Nell’infinita emergenza pandemica, il salto di qualità nella limitazione dell’uso dello spazio fisico, è stato evidente. Non si è trattato più della transenna intorno alle assemblee del potere, del cancello di fronte al monumento, della chiusura dei centri storici, della militarizzazione della città, o dei tornelli per entrare in una città d’arte. Il concetto di «zona rossa» è diventato via via sempre più familiare ed esteso fino a comprendere tutto il Paese. Ogni anfratto della nazione, dai parchi alle spiagge, dalle scuole alle strade, dai centri commerciali ai luoghi di culto, dai monti alle aree interne; è diventato un luogo a rischio potenziale di contagio. Inaccessibile e impercorribile.
Se c’era una disciplina che prima e più delle altre, avrebbe dovuto comprendere fin dal principio come le politiche di confinamento avrebbero stravolto ogni minima forma di relazione sopravvivente nei territori, attraverso i quali si era faticosamente tentato, negli anni immediatamente precedenti, di riprendere il filo di una nuova rinascita urbana, tale disciplina non poteva che essere l’urbanistica (Attili, Scandurra, 2013). Invece anche attenti urbanisti hanno preferito vedere nel dilagare del virus e persino nei rimedi messi in campo da molti governi, un’opportunità.
Stay at home è diventata la formula capace di liberare in un solo momento i territori dagli infiniti oltraggi ai quali trent’anni di neoliberismo li avevano condannati: turistificazione, speculazione immobiliare, consumo di suolo, o mercificazione delle città storiche, ridotte sempre di più al brand di loro stesse. Stando a casa tutto sembrava risolto. La mortificazione per non essere riusciti ad arginare il posturbano (Choay, 1992, p. 11) trovava improvviso conforto in una soluzione inaspettata, inimmaginabile e indicibile, anche se segretamente desiderata da più di qualcuno: il confinamento mondiale della popolazione. Se l’unica soluzione possibile per venire a capo di una realtà urbana anarchica e non più interpretabile, consisteva nel farla scomparire definitivamente nel nulla su scala planetaria, andava seguita comunque e ad ogni costo. La shock sociology dell’ossimoro «distanziamento sociale» (Russo, 2020, p. 36) è sembrata dunque, almeno in un primo momento, una sorta di manna caduta dal cielo a redenzione definitiva del caos urbano contemporaneo.
A distanza di un anno però, quella che poteva sembrare una soluzione, mostra ormai il suo vero volto in modo inequivocabile, attraverso l’evidenza degli effetti prodotti sui territori: una vera e propria catastrofe urbana. I rimedi pandemici sembrano aver trasformato la tanto abusata resilienza dei territori (Agostini, Scandurra, 2018) in coma irreversibile. La «soluzione virtuale» al problema del contagio da coronavirus ha accelerato i processi disgregativi delle relazioni che già erano in atto (Russo, 2020, p. 16), trasformando ogni tentativo di rianimare i luoghi nel compiacimento per la loro fine. È scomparso l’oggetto stesso degli studi urbani o, perlomeno, il suo aspetto più interessante.
Eppure, la consapevolezza di essere stati proiettati nell’anno zero della disciplina urbanistica, tarda a venire. Si prova ancora, nei tanti seminari su piattaforme virtuali con i quali si è cercato maldestramente di sostituire, per ora e non si sa bene fino a quando, la magia e la potenza degli incontri seminariali «in presenza», ad argomentare sui temi disciplinari consueti attingendo ai paradigmi di sempre. In un esercizio che finisce per assumere, in vero, toni sinistramente medianici.
Ci si ostina a non prendere atto che i temi analizzati in decenni di studi non ci sono più e ci si rivolge a loro come si invoca l’anima di un trapassato durante una seduta spiritica. In tutti, anche in chi scrive, alberga la segreta speranza che si tratti solo di una sospensione temporanea, ma appare davvero difficile nel frattempo continuare a parlare di urbanità (Consonni, 2018, p. 7) in assenza, o nella provvisoria sospensione, di ipotesi compiute di relazione. Più utile sarebbe interrogarsi su cosa rimane di quei territori e su come intervenire, attraverso quali paradigmi tornare a leggerli, qualora, ma non c'è una narrazione certa e tantomeno credibile al riguardo, ci venisse magnanimamente restituita l’opportunità di viverli.
Proviamo allora ad andare in questa direzione. Negli ultimi tre anni mi sono occupato della borgata romana di Primavalle. Avevo creduto di vedere e di indicare nella fisionomia relazionale del quartiere, un’ipotesi di sopravvivenza urbana da contrapporre ai disastri dell’epoca contemporanea. Allo sprawl metropolitano di Roma e alla generalizzata perdita di identità e senso nelle vite dei suoi abitanti. Proponevo i numerosi fermenti vitali del quartiere come ultima attestazione di radicamento nel territorio. Come esempi di una disperata e a volte donchisciottesca lotta quotidiana volta a riformulare gli assiomi di base per un rinnovato diritto alla città. Erano immagini flebili, ma sorprendenti. Di una forza per certi versi inspiegabile. Associazioni culturali che si occupavano di memorie del quartiere, street artists che provavano a inondare di nuovi colori e antica luce i muri dei lotti, scuole di canto, cooperative per il recupero delle persone affette da disagio psichico, biblioteche pullulanti di studenti che si congedavano, incontrando fisicamente i coetanei, dall'obbligo verso la religione atomizzante delle pratiche digitali. Teatri minimi grandi come la stanza di un appartamento che ogni giorno cercavano di imbastire trame difficilissime di riscatto in un tessuto urbano condannato altrimenti alla consunzione.
