In questa nona puntata del «Diario della crisi» – progetto nato dalla collaborazione tra Effimera, Machina ed El Salto – Christian Marazzi propone un’ipotesi importante: ci troviamo di fronte a una crisi da sovrapproduzione digitale che, se da una parte si spiega a partire dagli effetti del rovesciamento delle politiche monetarie, cioè dall’aumento dei tassi d’interesse per combattere l’inflazione da profitti, dall’altra rimanda alla saturazione della domanda, non solo perché i redditi reali sono fermi o addirittura decrescono, ma anche e forse soprattutto perché la digitalizzazione ha raggiunto la soglia di assimilazione sociale e umana. Nel passaggio da una politica monetaria espansiva a una restrittiva, sostiene l’autore, la lotta politica attorno al tetto del debito pubblico americano, potrebbe essere la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Marzo, la serpe esce dal balzo
Gillian Tett, giornalista del «Financial Times», ha vissuto in presa diretta alcune delle crisi finanziarie e bancarie più importanti degli ultimi trent’anni, come quella scoppiata in Giappone nel 1997 e 1998, a seguito della bolla immobiliare degli anni Ottanta, o quella del 2007 e 2008, la crisi finanziaria globale dei subprime e della Lehman Brothers [1]. Facendo tesoro di quelle esperienze, ha analizzato l’ondata di panico che ha incalzato le banche nel corso del mese di marzo, dalla Silicon Valley Bank a Credit Suisse, passando dalla First Republic, mettendo in evidenza una serie di caratteristiche ricorrenti, ma anche di discontinuità significative.
Prima di tutto, sostiene la Tett, ogni crisi bancaria ha a che fare con il concetto di «credito», nel senso latino di credere, avere fiducia, e questo in rapporto a quel concetto di «riserva frazionaria» (fractional banking), emerso nell’Italia medievale e d’inizio Rinascimento, che a tutt’oggi plasma la finanza moderna. Per definizione, la riserva frazionaria è la percentuale dei depositi bancari che la banca è tenuta a detenere sotto forma di contanti o di attività facilmente liquidabili. Ogni depositante deve «credere» che, qualora volesse ritirare i suoi depositi, la banca sia sempre nella condizione di poter onorare la sua richiesta di contanti. Dato che molto raramente tutti i depositanti cercheranno di ritirare i loro soldi nel medesimo momento, questa credenza/fiducia ha una sua pertinenza (altrimenti nessuno depositerebbe i propri soldi nelle banche). La riserva frazionaria funziona benissimo in tempi normali, durante i quali si riciclano fondi in prestiti e titoli con rendimenti più o meno crescenti. Quando però i depositanti intuiscono che il ciclo degli affari sta cambiando segno, incominciano a ritirare il loro denaro – come è accaduto nel 1997, nel 2007-8 e in marzo, e continua ad accadere in aprile e maggio, come nel caso di First Republic e di altre banche regionali americane o della stessa Credit Suisse – e il fractional banking, la riserva frazionaria, finisce con l’implodere. Non ci sono soldi, soprattutto non c’è tempo per racimolarli o chiedendoli alla banca centrale (che però ha gli sportelli aperti solo poche ore al giorno, mentre il mobile banking lavora 24 ore 7 giorni la settimana!), o vendendo i titoli obbligazionari in cui si sono investiti i depositi, che però, a causa dell’aumento dei tassi di interesse, come nel caso di quest’ultima crisi, valgono molto meno del loro valore nominale [2]. È la crisi.
Rispetto alle crisi precedenti, ancora caratterizzate da una relativa opacità riguardo l’accessibilità a informazioni strategiche, quella di marzo si differenzia per la rapidità e la pervasività con la quale l’informazione si diffonde in un mondo digitalizzato [3]. A sua volta, l’informazione just-in-time, accessibile a tutti e ovunque (sul telefonino, sui canali televisivi come Cnbc, su YouTube, sui social, sulle piattaforme), alimenta fortemente i rischi di contagio, che nella crisi di marzo ha portato ad esempio al ritiro di 42 miliardi di dollari, cioè ben un quarto dei fondi della Svb, in pochissime ore [4]. Un contagio che – come peraltro è sempre stato nella storia della finanza e delle crisi bancarie – non si è limitato a una sola banca, ma si è esteso (e continua a estendersi) alla Signature Bank, alla First Republic fino a investire Credit Suisse. Insomma, i social media e il mobile banking digitale sono ormai dei «game-changer» anche per la finanza. Secondo Sam Altman, direttore della tecnologia di ChatGPT, «The speed of the world has changed, people talk fast, people move money fast» [5].
