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Dopo la gentrificazione? Macerie sociali, disuguaglianze economiche



Inauguriamo la nuova curatela della sezione Disurbanità con un testo di Luca Alteri che riflette a partire da Dopo la gentrificazione. Un quartiere economico dalla crisi economica all’abitare contemporaneo di Alessandro Barile, Barbara Brollo, Sarah Gainsforth e Rossella Marchini.


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Dove eravamo rimasti? La gentrificazione ci ha insegnato come il profitto oggi si accumuli anche dal territorio, non solo dalla dialettica capitale/lavoro, soprattutto – evidentemente – per quei paesi che hanno scelto con convinzione (sic) la strada della de-industrializzazione. Cambiano le modalità di estrazione del valore, ma non il dinamismo e «l’intelligenza» con cui il capitale compie tale operazione: ne consegue che le modalità, le intensità e le velocità di sviluppo del processo gentrificatorio mal si prestano ad ampie generalizzazioni e rispecchiano, anche da questo punto di vista, l’eterogeneità dello sfruttamento «classico», quello esercitato contro la classe operaia. Qui, però, parliamo di «rendita», non di «produzione», e le opzioni sono così numerose da rendere persino poco praticabile l’idea che appartengano tutte alla stessa «famiglia». Capita, quindi, che il medesimo territorio veda coesistere, al suo interno, aree dedicate alla rendita «originaria» (la rendita 1.0, verrebbe da dire), cioè l’affitto di medio periodo agli studenti universitari fuorisede; altre destinate a rimanere «quiescenti», perché la proprietà (raramente costituita da una persona fisica) reputa che la loro immissione successiva sul mercato sarà maggiormente profittevole; altre ancora sperimentano una sorta di «project financing speculativo», in cui il pubblico concede permessi e deroghe sulla base della presunta utilità sociale dell’opera, che il privato, però, destinerà a un’utenza dall’ampia disponibilità economica (da questo punto di vista, la vicenda degli «studentati di lusso» è emblematica); altre porzioni di territorio, infine, rimarranno appannaggio quasi «romantico» delle bolle immobiliari in via di esaurimento (per zone urbanistiche in cui tuttora ci sia una forte domanda di alloggi), quasi si trattasse di qualche anziana meretrice che ancora conta su pochi clienti affezionati. Ebbene, tutte queste diverse opzioni hanno un contemporaneo punto di caduta, dentro la città di Roma, in uno specifico quartiere: San Lorenzo. È inevitabile, quindi, che diventi il set di un saggio a più mani, che già dal titolo viene incontro a una domanda dirimente, così importante che – per quanto da tempo aleggi nell’aria – spesso si ha imbarazzo a porre: cosa accade dopo la gentrificazione? Un quartiere che abbia visto esaurirsi la sua vena sostitutiva di residenti storici con «nuovi arrivi» affluenti, con alto livello culturale ed economicamente ben dotati, a cosa è destinato? Forse torna indietro, «richiamando» i suoi cittadini prima espulsi? La gentrificazione è un processo reversibile? Quando la civiltà e il cemento si fermano, come – viene raccontato – intorno alla centrale nucleare di Chernobyl, la natura riprende il suo corso e rioccupa quello che l’azione antropica le aveva espropriato: lì sono tornati i cervi e persino i bisonti (e magari nei corsi d’acqua ci sarà pure il «pesce triocchiuto» caro ai Simpson), ma anche i ruderi di archeologia industriale di cui è piena l’Italia sono riconquistati da piante rampicanti e dalle frasche degli alberi. Con le dinamiche umane, però, il ragionamento è più complesso e la domanda sul post-gentrificazione rischierebbe di rimanere inevasa, se non ci fossero lavori come quello firmato da Alessandro Barile, Barbara Brollo, Sarah Gainsforth e Rossella Marchini, per i tipi di DeriveApprodi.

In Dopo la gentrificazione. Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare temporaneo il lettore non troverà semplicemente l’autopsia di un quartiere prima sedotto da ricchezza effimera, poi abbandonato al suo destino di area «a uso investimento»: San Lorenzo è il paradigma di un tessuto urbano che continua a essere escludente, come nel modello della «città neoliberista», ma che nel frattempo ha visto atrofizzarsi il circuito di «comunità resistenti» che davano ossigeno a modi alternativi di concepire le relazioni sociali oppure, semplicemente, a singoli soggetti a rischio di impoverimento. La tolleranza istituzionale nei confronti delle occupazioni a scopo politico oppure abitativo, l’inviolabilità – per le forze dell’ordine e per i militanti dell’estrema destra – di alcune strade, la perimetrazione di fatto – senza previa richiesta – di intere piazze per eventi politici o sociali erano indicatori di una legittimità dal basso che lì e in pochi altri quartieri della Capitale era stata conquistata sulla base di specifici rapporti di forza, mutati i quali l’irregolarità di San Lorenzo rimane, ma è funzionale agli interessi del capitale, non della comunità. Qui lo spaccio di stupefacenti è più sfrontato che altrove – almeno fin quando questura e commissariato non decidono di intervenire – qui il mercato degli affitti in nero è un po’ più profondo, qui i cambi di destinazione d’uso degli immobili (da commerciali ad abitativi) sono fin troppo deregolamentati, qui il divertimento notturno è maggiormente «estroverso» che non altrove: tutte condizioni, del resto, perfettamente riscontrabili in altri quartieri gentrificati, «turistificati», «studentizzati».

