Maurizio Cannavacciuolo, Italia che si scioglie su vortici spigolosi, 2011, olio su tela, 83 x 50cm
Siamo ormai a metà ottobre e il volume delle attività UE rimaste inconcluse è sconcertante. L’accordo Brexit per evitare uno scenario no deal è sospeso a mezz’aria e nessuno sa se né quando si concretizzerà; non c’è, cioè, ancora nessun segno di un modus vivendi entro il quale la Gran Bretagna potrà riconquistare la piena sovranità economica per la quale ha optato. Per quanto riguarda l’immigrazione e le richieste di asilo, tutti fingono di aspettare che la Germania elabori un piano che tutti, compresi gli elettori tedeschi, possano accettare; ovviamente non c’è nulla del genere all’orizzonte, e, d’altronde, come potrebbe esserci? E per quanto riguarda il «Recovery and Resilience Fund», alias«Next Generation EU», pubblicizzato come «la risposta europea al Coronavirus», questo non ha ancora superato nemmeno il voto del Parlamento Europeo. Inoltre, la sua legalità in base ai trattati rimane nebulosa; non ci sono informazioni su come il denaro sarà raccolto, per non parlare delle modalità di rimborso del debito paneuropeo dopo il 2027 (che, probabilmente, avverrà con un nuovo debito); cosa ancora più importante, non è chiaro come e da chi saranno controllati i progetti su cui gli Stati membri dovrebbero spendere il loro stanziamento; e soprattutto, non è chiaro quando il nuovo denaro arriverà finalmente nelle capitali nazionali.
E ora, oltre a tutto questo, la «seconda ondata». Francia e Spagna sono al momento le più colpite, ma non dimentichiamoci della Repubblica Ceca e della Germania che stanno recuperando terreno. Con i soldi dell'Ue disponibili tra un anno, come potranno i Paesi salvare se stessi e le loro economie se il disastro dei primi sei mesi dell’anno dovesse ripetersi? I bilanci nazionali sono già ampiamente in perdita; sembra impossibile teorizzare una seconda ondata di indebitamento per combattere la seconda ondata pandemica. Ad ogni modo, si tratta di uno scenario che tutti vorrebbero evitare, anche perché non si può escludere che ci sarà una terza ondata nel 2021. Senza massicce elargizioni governative, una seconda ondata di serrate spezzerebbe definitivamente la schiena alle piccole imprese emerse dalle società industriali degli anni Settanta e Ottanta. Le insolvenze prolifereranno e le banche crolleranno sotto il peso di debiti inesigibili: l’Armageddon economico.
Cosa intendono fare i governi, consapevoli delle potenziali proteste che potrebbero esplodere quest’inverno, se non riusciranno a proteggere ampi segmenti delle loro società? In questo contesto è tanto interessante quanto deprimente leggere un’intervista che il Presidente del Consiglio dei Ministri italiano Giuseppe Conte ha rilasciato al Frankfurter Allgemeine Zeitung l’8 ottobre. Due punti sono particolarmente inquietanti. In primo luogo, il modo in cui Conte rassicura il pubblico tedesco sulla natura tecnocratica del suo progetto di ripresa nazionale, quando promette che l’Italia «ripagherà la fiducia che l’Europa le ha accordato con gli investimenti e le riforme strutturali di cui l’Italia ha bisogno ora. Se l’Italia diventerà più produttiva e competitiva, ciò andrà a vantaggio di tutti nel mercato comune europeo...». Dopo aver indicato che parte del denaro europeo potrebbe essere utilizzato per sostituire il debito pubblico italiano ad alto interesse con il debito pubblico europeo a basso interesse, Conte procede a promettere una «riforma fiscale» attraverso una «completa digitalizzazione e semplificazione del nostro ingombrante sistema fiscale», accompagnata da una digitalizzazione dei sistemi di pagamento in generale e da una piena integrazione delle banche dati pubbliche: «Dobbiamo digitalizzare l’intero Paese». Questo, sostiene Conte, è l’unico modo per porre fine non solo all’economia sommersa, ma anche alla «disuguaglianza regionale e persino sociale»: «Dobbiamo investire nelle nostre infrastrutture materiali, nelle nostre autostrade e nei collegamenti ferroviari, modernizzare i nostri aeroporti e i nostri porti» e muoverci verso «un’economia sostenibile e verso le energie rinnovabili». Conte non dice niente, invece, sul sistema sanitario sottofinanziato, sulla pubblica amministrazione deplorevolmente inadeguata, sulle competenze dei lavoratori e sul tipo di imprese di cui si ha bisogno, in tema di investimenti pubblici, per creare posti di lavoro in patria piuttosto che distruggerli e ricrearli all’estero. E solo alla fine Conte cita le «piccole e medie imprese che costituiscono la spina dorsale dell’economia italiana» le quali, ammette, richiedono «misure mirate» (non meglio precisate) «per migliorare la loro base finanziaria piuttosto che gli investimenti diretti».