Crisi da sovrapproduzione digitale
Un’altra caratteristica ricorrente delle crisi bancarie e finanziarie è la confusione tra il sintomo e la causa. Ad esempio, della crisi della Silicon Valley Bank e di Credit Suisse si è detto che i loro problemi erano «idiosincratici», più semplicemente che erano state gestite da idioti, manager incapaci, ad esempio, di coprirsi (hedge) dai rischi in un periodo di cambiamento radicale come quello iniziato lo scorso anno con il passaggio da una politica monetaria ultra-espansiva a una restrittiva (dal quantitative easing al quantitative tightening). Dato però che sono molte le banche che detengono sostanziali unrecognised losses, cioè perdite contabili su investimenti precedenti che possono trasformarsi in perdite reali da un momento all’altro (ad esempio, negli Stati Uniti, nel settore immobiliare commerciale), oppure hanno livelli elevati di depositi non assicurati (negli Usa superiori a 250 mila dollari), ciò vuol dire che i problemi di alcune banche particolarmente mal gestite come Svb o Credit Suisse in realtà sono sintomi di un problema più vasto. Più precisamente: dopo un decennio d’ingegneria finanziaria improntata all’assunzione di rischi molto elevati pur di realizzare profitti (si pensi ai mutui ipotecari erogati negli anni Ottanta in Giappone e negli anni precedenti la crisi dei subprime del 2007-8 negli Stati Uniti).
Su questo punto l’analisi andrebbe però approfondita ulteriormente, ricordando marxianamente che ogni crisi capitalistica è sempre, in un qualche modo, una crisi da sovrapproduzione. Di sicuro lo è stata la crisi dei mutui subprime del 2007-8, esito di un’ondata d’investimenti speculativi nel settore immobiliare che fece seguito alla precedente bolla delle dot-com, con i suoi investimenti speculativi nelle aziende internettiane emergenti tra il 1997 e il 2000 (la bolla scoppiò nel marzo di quell’anno). In entrambi i casi, le banche fecero di tutto per erogare crediti da investire in attivi (aziende high tech o immobili residenziali) con «rendimenti crescenti», attraversati cioè da aumenti speculativi dei prezzi provocati dall’aumento della domanda drogata appunto dalle agevolazioni bancarie. Fintantoché i prezzi degli attivi crescevano, le banche avevano tutto l’interesse a fare crediti (anche ai famosi ninja, i «no income, no job , no asset», cioè i poveri in balìa del sogno americano della proprietà privata), e a farne sempre di più con la cartolarizzazione dei crediti ipotecari. Quando però, per saturazione del mercato o, meglio, della domanda, i prezzi degli attivi iniziarono a calare, dall’eccesso di domanda si passò rapidamente a un eccesso di offerta, svelando il surplus di produzione che era venuto maturando nella fase ascendente del ciclo. Per far fronte alla svalorizzazione del capitale investito, le banche furono costrette ad aumentare i tassi d’interesse, aggravando così il debito ipotecario di milioni di cittadini (o di migliaia di aziende, nel caso della bolla dot-com) [6].
Non è il caso di ripercorrere gli anni che seguirono la Grande recessione post 2008, con la crisi del debito sovrano che investì paesi come la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, con le politiche austeritarie che furono imposte dalla Troika per salvare il sistema bancario-finanziario, dissanguando i popoli dei cosiddetti «paesi periferici». Basti ricordare che le politiche monetarie ultra-espansive che furono messe in campo per evitare il collasso del sistema finanziario e monetario (il whatever it takes di Draghi in Europa, il quantitative easing adottato da tutte le banche centrali occidentali), furono di fatto politiche che contribuirono fortemente a promuovere l’accumulazione capitalistica digitale, accelerata dalla crisi pandemica con la proliferazione di sempre nuovi dispositivi tele-tecnici digitali.
L’ipotesi che facciamo, che va certamente sviluppata, è che ci troviamo di fronte a una crisi da sovrapproduzione digitale che, se da una parte si spiega a partire dagli effetti del rovesciamento delle politiche monetarie, cioè dall’aumento dei tassi d’interesse per combattere l’inflazione da profitti [7], dall’altra rimanda alla saturazione della domanda, non solo perché i redditi reali sono fermi o addirittura decrescono, ma anche e forse soprattutto perché la digitalizzazione ha raggiunto la soglia di assimilazione sociale e umana [8].
