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Disumanizzazione, banalità del male e malattia mentale

Chi cura cosa

 

 

Disumanizzazione, banalità del male e malattia mentale

Dall'interno dei Servizi di Salute Mentale dove lavora, uno psichiatra si interroga sul nesso tra l'inerzia emotiva ed etica incarnata nella nostra quotidianità, la negazione dei propri desideri e dei propri diritti e il crescente numero di persone che si presentano ai servizi con una qualche forma di sofferenza. Invece che trovare la possibilità di dare un senso a tutto ciò, ricevono, in cambio, un'etichetta patologizzante. Queste forme di sofferenza si riverberano sugli stessi operatori della salute mentale, a fronte dell'inadeguatezza dei servizi offerti, che sono essi stessi tendenti alla prestazione, più che all'ascolto come cura.


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 C’è qualcosa della vita che si allontana [..] come un bambino che ha subito troppi maltrattamenti eviterà i genitori che lo maltrattano. La natura, la verità, la bellezza, la dolcezza, la lentezza sono state danneggiate, sono indietreggiate e diventano più difficili da cogliere, da vivere. Troppo male è stato compiuto. Ma non è irreversibile [..] L’umano nel profondo è incancellabile. Torneremo alle cose vive e vere. Ma per questo, occorre che si raggiunga il punto di estrema stanchezza. Occorrerà che non si possa fare altrimenti

Christian Bobin

 

 

Ho letto un recente articolo: «Guerra e salute mentale: paura e speranza di un Reset sociale» [1]. In esso l’autore descrive un clima di allarme sociale pervaso, a suo dire, da «[..] un pensiero preoccupante. Uno di quei pensieri [..] via di fuga da un reale grigio, vuoto e alienante. Un pensiero che vede nel conflitto la possibilità di un reset per una società percepita come patogena. Questa visione riflette lo stato attuale della salute mentale collettiva, messa a dura prova da ansia, stress e isolamento sociale». Prosegue l’autore: «[..] ci siamo creati un ambiente [..] che si avvicina maggiormente a una gabbia mentale che a un paradiso terrestre [..]. Siamo sempre più deboli, asociali e indifferenti alla vita. Costantemente immersi in un sonno verticale, non sentiamo più gli odori, i sapori, la fatica di una corsa, il corpo del partner». E, ancora, «la nostra mente ci sta dicendo: mi sento in un vicolo, sto soffocando [..] La mente, se percepisce un pericolo prossimo, attiva i meccanismi di emergenza. Ormai l’allarme è talmente alto che l’ansia è diventata una compagna di vita, soprattutto per le nuove generazioni. Loro si difendono col distacco, l’indifferenza e la perdita di speranza nel futuro. In altri salgono questi pensieri disfunzionali».

  Al di là della provocazione dell’autore rispetto ad una possibile funzione «catartica» della guerra (di cui comunque si può intravedere il senso) mi sembrano di capitale importanza, e da sviluppare, le riflessioni che fa su una progressiva perdita di «umanità» nelle nostre vite.

L’articolo riprende il concetto di «sonno verticale» [2]. Esso riguarda quelle persone – sempre più numerose – che attraversano la loro esistenza in una sorta di «anestesia» della loro coscienza: perdono il contatto con le loro emozioni, smettono di prestare attenzione al significato delle loro azioni. I loro comportamenti tendono ad uniformarsi, spesso risultano prevedibili: si avvicinano, in qualche modo, all’output di un computer, più che ad un libero processo di riflessione e scelta della mente umana. Chi di noi è avvolto in questo «torpore», molto spesso, rimane indifferente anche davanti a eventi importanti che ci raggiungono dall’esterno: essi possono indurre in noi uno scossone temporaneo, smuovere per un attimo le nostre «acque interne». Ma invece che toccare le nostre corde intime, produrre risonanze interiori profonde e fare da segnale – di qualcosa che, magari, non va dentro di noi – questi eventi diventano, ai nostri occhi, una sorta di imprevisto, che altera il nostro equilibrio apparente e disturba il nostro «sonno della ragione». Per fortuna, solo per un attimo.

