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Del corpo e del sapere. Di donna

Una riflessione a partire da Anatomia di una caduta e Un amor


Del corpo e del sapere. Di donna

Il presente testo prende spunto dalla scrittura e tessitura registica di due film come un terreno geologicamente ricco per aprire punti di interrogazione sugli abiti simbolici e fantasmatici che permeano la nostra cultura e la separazione di genere, offrendo uno «sguardo attraverso» il cinema, questo grande serbatoio dell’immaginario collettivo, in un momento sensibile.


* * *

 

Sono contuso e ricoperto di tutte le impronte che su di me hanno lasciato altre menti,

altri volti e cose così sottili che hanno odore, calore, spessore, sostanza, ma non hanno nome.

Io sono semplicemente Neville per voi, che vedete i limiti ristretti della mia vita e la linea che non può varcare.

Ma per me stesso sono incommensurabile: una rete le cui fibre impercettibili attraversano il mondo.

Virginia Woolf, Le onde

 


Dov’è il portato più sorprendente di un sapere del corpo che si apre ad un non-sapere, rompendo i carichi simbolici assegnati a ciò che si crede essere il «femminile», come maternità e seduzione, senza cadere nella soppressione della differenza o nei dualismi più deleteri? Qual è il terreno sul quale lo scarto tra sé e l’immediatezza biologica diviene il segno di una opacità indecifrabile e ineludibile che sfugge al fascismo delle identificazioni e delle colpe? Nel momento in cui le aberranti vicende di violenza sollevano interrogativi sul sostrato di una cultura patriarcale[1] che non basta additare per eradicarla come fosse qualcosa di esterno, in quanto si autoriproduce negandosi da sé e contaminando della sua matrice guerrafondaia quanto vi si oppone, ci sembra che un attraversamento di queste domande sia offerto da due film di registe, una francese e una spagnola, da cui farci traghettare. Un invito semplicemente a guardare dentro le proprie vite. In quel complesso universo di nodi relazionali nei quali le presupposizioni pregiudiziali impigliano l’essere umano. E forse, ciò che queste opere mostrano, è come inaspettatamente si possa aprire uno spazio altro, non intellegibile con gli strumenti di una logica fallica, propria di tutti i sessi.

Anatomia di una caduta (Anatomie d'une chute) diretto da Justine Triet, vincitore della Palma d'oro al 76º Festival di Cannes e Un amor di Isabel Coixet presentato alla 18ª edizione del Roma Film Fest, sono due film che potremmo definire complementari seppur molto diversi nella scrittura e tessitura registica. Entrambi ci mostrano figure femminili indipendenti, e in quanto tali alle prese con il riflesso dell’ambiguità, non solamente intesa nei termini dei nodi più ambigui e problematici delle relazioni, ma anche dell’indecidibilità e inafferrabilità del sé. E soprattutto, in seno ad un conflitto, con l’apertura di uno spazio terzo. Terzo rispetto alla parola e al visibile. In entrambi i film inoltre c’è la presenza di un animale che gioca un ruolo decisivo in tale direzione, un cane.

Anatomia di una caduta ha un inizio emblematico, strutturalmente indicativo di tutto il film: una donna, che apprendiamo essere una scrittrice, alle prese con un’intervista, la musica altissima assordante che proviene dal piano di sopra rendendola impossibile, un ragazzino accompagnato da un cane. Subito dopo, quando il bambino rientra dalla passeggiata nella natura isolata attorno allo chalet di montagna, il suo urlo rivela la drammatica presenza del corpo di un uomo steso nel sangue in mezzo alla neve. Un plongè dall’alto in soggettiva ci mostra l’effetto di una caduta.