Da un rischio all’altro
Un’altra lezione che si può trarre analizzando le ultime crisi bancarie e finanziarie è che investitori e autorità di controllo tendono a concentrarsi sui rischi delle crisi precedenti, mancando totalmente di concentrarsi sui nuovi rischi. Come dice Gillian Tett, «non combattere l’ultima guerra» (Don’t fight the last war). Nei modelli utilizzati, o negli stress test delle banche dopo il 2008, ad esempio, gli scenari contemplavano piccole variazioni dei tassi d’interesse e in nessun caso un aumento importante degli stessi. La crisi del 2008 ha lasciato gli investitori (e le autorità di controllo) ossessionati con i rischi di credito, a causa dei fallimenti diffusi delle ipoteche che portarono alla débacle. Il rischio tassi d’interesse è stato del tutto sottovalutato, probabilmente perché era dal 1994 che non causavano problemi particolari. La stessa cosa è accaduta nel 2008, in cui vi fu una totale sottovalutazione dei mortgage default risk (rischio d’insolvenza dei mutui), e questo perché la crisi del 1998 dell’hedge fund Long-Term Capital Management e la bolla delle dot-com del 2000 avevano causato perdite ingenti sul fronte dei prestiti alle imprese. Insomma, il passato non sembra essere una buona guida per i rischi futuri.
Lo stesso si può dire a proposito delle regole concepite per risolvere le ultime crisi – regole per creare «sicurezza» – che spesso finiscono col creare nuovi rischi. Basti l’esempio della crisi di marzo, scoppiata col fallimento della Silicon Valley Bank. Il suo tallone d’Achille sono stati i Buoni del tesoro decennali nei quali molte banche avevano investito (incoraggiate, se non forzate dalle stesse autorità di regolazione!) buona parte dei loro depositi [9]. Considerati gli attivi più sicuri e più liquidi in assoluto (con un basso requisito patrimoniale), in realtà si sono rivelati anch’essi vulnerabili ai cambiamenti del contesto monetario, nel senso che quando le banche hanno cercato di venderli, si sono trovate in mano un bel po’ meno del loro valore nominale [10].
Comunismo monetario
Non appena scoppia il panico, quando la «riserva frazionaria» mostra tutta la sua fragilità e inconsistenza, il mantra liberista del libero mercato si dissolve nell’aria come per incanto. L’arroganza dei banchieri si trasforma in patetica genuflessione. L’esperienza storica dimostra che in questi momenti i governi si attivano in tutti i modi per proteggere parte dei depositi, acquistare attivi andati a male, a volte addirittura nazionalizzando intere banche. È quanto è successo negli anni Novanta in Giappone e nel mondo intero durante la crisi finanziaria globale del 2007-8.
Così è successo lo scorso marzo: anche se l’assicurazione dei depositi sui conti della Svb e della Signature copriva solo i primi 250.000 dollari, il governo statunitense li ha protetti tutti (a un costo superiore i 20 miliardi di dollari). In Svizzera, nel piano di salvataggio di Credit Suisse, con la sua acquisizione da parte di Ubs (per soli 3,25 miliardi di franchi), si sono protetti (anche se poco) addirittura gli azionisti, imponendo però la cancellazione di 16 miliardi di dollari di obbligazioni (quelle a più alto rischio, le AT1) [11]. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, i governi e le banche centrali hanno offerto alle banche linee di liquidità impressionanti (in America, la Fed permette persino che le banche continuino a scambiarsi tra loro Treasury bonds per ottenere contante al loro valore nominale, come se l’aumento dei tassi d’interesse non fosse mai successo).
Questi interventi monetari da parte dello Stato mirano a evitare che il contagio, oggi l’effetto domino digitale, faccia esplodere la regola della «riserva frazionaria», svelando la contraddizione insita nel processo di accumulazione capitalistica tra produzione di valore economico-sociale e creazione-regolazione monetaria. È solo il caso di dire che, per quanto gli interventi pubblici siano riusciti a tamponare alla bell’e meglio la crisi di marzo, la storia insegna che le traiettorie delle crisi finanziarie possono essere lunghe e attraversate da flussi e riflussi. Nella crisi finanziaria globale, ad esempio, Lehman Brothers (settembre 2008) crollò più di un anno dopo i primi segnali della crisi dei mutui subprime (primavera 2007).