In secondo luogo, Conte ricorda con orgoglio all’intervistatore che lo Stato italiano ha gestito per due decenni un avanzo di bilancio primario, spendendo meno delle sue entrate. Questo naturalmente era esattamente in linea con le richieste di austerità dell’Unione Europea, il cui rispetto è stato, sebbene Conte lo ometta, una delle ragioni principali della bassa spesa italiana per i servizi pubblici, compresa la sanità (due per cento del PIL in meno della Germania) e quindi dell’impatto devastante della prima ondata di Coronavirus. Secondo Conte, è stato l’elevato debito pubblico a dettare l’austerità, non una moneta comune che nega all’Italia una politica monetaria indipendente e la lascia in balìa non solo dei mercati finanziari, ma anche della «solidarietà europea».
A cosa porterà questa solidarietà? Con meno da pagare ai suoi debitori, sostiene Conte, e maggiori entrate derivanti dalla riscossione digitalizzata delle imposte e dalla conquista fiscale dell’economia sommersa, l’Italia potrà spendere di più, non solo per gli aeroporti e i porti ma, secondo lui, anche per l’istruzione, la creazione di posti di lavoro e «una lungimirante politica familiare che metta fine al declino demografico». Ma quando potrà avvenire tutto ciò? Può davvero un’iniezione di denaro contante una tantum, per quanto consistente, compensare l’economia italiana che vive di una valuta notoriamente sopravvalutata? Oppure il governo italiano si aspetta che le «riforme strutturali» che il denaro dovrebbe portare renderanno l’economia italiana abbastanza produttiva da giustificare il fatto di avere lo stesso tasso di cambio delle economie del Nord Europa? Per ora l’Italia può aspettarsi 209 miliardi di euro dal Recovery Fund, che potrebbe iniziare ad arrivare nel 2021 se le cose andranno bene, e che dovrà spendere nei sette anni fino al 2027. Questo equivale all’1,9% all’anno del PIL dell’Italia (stimato al 2020), meno di quanto sarebbe necessario anche solo per portare il sistema sanitario agli standard del Nord Europa. Davvero qualcuno si aspetta che i giocattoli tecnocratici, su cui si spenderà la maggior parte del denaro, aumenteranno la produttività economica italiana al punto che il Paese potrà fare a meno delle iniezioni di denaro una volta esaurita la generosità europea – quando, cioè, verrà lasciata di nuovo da solo con quell’insaziabile bestiaccia chiamata «euro»? A differenza dei ponti e degli aeroporti, per le scuole, le università, gli ospedali, i trasporti pubblici locali, gli uffici di pianificazione economica e le altre infrastrutture sociali (e non, invece, solo quelle fisiche) gli investimenti una tantum non sono sufficienti, perché si tratta di settori che devono essere finanziati in modo ricorrente. Richiedono un allontanamento fondamentale dai principi dell’economia neoliberale («eccedenza primaria», per vent'anni!) con la celebrazione dei mercati e della proprietà privata rispetto a quella del governo e delle istituzioni pubbliche. Tuttavia, nulla di tutto ciò sembra essere all’orizzonte, né a Bruxelles né a Roma.
Traduzione a cura di Giulia Page.
Testo originale: «Italian Futurism, or European Castles in the Air» in El Salto, ottobre 2020.
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