scandite in capitoli progressivi e ordinati.

Il tempo storico in quotidiano divenire è costituito, nella percezione pubblica, da notizie che aleggiano e si susseguono in una dimensione a parte, e si vendono, sulla stampa, tanto più quanto più incentrate sugli eventi sportivi e sulle crisi di governo. Il soggetto Biberkopf non dà notizia di sé, si nasconde, riappare, trova nuove amicizie, ne ritrova di passate apprendendo, in ritardo, di eventi passati e mal ricostruiti da questo e da quello. Il borgo è sempre lo stesso, ma non è mai identico. Il percorso di Biberkopf è un perpetuo adattamento che non può arrestarsi in stabilità alcuna. L’unica stabilità che Biberkopf ha conosciuto è stata quella dei quattro anni in carcere. L’ordine possibile che in diverso modo, lentamente e per accesi contrasti, si profila, sarà quello della distopia nazista.

Ma il romanzo conosce squarci improvvisi di gioia, incongrui perché capitano anche nel momento meno consono, sole dopo la neve, schiarite dopo il buio, ed è già mattina e, appena svegli, ci chiediamo chi siamo, e allora lo zero tra altri zeri sa di essere qualcuno, perché sente di esserlo, come in questo meraviglioso frammento lirico, all’apparenza digressivo, che Döblin inserisce proprio dopo che Biberkopf è stato gettato fuori da un’auto ed è finito sotto un’altra, e giace nel fango non si sa se vivo o morto.

E quando il sole sorge e noi ci rallegriamo, in realtà dovremmo rattristarci: che cosa siamo noi mai? Il sole è 300.000 volte più grande della Terra e quante cifre e quanti zeri ci sono ancora che dicono che noi siamo zero, niente, proprio niente. Buffo davvero, di rallegrarsi allora. Eppure ci si rallegra quando si vede la bella luce, bianca e lucente, e nelle stanze si ridestano tutti i colori e ricompaiono i volti, i lineamenti. Dolce cosa è passare le mani sulle forme, ma vedere, vedere, vedere i colori e le linee, è una felicità. E ci rallegriamo tutti e possiamo mostrare cosa siamo, cosa facciamo, cosa sentiamo. E in aprile ci rallegriamo anche di quel po’ di tepore così come si rallegrano i fiori che possono crescere. Devono essere un errore, uno sbaglio, tutti quei terribili zeri. Sorgi pure o sole, non ci fai paura. Indifferenti ci sono i tanti chilometri e il tuo diametro e il tuo volume. Caldo sole, sorgi pure, sorgi chiara luce. Tu non sei grande, tu non sei piccolo, sei soltanto una gioia.

La vera anomalia di Berlin Alexanderplatz all’interno della nuova narrativa del flusso, sta nel fatto che nel romanzo accadono un sacco di cose: delitti, furti, imbrogli, traffici sessuali, e ciò in virtù del fatto che Biberkopf è un personaggio popolare, non un borghese. Biberkopf non riflette sulla strada e sulla folla, è per strada e tra la folla. I suoi riferimenti culturali sono nelle canzoni, i suoi incontri sociali non avvengono nei salotti, ma nelle bettole. Vive in stanze d’occasione, non nella sua casa, non si esprime nell’arredamento e non appartiene all’arredamento. Una sedia può diventare un’arma, un letto un nascondiglio, i mobili sono comunque sempre all’incanto. Gli interrogativi e le scelte morali di Biberkopf sono concretissimi: rubo o mi procuro un lavoretto onesto? I suoi orizzonti non sono politici, Biberkopf può ritrovarsi tra gli ex-combattenti culla del nazismo, tra gli anarchici sprezzatori della socialdemocrazia, tra i beneficiati dall’Esercito della Salvezza, senza appartenere a credo alcuno. La coscienza della sua condizione precaria è più forte di ogni coscienza ideologica permanente. Si tratta, nella vita, di procurarsi un po’ di soldi per bere, mangiare, vestirsi alla buona. Le donne non rappresentano per lui l’Eterno Femminino, ma questa o quella compagna di vita felice finché dura. A Biberkopf non importa nulla di essere uno, nessuno, centomila, perché vive nella sensazione di esserci, sempre, nella caduta e nella mutilazione, nel rimettersi in piedi e nel ritrovarsi integro e forte.