Dove si situa, quindi, l’eccezionalità residuale di San Lorenzo? Il titolo – usurato e a volte stucchevole – di laboratorio è ancora meritato? La risposta è affermativa, a detta degli autori/trici: nel quartiere incastonato tra la stazione Termini, la città universitaria, il cimitero monumentale del Verano e il policlinico «Umberto I», i conflitti vivono sottotraccia e non si riducono al periodico «guardie-e-ladri» giocato sulla semantica della micro-criminalità (regolamenti di conti inclusi). A San Lorenzo la gentrificazione ha rappresentato una sorta di coitus interruptus della rendita perché non ha comportato un completo rimpiazzo della popolazione residente: semplicemente, «il calo demografico segnala che non è avvenuta la sostituzione dei vecchi abitanti con nuovi residenti di ceti più abbienti, tipico fenomeno che indica la gentrificazione; piuttosto, i nuovi abitanti si sono sommati ai pochi rimasti, senza che fra i due gruppi si sia creata quella coesione sociale che aveva caratterizzato il quartiere» (p. 7). In tal senso, il Covid-19 e i relativi lockdown hanno giocato un ruolo importante: l’ondata gentrificatoria degli studenti (e dei docenti, che tecnicamente inaugurarono il fenomeno, già dagli anni Sessanta dello scorso secolo) si è arrestata bruscamente – causa chiusura dell’università e conseguente venir meno della necessità di frequentarne i corsi – e non è ripresa completamente dopo la riapertura, anche per l’intensificarsi delle attività online proposte dagli atenei. Di contro, una tendenza già in nuce da almeno quindici anni ha aumentato la sua pressione sul territorio: gli affitti alla popolazione turistica entrano nell’economia delle piattaforme e velocizzano la loro dinamica interna. La «airbnbizzazione» di San Lorenzo accorcia progressivamente la permanenza media dei «new comers» nel quartiere, rendendolo una sorta di diffuso «albergo a ore» come quelli che, poco distanti, da sempre caratterizzano le adiacenze della Stazione Termini.

Se potessimo proiettare su un grafico il tempo medio passato nel quartiere da coloro che non vi sono nati, ma che vi hanno aderito per studio, lavoro o vacanza, scopriremmo – con il passare dei decenni – segmenti sempre più corti: i primi studenti universitari avevano un orizzonte di diversi anni da fuorisede (con l’ulteriore e non peregrina prospettiva, tra l’altro, di rimanervi anche dopo la laurea), i loro colleghi «vittime» del riordino ministeriale dei corsi di studi – il famigerato «3+2», ulteriore omaggio all’aziendalizzazione degli atenei – ragionano al massimo nei termini di un biennio o un triennio, vissuto peraltro in facoltà che incapsulano gli iscritti in calendari simili a quelli scolastici, ma più intensi, a discapito del tempo libero e del potenziale attivismo politico. I turisti, addirittura, usano il quartiere come base per blitzkrieg di pochi giorni, attratti dalla comodità logistica di una zona vicina al centro storico e alla ferrovia, oppure semplicemente incuriositi dall’atmosfera bohémien tutt’oggi diffusa da cataloghi di viaggio e travel blogger privi del senso del ridicolo. La temporaneità si impone, quindi, come cifra distintiva dell’abitare sanlorenzino e conferma come l’ultima frontiera dell’estrazione del valore sia la dimensione del tempo, esattamente come in fabbrica il capo reparto controlla tutt’ora i secondi: sulla base di tale assunto, ognuna delle tante variabili che rendono il quartiere sgradevole, pericoloso e respingente possono essere lette come incentivi a un nomadismo d’élite deputato a «far girare i visitatori», con l’obiettivo di far girare (anche) l’economia. A San Lorenzo, infatti, i turisti si fermano pochi giorni – seguendo peraltro le prescrizioni del turismo di massa – ma anche i nuovi residenti rimangono pochi anni, corrispondenti a una tarda adolescenza che fa apprezzare le libertà del quartiere e ne rende sopportabili i disservizi. Quando si tratta di strutturare il proprio lavoro e/o di «««mettere su famiglia», il quartiere viene cambiato, magari adattando il vecchio appartamento a bed&breakfast. Non deve stupire, quindi, che i residenti ufficiali abbiano subito un tracollo dai 35mila di fine anni Cinquanta (massima espressione della San Lorenzo popolare) agli ottomila di oggi, con le scuole deserte, i negozi di prossimità in profonda crisi e il «popolo della notte» – composto da giovani e giovanissimi attratti dall’alcool a basso costo – radicalmente diverso da quello diurno, contro cui scatena un inconciliabile conflitto.