Cosa può significare tutto ciò? Significa che siamo sempre meno capaci di ascoltarci. Di ascoltare i nostri bisogni e le nostre paure. I nostri principi più profondi, le nostre parti più autentiche. Ma laddove perdiamo di vista quel che più ci caratterizza come umani, cosa resta a fare da bussola al nostro agire quotidiano? Solitamente, la nostra guida diventa, semplicemente, l’abitudine. Ci uniformiamo alle norme esterne: il protocollo della tua azienda, la richiesta del tuo capo, le abitudini dei tuoi colleghi, le disposizioni o convenzioni del tuo gruppo lavorativo e sociale. A prescindere dal fatto che quelle disposizioni siano in «sintonia» con te stesso e con le tue istanze interne. A prescindere, nel senso, che non ci poniamo nemmeno il problema: se quella cosa per noi è giusta non è un tema di riflessione. Riflettiamo, al massimo, se quella cosa ci è utile, se ci conviene.

Se non è più la nostra coscienza, i nostri principi a direzionare il nostro agire, cosa ci muoverà in una direzione piuttosto che in un’altra? Nella società della frenesia e della prestazione, che parla di funzionamento delle persone, di obiettivi e risultati, compressa in dinamiche che restringono lo sviluppo di un pensiero critico – e che deforma la nostra identità (personale) nel senso di una disumanizzante idoneità (al sistema) – cosa può ancora orientare la nostra vita? O, arrivati a questo punto, aiutarci a sopravvivere?

Qualcosa di più basico e primitivo, più individuale e vicino all’homo homini lupus che a comportamenti pro-sociali e volti alla convivenza civile. Qualcosa che si afferma quando, in qualche modo, sentiamo la nostra esistenza a rischio e si fonda sulla ricerca del vantaggio personale. Il che quasi invariabilmente porta a tralasciare – come merce di scarto – la sensibilità umana.

  Mi chiedo, ora, quanto tutto questo si differenzi dalla banalità del male di Hannah Arendt. Perché parlare di male? Perché come persona – e psichiatra – mi chiedo a che prezzo si può vivere coltivando l'ascolto interiore (verso sé stessi, e dunque verso gli altri) in una società che spinge l’umano a «scollegarsi» da sé stesso, promuove (esige) senza vergogna una spasmodica corsa all’azione e alla performance, sopprime le capacità critiche e la valorizzazione degli stati d’animo individuali. Pensiamoci: il pensiero è poco conveniente. Richiede tempo. Non semplifica le questioni ma le rende più complesse, non velocizza ma rallenta i processi. E, soprattutto, si apre a ricevere possibili critiche. Pensare è impegnativo, scomodo e poco redditizio.

Ho provato, finora, a descrivere un clima socio-culturale – ai miei occhi, sinceramente, sempre più diffuso e simile a un delirio culturale – che tende progressivamente ad atrofizzare la sensibilità umana. In medicina l’atrofia è spesso sinonimo di patologia. Ma anche un’umanità prosciugata dei suoi elementi più vitali finisce per ammalarsi. Da qui in poi faccio lo psichiatra. Sempre più persone si rivolgono a noi, nei servizi di Salute Mentale, schiacciati da stress, usura mentale, insonnia e invalidanti sintomi fisici. Molti dichiarano i ritmi di lavoro insostenibili, la difficoltà a conciliare lavoro e vita personale e la crescente «precarietà» sul piano relazionale ed esistenziale. Di questi, coloro che provano ad aprire bocca (ad esempio al lavoro) rischiano il licenziamento. Chi non la apre rischia lo psichiatra. Perché a furia di tenere dentro, razionalizzare, normalizzare, contestualizzare, relativizzare, ridimensionare – e alla fine negare – i propri bisogni e i propri diritti, l’essere umano si ammala.

Siamo nell’epoca, dicono, del disturbo borderline. Delle personalità impulsive, rabbiose e instabili. Certamente, queste persone hanno anche problemi a regolare i loro stati emotivi. Ma non sarà che, questa loro rabbia, arriva a diventare così «incandescente» perché spesso non trova lo spazio di un (vero) ascolto? Non sarà che questa rabbia, invece di essere accolta e capita, di frequente viene giudicata e patologizzata?

«Questo/a è border» si sente di frequente nei Centri di Salute Mentale (CSM). «Questo è delinquente» si sente con altrettanta facilità nei CSM, o nelle questure, o nella società «civile». Ma sarà forse che molta gente sta perdendo i suoi diritti e si agita (per come può) nel tentativo di farsi ascoltare, in questo silenzio assordante?