Il romanzo popolare è ben presente: c’è un cattivo (Reinhold) tra i più fetidi che si possano immaginare, e una vittima predestinata (Mieze) tenera e fragile come un cardellino, caratteri estremi, da cinema muto. E c’è anche un simbolismo ebraico che ricorda Lion Feuchtwanger, più che Joyce. Il romanzo di Feuchtwanger, Jud Süß (Süss l’Ebreo) era uscito quattro anni prima: anche in questo romanzo figure mitologiche si incarnavano nei personaggi configurandosi altrimenti, in una libera trasposizione. Qui, nella parte conclusiva, l’anima di Biberkopf appare fuori di lui e sdoppiata, sotto forma di due angeli protettori che lo accompagnano per strada, rendendolo invisibile agli altri, in particolare alla polizia. Questi angeli, tra loro dialoganti e oppositivi, rispecchiano i due cugini ebrei che Biberkopf incontra al principio del romanzo: il rosso, che lo accoglie e lo assiste, e il bruno che vorrebbe sbarazzarsene. Gli angeli si chiamano Sarug e Terah. Sarug rimanda al patriarca omonimo, Terah a suo nipote, padre di Abramo. Dunque Sarug dovrebbe essere anziano e Terah giovane. Eppure, enigmaticamente, Döblin li scambia: il più anziano è Terag, mentre Sarug è «ancora molto giovane» e la sua esperienza delle cose umane è limitata a «un paio di migliaia d’anni»: non sa perché gli è stato assegnato il compito di proteggere gli umani, la memoria gli è stata «tolta interamente». I due angeli discutono dell’«ex-assassino, scassinatore, ruffiano» che stanno scortando. Perché non lasciarlo a se stesso? Sarug vorrebbe, ma Terah insiste che Biberkopf non dev’essere abbandonato: anche se desidera morire, sta attraversando una fase di passaggio necessaria, che si può sperare riesca a superare, perché è «forte e intatto». Fin dal principio Döblin ha avvisato il lettore che questo incontro con gli angeli, di cui Biberkopf nemmeno si rende conto, è tuttavia decisivo: «Si avvicina il momento in cui tutto si illuminerà». La forza, cioè l’elemento identitario su cui si fonda la speranza di riscatto di Biberkopf, sarà il tratto di cui lui dovrà liberarsi. Dal suo abbandono, fino all’annullamento, dal suo consegnarsi alla Morte (che gli compare in manicomio con la sua grande falce luminosa) originerà la sua rinascita. E a quel punto, Franz potrà conoscere il suo secondo nome che è Karl. Spiega Benjamin a proposito di questo intricatissimo passaggio:

Come gli ebrei durante il «Barmizwoh»[4] rendono noto al bambino il suo secondo nome, che fino allora era rimasto segreto, così Döblin dà a Biberkopf un secondo nome. Da ora egli si chiama Franz Karl. Appare molto strano che contemporaneamente a questo Franz Karl diviene secondo portiere in una fabbrica. Noi non vogliamo affermare che questo non sia sfuggito a Döblin, sebbene tenesse d’occhio attentamente il suo eroe. In questo passo, cioè, Franz Bieberkopf ha smesso di essere esemplare e, vivente, è stato assunto nel cielo delle figure romantiche.

La spiegazione di Benjamin pare ancor più enigmatica del passo. È semplicistico pensare che non per caso il secondo nome (fin qui segreto) sia Karl e che venga rivelato nello stesso momento in cui Bieberkopf diventa da sottoproletario sbandato qual era, il custode di una fabbrica? Cosa lega Karl e la fabbrica? Marx. Si tratterà pure di romanticismo, ma è romanticismo socialista, ricondotto a una radice culturale ebraica. Il contesto lo chiarisce. Per Döblin, Franz è un predestinato alla sconfitta perché nella folla, ha sempre camminato da solo.

Molto male viene dal fatto che si va soli. Se si è in parecchi, è già diverso. Bisogna abituarsi ad ascoltare gli altri, perché quello che dicono gli altri riguarda anche me. Io mi accorgo allora chi sono e cosa posso fare. Dappertutto, attorno a me, si combatte la mia battaglia, devo stare attento, prima ancora di accorgermi sono arrivato. Franz è aiuto portiere in una fabbrica. Cosa è il destino? Una cosa più forte di me. Se siamo due, è già più difficile essere più forte di me. Se siamo dieci, è ancor più difficile. E se siamo mille e un milione è difficilissimo.

La rinascita dell’Ebreo Errante Biberkopf sta nella coscienza di classe. La sua lotta contro il destino è Proletari di tutto il mondo unitevi. Non che Biberkopf si lasci del tutto sedurre da tale apparente soluzione.

Spesso marciano sotto la sua finestra con bandiere, musica e canti, Biberkopf guarda freddamente fuori della porta, e altrettanto tranquillo se ne sta a casa. Tiene la bocca chiusa e segna il passo e marcia assieme a noi. Se devo marciare, poi mi toccherà pagare con la mia testa le idee degli altri. Perciò prima faccio tutti i conti e se mi fa comodo mi muoverò. L’uomo fa uso della sua ragione e gli scemi fanno invece una corporazione.

La marcia può condurre alla rivoluzione e/o alla guerra. La marcia non è un valore in sé. Bisogna stare attenti, e sentirsi, sapersi, personalmente responsabili.