A ben vedere, però, anche la battaglia tra gavettoni di urina, da una parte, e portoni sfondati a calci, per cercare un risarcimento sommario, dall’altra, non riesce a eludere l’immagine di decadenza, di scaramuccia da basso Impero, di stanca e accomodante agonia, infine di elemento grottesco e distrattivo rispetto ai veri poli del conflitto: «l’intermediazione di grandi società che offrono un canone fisso ai proprietari e subaffittano le case e le stanze a prezzi molto alti per periodi brevi e medi» (p. 10), la scelta strategica – da parte degli istituti finanziari – di spostare il proprio target dalle imprese alle famiglie, come spiegato pochi anni fa da Stefano Portelli: «Milioni di famiglie si legano al sistema dei crediti bancari, il mercato dei mutui si gonfia a dismisura, la costruzione aumenta, ma i prezzi delle case salgono. A quel punto, le banche smettono definitivamente di finanziare l’industria produttiva: il capitale non ha più bisogno di cittadini occupati che lavorino, ma di cittadini indebitati che paghino il mutuo, o l’affitto a chi paga il mutuo» (Draghi, mostri e cavalieri. I fondi speculativi all’assalto delle città, «Lo stato delle città», n. 6, aprile 2021, p. 62). Fondi di investimento, assicurazioni sui mutui, agenzie speculative e altri attori partoriti dalla mente della finanza comprano nel silenzio interi pezzi di territorio urbano, con tutto quello che c’è sopra e sotto: condomini popolari, strade e piazze, aziende attive oppure dismesse da tempo, ma anche e soprattutto… niente. Spazi vuoti, aree incolte, zone cuscinetto, bacini di contenimento sono oggetto di un’attenzione che oggi pare sproporzionata, ma che verrà giudicata lungimirante quando – tra un anno, un decennio o forse mai – diventeranno la sede di hub della logistica, di nodi di scambio del trasporto pubblico oppure semplicemente la dimora di gangli informatici, di autostrade telematiche, di piste digitali. La nuova speculazione urbana sublima il mattone, perché le vie Gluck di oggi non sono insidiate dagli storici e quasi romantici palazzinari: la finanza rende i padroni oscuri e sfuggenti, ambigui ed eterei, ma non ne mitiga l’arroganza, né la pericolosità sociale. Di sicuro, a fronte di un quadro del genere, lo spacciatore in piazzetta, il ventenne vociante e ubriaco, il residente insonne e inviperito, l’addetto alla raccolta dei rifiuti in bilico su un tappeto di bottiglie vuote sono gli attori non protagonisti di un Rocky Horror Picture Show che fatica a essere messo bene a fuoco e a rivelare il suo effettivo punto di caduta sociale, cioè la forza dirompente della sua vena discriminatoria. Di contro, la battaglia tra residenti e «malamovida» ha l’obiettivo di miniaturizzare il conflitto: il problema risiede in quella strada, a causa di quel pub, sotto quelle finestre, quando – invece – la partita in gioco riguarda «il diritto alla città» e l’abnorme espansione della questione abitativa. Che si tratti delle mire di un costruttore «vecchio stampo» oppure del passo felpato di un nuovo predatore, che neanche deve tirare su un cantiere per estrarre il valore dalla città, è la dimensione del pubblico che retrocede, cedendo il passo al profitto privato.

Torniamo alla domanda iniziale. Dove eravamo rimasti? La risposta la troviamo in Dopo la gentrificazione: siamo arrivati alla necessità di inserire le trasformazioni dell’abitare nella storicità della lotta di classe, non nella personalizzazione di scelte individuali, raramente libere e spesso propense a colpevolizzare il povero e chi non riesce a sostenere il costo della vita urbana. Vae victis! è l’anatema lanciato all’Anti-città, ma è anche la cifra della paura di una sua ribellione. Scomposta, disintermediata, irrazionale, disperata. Serve, invece, consapevolezza e organizzazione. Quando verranno a prendersi il quartiere, ci troveranno ai nostri posti.



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Luca Alteri, sociologo, insegna presso La Sapienza – Università di Roma. Si occupa di studi urbani e di partecipazione politica.

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