Girando nel quartiere di Primavalle prima dei «rimedi» pandemici, l’impressione che vi fossero permanenze vitali anomale che ne preservassero forme, pratiche e immaginari, qui sedimentatesi storicamente, era abbastanza netta. Non appena ho cercato di comprendere l’origine di questo mistero è comparso un mondo. In assoluto contrasto con i dettami omologanti del presente. Una sorta di universo parallelo. Una dimensione altra, ma soprattutto un’eterotopia realizzata (Harvey, 2012, p. 51) che poteva costituire un utile suggerimento per infrangere l'anomia urbana cui sembrava condannato il resto della città. Invisibile ai più perché localizzata negli spazi dimenticati del quartiere: i locali abbandonati dell’ex-dormitorio, dell’ex manicomio Santa Maria della Pietà, del mercato coperto, della biblioteca, o alcuni locali dismessi dell’Ater.
Ogni spazio sopravvissuto, o strappato alla voracità del neoliberismo, ricominciava in quei luoghi a vivere secondo logiche diverse, o con l’ostinazione antagonista di conservarne le vocazioni originali. Salvandoli in questo modo dalle mille speculazioni cui tutto «il mondo fuori» sembrava destinato per progetto, o per assenza di progetto.
Dopo il 10 Marzo 2020, i DPCM hanno fatto sprofondare nel vuoto ognuna di queste realtà. Ognuna delle anime che le costituivano, si teneva in piedi al di sopra delle proprie forze, in un equilibrismo esistenziale sul quale a pieno titolo si poteva e si sarebbe dovuto provare ad ipotizzare un futuro per la città. Una determinazione consapevole a difesa dei luoghi e delle loro memorie (Decandia, 2000). Una coscienza di luogo (Magnaghi, 2010, pp. 299-300) che era già fatto compiuto, attestato dalle storie di vita di chi poneva in essere quella sorta di apparentemente anacronistica globalizzazione dal basso (idem, p. 249). Una resistenza esistenziale quotidiana che costituiva la base per qualsiasi ipotesi di politica futura. Urbana certo, ma anche politica più in generale (Harvey, 2012, p. 52). Schiene dritte. Testa alta e tanto cuore. Il coraggio di restare nei luoghi per prendersene cura (Teti, 2014, p. 22), contrapposto al più decantato coraggio di partire.
Il «distanziamento sociale» ha calato il sipario su questo insolito e straordinario spettacolo di tante coraggiose quotidianità sopravviventi. Neppure la caduta di un asteroide avrebbe potuto generare un tale disastro umano e urbano. Se i provvedimenti pensati per contenere la pandemia sono stati presi per tutelare la vita, viene da chiedersi a quale idea di vita si siano ispirati. Probabilmente la nuda vita di cui molto ha scritto Agamben (2005). Di fatto Primavalle, come credo molte aree del pianeta, è tornato ad essere un luogo fantasma. Alla stregua di tutti gli altri. I cantori del liberismo che finora avevano imperversato con litanie spacciate per verità assolute, avevano tutto l’interesse a coprire le malefatte di tre decenni di tagli alla sanità e di progressiva sospensione degli investimenti pubblici nella ricerca e in ambito sanitario.
Così, dopo aver tagliato le terapie intensive reali all’interno degli ospedali nei decenni precedenti, hanno pensato bene di togliere anche queste residuali esperienze di terapie intensive dell’urbano. Vere e proprie camere di rianimazione del sentimento di città. Bagliori di umanità e urbanità sopravviventi che potevano, queste sì, essere estremamente contagiose. Mentre non è certo che i provvedimenti restrittivi delle libertà costituzionali abbiano contenuto il contagio del virus, è ora drammaticamente dimostrato che siano perfettamente riusciti a fermare il contagio sociale che le molte pratiche formali e informali attive sul territorio potevano trasmettere al resto della città e alla società nel suo insieme.
Avevo paragonato le esperienze di cittadinanza attiva intercettate a Primavalle, come pure ve ne sono in molte altre aree delle ex-periferie cittadine, ad una sorta di orizzonte degli eventi dell’urbano da cui ripartire (Cellamare, 2016). Lo spazio liminale entro il quale risultava ancora possibile osservare e interpretare gli eventi del presente. Di certo i fatti pandemici e soprattutto i «rimedi» messi in atto per contenerli, sono per ora riusciti a far scomparire nel vuoto cosmico queste piccole e al tempo stesso gigantesche testimonianze dell’umano. Da questo inaspettato vuoto credo che ogni analisi della realtà, urbanistica o meno che sia, debba necessariamente ripartire.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino,2005
I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica, DeriveApprodi, Roma, 2018
G. Attili, E. Scandurra (a cura di), Il pianeta degli urbanisti e dintorni, DeriveApprodi, Roma, 2013
C. Cellamare (a cura di), Fuori raccordo, Donzelli, Roma, 2016
F. Choay, L'orizzonte del posturbano, Officina edizioni, Roma, 1992
G. Consonni, Urbanità e bellezza, Solfanelli, Chieti, 2018
L. Decandia, Dell'identità. Saggio sui luoghi; per una critica della razionalità urbanistica, Rubbettino, Catanzaro, 2000
D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, Ombre corte, Verona, 2012
A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino, 2010
A. Russo, Shock sociology. Eccezionalità e prassi del distanziamento sociale tra globalizzazione e capitalismo delle piattaforme, Sapienza, Roma, 2020
V. Teti, Pietre di pane. Un'antropologia del restare, Quodlibet, Macerata, 2014
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