Bisogna stare all’erta, tenere gli occhi aperti, fare attenzione, mille insieme, chi non si sveglia sarà preso in giro e ci rimarrà. Dietro a lui rulla il tamburo, marciate marciate. Andiamo alla guerra con passo sicuro, cento suonatori vengono con noi, alba e tramonto risplendono per noi, per la nostra morte precoce. Bieberkopf è un piccolo operaio. Sappiamo quel che sappiamo, abbiamo dovuto pagarlo caro. Andiamo verso la libertà, il vecchio mondo deve crollare, destati è l’aria fresca dell’aurora.

L’orizzonte verso cui ci muoviamo tutti insieme (mentre l’io pare fondersi nel noi) è la liberazione, l’affrancamento dal destino, o è piuttosto la guerra, l’antica, già tragicamente sperimentata guerra che ci consegna a un sacrificio ineluttabile e inutile? Il romanzo si conclude con questo richiamo alla vigilanza, tra il rullo incessante dei tamburi: la prospettiva più probabile è la guerra. La marcia è di tutti, ma la coscienza non può ridursi a questo. Bisogna fare bene tutti i conti, e muoversi solo se fa comodo. L’anima coincide con l’uso di ragione. È fallace, per ciascuno e per tutti, sostituire alla ragione la corporazione. Döblin rimarca la persistenza della contraddizione. La massa è forza e insieme debolezza se la scelta da compiere, individuale e collettiva, non è chiara. L’uomo che ha sempre vagabondato (l’Ebreo Errante, appunto, in cui già Eugène Sue aveva simboleggiato il proletariato[5]) resta comunque individuo fuori dal gruppo, portatore di un destino che lo supera, ma che non può annullarsi in destino collettivo.

Basta la coscienza di questo scarto per risolvere il problema dell’identità personale? Nel ricorso al mito, affiora il sospetto di ideologismo. E Döblin lo ammette. In una conferenza del 1932 (riportata in appendice alla citata edizione italiana) afferma:

Inoltre, devo accennare a un indirizzo filosofico, o meglio metafisico. Premessa a ciascuno dei miei lavori epici maggiori è sempre una elaborazione ideologica. Vorrei dire che l’opera epica rappresenta la continuazione e la realizzazione in forma artistica, e costituisce al tempo stesso il banco di prova della posizione ideologica cui si è giunti nell’elaborazione spirituale preliminare. Sicché avviene di solito che alla fine di un’opera epica la mia posizione ideologica sia nuovamente superata e vacillante. Parte da una sicurezza e termina con un interrogativo.

In una Nota a una ristampa (1955), Döblin la racconta in tutt’altro modo. Sostiene che il suo intento iniziale si ricollegava all’opera epica Manas, poema indiano risalente al XVIII secolo ma presumibilmente di tradizione più antica, o forse una complessa rielaborazione di miti assai mescolati, kirghisi, turchi, cinesi, con buona dose di invenzione già «romantica».

E subito dopo il Manas indiano mi diressi verso un Manas in versione berlinese. Non disponevo di un materiale particolare, ma la grande Berlino mi circondava, e conoscevo il berlinese individuo singolo, sicché scrissi come sempre senza un piano preciso, senza una linea direttrice, alla ventura, e non architettai una favola; la direttrice era il destino, i tentativi di un uomo fino allora fallito.

E dunque: Döblin ha scritto secondo un piano ideologicamente prefissato e infine, se non sconfessato, quantomeno posto in dubbio; oppure si è abbandonato al flusso della scrittura, senza una linea direttrice, come al destino, trovando infine una direzione in un tentativo di orientare il destino?

Il mondo, per Döblin, è costituito da due elementi: «l’ordine e il disfacimento». L’uno non esiste senza l’altro. Il pensiero filosofico di Döblin si fonda su una dialettica tra contrari che non conduce ad alcuna sintesi definitiva o superiore, ma si riproduce costantemente, circolarmente, a diversi livelli. L’anima è contraddizione perpetua. Inquietudine in cerca di quiete, quiete inquieta.



Note [1] L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, 10 Tomi, Einaudi, Torino 1977. [2] A. Döblin, Berlin Alexanderplatz (traduzione di Alberto Spaini), Rizzoli, Milano 1974. [3] E. Gaskell, Mary Barton (traduzione di Fedora Day), Elliot, Roma 2016. [4] Festa ebraica in cui a tredici anni si viene accolti come membri della comunità. [5] Cfr. Eugène Sue, Le Juif errant, 10 voll, Paulin, Paris 1845.


Immagine: Julien Blaine


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Gianfranco Manfredi (1948) è uno dei cantautori più importanti del decennio Settanta. Sceneggiatore cinematografico e televisivo, dagli anni Novanta passa al fumetto, dove, lavorando per la Bonelli editore, scrive storie per Dylan Dog, Tex e Nick Raider. Ha scritto e pubblicato saghe a fumetto di grande successo, quali Magico Vento, Volto Nascosto e Shanghai Devil, oltre a numerosi romanzi (Cromantica 2008) e al saggio Ma chi ha detto che non c’è (2017). Per DeriveApprodi ha pubblicato: C’era una volta il popolo (2020), A qualcuno piace scorretto (2022) e Il collasso della coscienza borghese (2023).

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