L’uomo è Samuel, il compagno della scrittrice, Sandra, e a sua volta scrittore. Il figlio dei due si chiama Daniel, affetto da cecità a causa di un incidente di cui il padre si ritiene responsabile (essendo accaduto quando non era andato a prenderlo come previsto). Il cane è Snoop, il suo accompagnatore. Dall’immagine della caduta parte una densa stratigrafia tematica che vede la protagonista catapultata in una spirale volta a dissezionare la sua vita in quanto l’ipotesi dell’incidente sembra non convincere e lascia il posto all’accusa di avere ucciso il marito precipitandolo dal balcone. La dimensione thriller si converte in un film giudiziario totalmente fuori dai codici di genere. Il processo e il film stesso sono infatti definiti dalla regista una Recherche della verità. Tuttavia, come rivela il colloquio di Sandra con il suo avvocato difensore, un amico di vecchia data al quale si affida, in un’affinità che va oltre quella lavorativa, la verità non è ciò che si crede essere, un dato inoppugnabile. In tale recherche, infatti, quel che appare acquisito e difficilmente confutabile viene rimesso continuamente in discussione, in un senso o nell’altro, in un caleidoscopio che sorprende gli spettatori e che mette in opera il fuori campo[2]. Il fuori campo è il perno di questo film. Non tanto come spazio esterno al film, al suo campo visivo. Quanto come nebulosa di senso che attraversa la vita e di cui il cinema si fa specchio mettendo in opera il «non figurabile»,  il «non governabile».

A partire da una morte che accade fuori campo, attraverso l’iter processuale assistiamo da punti di vista diversi – per mezzo della parola – ai momenti di vita, intimi, di Sandra (Sandra Huller), Samuel (Samuel Theis) e del figlio Daniel (Milo Machado Graner), momenti che sono quasi tutti fuori campo. Solamente uno di questi fuori campo - la registrazione di un litigio che Samuel aveva effettuato il giorno prima della caduta e di cui la moglie non era al corrente, pur conscia che servisse al marito per reperire materiale umano al fine di ricominciare a scrivere - diventa visibile sullo schermo: le parole di un litigio e il corpo a corpo tra Samuel sofferente di un’impotenza esistenziale lacerante e di Sandra, tedesca che si ritrova in Francia a seguito del volere del marito e parla inglese, una lingua neutra tra quella d’origine e quella della dimensione affettiva. Vita e finzione sono inestricabilmente legati, eppure paradossalmente la linea di demarcazione passa da uno iato, un punto cieco.

Il ricorso alla parola e al visibile non riesce a dirimere i fatti generando una grande pletora contraddittoria: è vero ciò che vediamo, sono vere le parole che udiamo? Per dirla con Lacan, anche quando diciamo la verità, questa non si arriva a dirla tutta, le parole mancano. Cosa accade allora quando ci si appella come nel caso del film al plurisenso della parola di un processo giudiziario?

Quello che secondo le dichiarazioni della protagonista era un rapporto di negoziazione e incontro, si rivela ricattatorio, pieno di risentimento e recriminazioni sotto la maschera di una normale dialettica matrimoniale. Il senso è sempre negato, dall’inizio fino alla parte finale in un crescendo. Non si sente, non si vede, non ci si capisce nulla. In questo non capirci nulla la donna è sottoposta ad un’ondata di colpevolizzazione senza esclusione di colpi. Sandra, infatti, non risponde all’identificazione del senso comune: è madre ma sembra esserlo con distacco, comunica con il figlio solo in inglese, che non è la sua lingua madre, è scrittrice di successo ma sembra sottrarre al marito la sua posizione originaria, è la compagna di un uomo, ma sembra avere un orientamento non univoco. La sua figura si presta all’interpretazione di essere una donna mascolina ed equivoca. Tuttavia, le contraddizioni di un sembiante così nutrito di pregiudizio venano, come i rivoli di un vaso che si crepa, una forma ideale che è la forma fantasma di ciò che l’altro vuole da noi, una forma chiusa, aprioristicamente perfetta nella quale donne e uomini sono incasellati.

Ed è proprio di fronte all’aporia scaturita dalla presupposizione di una forma ideale, che si apre un altro accesso al mondo, che rompe derridianamente quella «semantica del conoscibile come visibile e del visibile come intellegibile» (là dove la parola visibile sta anche per udibile).  Questo spazio altro di accesso è affidato al figlio cieco della coppia. Nell’unica scena all’aperto di un film prevalentemente da «camera», Daniel parla con l’assistente giudiziaria seduto su un prato in primo piano in un campo lungo (l’unica altra scena in esterni era quella della scoperta del corpo precipitato) e prende coscienza che non c’è verità da attingere come qualcosa che si staglia davanti. Qui sta al bambino, Daniel, e al suo fido accompagnatore attraversare i meandri del buio e del dolore.