Non sarà che, dentro l’attuale processo – sottile e, quindi, ancora più pericoloso – di erosione e repressione dei bisogni psico-sociali [3] le risposte delle persone di (e al) loro disagio vengano tradotte (e disinnescate) in forme di devianza? O peggio, con la complicità di psicologi e psichiatri, in condizioni di malattia? E che in ultimo, noi psichiatri, in modo più o meno consapevole (e confessabile) invece che medici attenti all’ascolto e la cura della sofferenza umana, spesso – troppo spesso – vestiamo (amiamo vestire) i panni dei docili e assertivi funzionari dell’ordine pubblico pre-costituito?

Ancora una cosa. Psichiatri e operatori di Salute Mentale – armati di passione e buona fede – che vogliano ancora continuare occuparsi dei loro utenti per come essi meritano, come dovrebbero fare a curarli? Sono meno umani, soffrono meno o diversamente dai loro pazienti? E se avessero bisogno di cure e attenzioni quanto loro? Non ci troviamo forse tutti, curanti e curati, dentro allo stesso disumanizzante clima culturale?

La Salute Mentale pubblica vive, oggi, (per chi ancora riesce e vuole aprire gli occhi) una plateale scissione tra forma e sostanza, tra l’inautenticità e ipocrisia delle dichiarazioni dei capi Dipartimento (l’attenzione alla prevenzione, la territorialità, la centralità del paziente) e la realtà quotidiana dei servizi: territorialità ridotta ai minimi termini, lavoro sull’emergenza, carichi di lavoro per operatore. Tutto ciò, in certi servizi, viene spacciato, addirittura, per «operosità» finendo per annullare l’idea stessa di cura (un operatore oberato non si dedicherà mai davvero a nessuno): procedure, burocrazie, protocolli, fino all’impossibilità reale di incontrare i bisogni dei tanti e speranzosi utenti.

L’operatore di Salute Mentale,  che desidera combattere queste condizioni avverse e riceve consigli (talora espliciti) a sacrificare l’etica e qualità del lavoro per garantire prestazioni un tanto al chilo (e soddisfare le richieste aziendali), questo operatore – che in Salute Mentale vuole starci per onorare il suo valore di civiltà, e le battaglie che l’hanno resa possibile – dove trova la forza per continuare, alla lunga, a credere nella sua missione? E come può farlo, se arriva a percepire a rischio la sua salute mentale? Lui che dovrebbe aiutare gli altri, ma rischia di ammalarsi per le stesse dinamiche che portano le persone a rivolgersi a lui? Forse, se si ammala di meno, è per la sua «analisi» personale. O perché cerca di conservare la sua capacità di pensiero. Ma una capacità che sa di dover difendere tutti i giorni, controcorrente come un salmone, finché ne ha la forza e la voglia. La forza e la voglia vanno insieme: l’una sostiene l’altra. Ma per capirlo, e per coltivarle entrambe, bisogna ascoltarsi, guardarsi dentro. Riuscire a «pensarsi».

Nello scrivere questo testo, oggi, ho riflettuto. Oggi mi sento un po’ più forte, al riparo dall’ammalarmi anch’io. Non riuscivo a pensare da settimane. La sensazione è quella di una boccata di ossigeno. Allora, forse, dovremmo provare a capire come proteggere il nostro pensiero, la nostra sensibilità, le nostre passioni, gli spazi per le persone che amiamo e quelli per noi stessi. Farlo può legittimare noi stessi e il nostro tentativo di aiutare gli altri. Insegnando, a loro volta, a combattere l’anestesia emotiva e la sua faccia nascosta: la banalità del male.

 


Note

[1] Bianchi Davide, Guerra e salute mentale: paura e speranza di un Reset sociale. 19 luglio 2024, «Vaso di Pandora».

[2] Gramellini Massimo, Il sonno verticale. 19 dicembre 2019, «Corriere della Sera».

[3] Negrogno Luca, Legare le persone non è un’arte ma un effetto delle politiche sociali neoliberali. 2021 «Dinamopress».


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 Stefano Naim, psichiatra. Si specializza in Psichiatria nel 2019 all’Università Sapienza di Roma. Dal 2022 lavora nei servizi di Salute Mentale presso il DSM di Modena.

 

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