La crisi di marzo ha coinvolto soprattutto banche di media dimensione, perlomeno negli Stati Uniti. Ma il dato principale è che questa crisi ha innescato un processo di ulteriore concentrazione del capitale bancario [12]. Negli Usa JPMorgan si è presa la First Republic (nel 2008 aveva salvato Bear Stearns e la Washington Mutual), e ormai surclassa di gran lunga le stesse Goldman Sachs, Morgan Stanley e Bank of America [13]. In un paese con un enorme budget federale e una banca centrale con un bilancio altrettanto enorme, operazioni di consolidamento di questo genere, per quanto sempre pericolose, ci possono stare. Il problema è che la tendenza al big banking approfondisce l’asimmetria con i paesi economicamente più piccoli, come la Svizzera, dove Ubs, in seguito al tracollo in borsa del Credit Suisse, ha comprato il suo rivale storico, un salvataggio molto costoso per la Confederazione e la Banca nazionale che sicuramente avrà «effetti collaterali» sull’intero sistema finanziario [14]. Di fatto, ora il patrimonio di Ubs sarà circa il doppio del Pil nazionale, ciò che rende la nuova banca decisamente troppo grande per fallire. Come è stato scritto, «big finance works only for big players».
Non a caso lo storico dell’economia Harold James, professore alla Princeton University, riflettendo sull’acquisto di Credit Suisse da parte di Ubs, ha ricordato l’operazione di salvataggio da parte di Creditanstalt, fortemente voluta dal governo austriaco nel 1929, della fallimentare Bodencreditanstalt (seconda banca per grandezza, dopo Creditanstalt) [15]. Meno di due anni dopo, fu la stessa Creditanstalt a fallire, innescando un processo a catena che fece collassare il sistema bancario tedesco, con conseguente panico nei maggiori centri della finanza mondiale, da Londra a New York.
Secondo James, quando un istituto finanziario ne rileva un altro, non si sa mai veramente cosa è nascosto nei bilanci. In una fase di instabilità finanziaria come questa, per depositanti, creditori e azionisti «nervosi» è molto facile sospettare che il marcio inquini l’intera operazione. Nel caso di Credit Suisse, il sospetto è che nelle pieghe del bilancio si annidino miliardi in derivati ad alto rischio. Inoltre, banche molto grandi diventano una minaccia impossibile se risiedono in paesi piccoli. Nel 1931, il salvataggio di Creditanstalt richiese enormi fondi pubblici, con conseguente crisi fiscale e, poi, crisi valutaria. Nel 2008, per paesi come l’Irlanda e l’Islanda, la crisi di banche sovradimensionate comportò l’intervento doloroso del Fmi.
Il passaggio dal quantitative easing al quantitative tightening, dalla politica monetaria espansiva a quella restrittiva, ha distorto in profondità il mondo finanziario, per cui è molto probabile che nei prossimi mesi assisteremo a una catena di reazioni dagli esiti imprevedibili. Occhio alla lotta politica attorno al tetto del debito pubblico americano, potrebbe essere la classica goccia che fa traboccare il vaso [16].
Note [1] Gillian Tett, What I learned from three bank crises, «Financial Times», Life&Arts, 8-9 aprile 2023. [2] Si veda, a proposito della correlazione inversa tra rendimenti e prezzo delle obbligazioni come i titoli del Tesoro, il nostro Diario della crisi precedente. Sempre di Gillian Tett, si veda: Wake up to the danger of digital bank runs, «Financial Times», 21 aprile 2023. [3] A maggior ragione quando i depositanti di una banca come la Svb sono degli startupper di tecnologie digitali. [4] Nel solo primo trimestre di quest’anno, alla First Republic c’è stato un deflusso di depositi pari a 100 miliardi di dollari. [5] Mark Vandervelde, Antoine Gara, Joshua Franklin, Colby Smith e Tabby Kinder, SVB: the multiple warning signs that were missed, «Financial Times», 25 aprile 2023. [6] E, specie nel caso della crisi del 2007-08, non si trattò affatto di una crisi circoscritta agli Stati Uniti, dato che le banche occidentali avevano fatto incetta di quei titoli cartolarizzati (i «titoli tossici») che sembravano rendere non poco. Un esempio per tutte, la UBS che nel settembre del 2008 andò in «fallimento tecnico» e fu letteralmente salvata dallo Stato con un’iniezione di oltre 60 miliardi di franchi. [7] L’inflazione da profitti si placherà solo quando le politiche monetarie anti-operaie delle banche centrali saranno riuscite a comprimere ulteriormente i redditi salariali. E questo indipendentemente dal fatto che gli stessi analisti di banche come l’Ubs sostengano che l’inflazione non è dovuta affatto