La cecità, anziché essere il frutto di un incidente menomante, sarà determinante a vedere meglio, vedere oltre in alleanza con ignorate tracce mnestiche. Sarà un ricordo scomparso del figlio cieco ad aprire un varco, doloroso, di passaggio verso lo scioglimento dell’aporia. La verità è mancante, ma fa segno. Qui non interessa il contenuto, se si tratti cioè di una storia edipica, si tratta piuttosto dell’operatività di un infigurabile, combinazione di due figurabili come direbbe Ejzenstejn. Analogamente alla scena della registrazione, vediamo qualcosa che è stato registrato altrove e che freudianamente per un’associazione si connette ad un dettaglio che ha come referente il cane: la scena impressa nella memoria di un dialogo tra Samuel e il figlio e la scena, non vista ma verificata, del vomito del cane per ingestione di aspirine. Un’associazione incerta eppure dirimente, che produce una separazione. Da cosa? Da quelle identificazioni pregiudiziali su cui poggia la colpevolezza ipotetica di Sandra. Il fatto si sbroglia grazie alle «memorie di un cieco», al sopraggiungere imprevisto di ciò che non è visibile ad occhio nudo.

Un amor di Isabel Coixet presentato alla diciottesima edizione del Roma Film Fest, un film «piccolo» (anche nel formato 1,33:1) tratto dal romanzo omonimo della scrittrice madrilena Sara Mesa, mette al centro dell’occhio statico della macchina da presa il personaggio di Nat (Laia Costa), traduttrice, che dopo aver lasciato il suo lavoro si rifugia in un minuscolo paese sperduto tra le montagne. Il film si apre con le immagini di una donna, migrante, che parla in una lingua sconosciuta. Immagini che avranno ricorrenza nel film, di cui inizialmente non si coglie la ragion d’essere apparendo quasi brechettianamente straniante – capiremo in seguito che si tratta delle rifugiate richiedenti asilo di cui Nat in qualità di interprete traduceva racconti di terribili vicende. Quindi vediamo Nat arrivare in un posto sperduto dominato da alte montagne rocciose che si innalzano come falli, uno spazio fisico quasi proiezione simbolica di qualcosa di cui non è dato sapere. La casa che deve ospitarla è inaspettatamente mal ridotta, inagibile, piena di crepe e con la tettoia malmessa dalla quale piove. Non sappiamo nulla di lei, non viene resa la ragione di questo trasferimento. Il proprietario di casa è un uomo brutale, tutt’altro che rassicurante. Eppure, Nat decide di rimanere lì con un cane mal ridotto che il proprietario la convince a tenere, ma di cui in sostanza si disfa. Il cane è fortemente traumatizzato, pieno di cicatrici e con una particolarità. Poco alla volta Nat riesce a vincere la sua diffidenza, a curarlo, addestrarlo e tra i due si instaura un’affettività reciproca; allo stesso tempo entra in contatto con l’ambiente locale che si mostra più o meno amichevole. Un vicino vetraio, solo apparentemente gentile, ma ficcanaso, giudicante e in cerca di ammirazione delle sue «doti artistiche»; una coppia di vicini di casa con due figlie, che organizza barbecue e sta progettando di costruire una piscina, in apparenza una famiglia perfetta inserita in quel luogo, tanto quanto Nat non lo è. Un uomo anziano e la moglie affetta da una malattia senile degenerativa, che tuttavia non manca di avere orecchio per le vicende più private. E infine Andreas, soprannominato il tedesco, un omone taciturno che offre pagamenti in natura in cambio di servigi. Nat sembra una donna libera e intraprendente, determinata nelle sue scelte, che affronta l’ignoto. Per quanto i tratti di fragilità e insicurezza non tardano ad emergere. Ma quello che conta nel film è come la sua presenza nuova, sconosciuta e indecifrabile venga percepita dall’altro, l’oggettivazione che suscita nell’altro. Una oggettivazione che prendiamo atto presto essere tutt’uno con il sottile pregiudizio che inevitabilmente tocca una donna sola, non accompagnata (da un uomo) e la cui funzione/ruolo sociale appare indeterminato. Un giorno Andreas si presenta alla sua porta con una proposta sconcertante: è disposto a riparare le sue perdite in cambio di andare a letto con lei. Interdetta Nat su due piedi rifiuta. Tuttavia, il giorno dopo sarà lei stessa a recarsi a casa sua. Dopo le riparazioni avvenute, per iniziativa di Nat continuano ad incontrarsi e da qui le sfaccettature di questo personaggio femminile si aprono alla totale impossibilità di definirla, etichettarla come invece la comunità fin dall’inizio tenta di fare. Nat sceglie di farsi soggetto del desiderio, di essere un corpo che non subisce, ma agisce. O almeno così sembra. Perché il movimento di questo desiderio cela una sofferenza – una «perturbazione» che Jaques Lacan chiamerebbe godimento, assoggettamento alla ripetizione generata da un trauma inespresso e destinato a rimanere oscuro per tutto il film.