alla spirale salari-prezzi ma a quella profitti-prezzi (https://risparmio.tiscali.it/analisi/articoli/Il-capo-economista-di-UBS-solo-bugie-su-inflazione/?fbclid=IwAR3i88jUOyJscbFxzwLPmw8Y6MQpNQ5uQrxHPILNhwdqNS3YZ_92K0MVaTg). Addirittura le banche centrali spiegano l’inflazione come la conseguenza dell’aumento dei profitti piuttosto che del costo del lavoro Vedi M. Arnold, P. Nilsson, C. Smith, D. Strauss, Central banks warn business over price gouging, «Financial Times», 31 marzo 2023; vedi anche M. Minenna, Prezzi spinti più dai profitti che dai salari, «Sole24Ore», 2 aprile 2023 Paradossalmente, i tassi d’interesse elevati «giustificano» gli alti profitti inflazionistici per il semplice fatto che aumentano il costo del denaro per le imprese. [8] Per quanto riguarda la crisi bancaria, si pensi che la percentuale di economie domestiche americane che usano il mobile banking o l’online banking è cresciuta dal 39% nel 2013 al 66% nel 2021, ciò che spiega come, già da prima del panico del marzo scorso, vi sia stato un aumento senza precedenti della velocità con la quale il denaro si muove da un conto all’altro alla ricerca di rendimenti maggiori. Il che rende vulnerabili tutti gli attivi finanziari, inclusi i Buoni del Tesoro! [9] Il «Financial Times» ha sottolineato che una delle cause della fibrillazione bancaria europea, attivata da quella americana, è che anche le banche europee «detengono grandi riserve di obbligazioni colpite dall’aumento dei tassi d’interesse» (vedi N. Capelluto, Panico da rischio zero, «Lotta comunista», marzo 2023). [10] Solo un’annotazione a margine: ci si può chiedere se la teoria delle convenzioni di Keynes (cap. 12 della Teoria generale) non sia da estendere ai rischi, piuttosto che limitarsi alla formazione del valore dei titoli. Secondo la teoria keynesiana delle convenzioni, sui mercati finanziari gli agenti, sotto il doppio peso dell'incertezza e della perdita di fiducia nelle loro stime, si impegnano in un comportamento mimetico, polarizzando l'opinione sul valore di un titolo e auto-validandolo. A questo punto nasce un pensiero comune, una convenzione, che funge da ancoraggio per le anticipazioni. Sembrerebbe però che nel capitalismo finanziario contemporaneo siano piuttosto i rischi, e la loro copertura (hedge), a chiamare in essere comportamenti mimetici. Da riprendere. [11] La decisione, senza precedenti, dell’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (Finma) sugli obbligazionisti, nonostante in genere, in caso di fallimento di una banca, gli azionisti subiscano le perdite prima di coloro che detengono obbligazioni, è stata voluta per rendere l’operazione meno onerosa per Ubs. Un gruppo di investitori di Credit Suisse, tra cui la cassa pensioni Migros, ha citato in giudizio le autorità di regolamentazione finanziaria svizzere a causa delle perdite miliardarie causate da questa decisione. [12] Sui rischi dell’eccessiva concentrazione del capitale, non solo bancario, vedi Rana Foroohar, The problem of concentrated power, «Financial Times», 8 maggio 2023. [13] Vedi B. Masters, J. Fontanella-Khan e J. Franklin, All roads lead to JPMorgan, «Financial Times», 6 maggio 2023. [14] Vedi Christoph Eisenring, Berna crea un mostro per salvare la finanza, «Neue Zürcher Zeitung», «Internazionale», 24 marzo 2023. [15] Vedi Harold James, Mega-banks in small states spell dander, «Financial Times», 20 aprile 2023. [16] Vedi Gillian Tett, Investors wake up to US debt dysfunction, «Financial Times», 5 maggio 2023.
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Christian Marazzi, dopo aver insegnato all’Università di Padova, alla State University di New York e alle Università di Losanna e di Ginevra, è diventato docente presso la Scuola universitaria della Svizzera italiana. È autore di numerose pubblicazioni in campo socio-economico e politico; in particolare di saggi sulle trasformazioni del modo di produzione postfordista e sui processi di finanziarizzazione, tra le quali segnaliamo: E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati Boringhieri, 1998), Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica (2° ed., Bollati Boringheri, 1999), Capitale e linguaggio. Dalla new economy all’economia di guerra (DeriveApprodi 2002), Finanza bruciata (Casagrande, 2009), Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale (Ombre corte, 2010), Diario della crisi infinita (Ombre Corte, 2015) e Che cos’è il plusvalore? (Casagrande, 2016).
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