In un centro di poche anime dove tutti si conoscono e la gente chiacchiera, il rapporto con l’ambiente circostante si fa teso, la trama precaria delle relazioni di Nat, a partire dall’illusione di condivisione con un uomo in sostanza indifferente alla sua persona e che presto si allontana, si dissolve in un conflitto dove a prevalere sono l’ipocrisia e il giudizio, sarebbe meglio dire pre-giudizio. Subdolamente respinta, rifiutata con disprezzo e con l’accusa sottintesa, che sapientemente viene instillata dalla regia anche nello spettatore, di essersela andare a cercare, Nat non soddisfa le aspettative della piccola comunità, non sta nel posto a lei designato sulla base delle proiezioni di individui ai quali la vita, i desideri della ragazza sono fuori considerazione. Sarebbe da chiedersi dove sia l’amore di cui parla il titolo. E qui entra in gioco il cane, da Nat chiamato Burbero. La veterinaria dalla quale Nat lo porta per farlo vaccinare le rivela che il cane è un caso raro di doppia sessualità, è dotato tanto dell’organo maschile quanto di quello femminile.  E nel finale il ricongiungimento fortuito con il cane che le era sato sottratto per un incidente (evitiamo di rivelarlo) e la catartica estasi del corpo che danza muovendosi ritmicamente come se qualcosa finalmente fluisse, sembrano disvelarci un’alterità che rompe gli schemi fantasmatici di una precettiva sociale. Il cane è proiezione e simbolo allo stesso tempo di qualcosa di non configurabile, che ancora una volta ci fa segno verso l’incommensurabilità dell’essere umano, di woolfiana memoria. Basti ritornare alle potenti immagini di Virginia Woolf del romanzo The Waves, in cui ciascun personaggio, donna o uomo che sia, è una rete fatta di impronte e vuoti.

Analogamente al film francese, anche il perno di questo film è il non senso, scatena le contraddizioni e allo stesso tempo opera un taglio nella coltre compatta del senso comune. Come oscura è la lingua della donna straniera che vediamo parlare all’inizio del film, così è straniera, impercettibile quella linea di fuga che è parte del corpo, che «libera nel divenire ciò che non si lascia fissare in un termine». Una molteplicità impercettibile di flussi di cui è dato cogliere solo un doppio movimento, di finito e infinito, terra e deterritorializzazione, organismo e corpo, codice e rottura del codice.

Questi due film carichi di simbolizzazioni ci mostrano le conseguenze del potere di codificazione del rapporto con l’altro che nella chiusura della dimensione fallica produce identificazioni e colpe. Se come ci ricorda Freud «l’identificazione tende a foggiare il proprio Io alla stregua di quello assunto come “modello”»[3], potremmo dire che la coazione simbolica che agisce tra la donna e il suo corpo si costituisce come modello ricevuto che tende a farsi esperienza esso stesso, quindi sapere. Ma si tratta di un fantasma, un insieme dato e compatto che racchiude la pretesa di riordinare la molteplicità, di serializzarla, di «territoriarizzarla» quale indice di uno statuto di dominio. Soltanto l’effrazione di qualcosa di non configurabile può aprire all’infinito di un’alterità non codificata. Le protagoniste Sandra e Nat percorrono le strade dell’identificazione al significante fallico che le vuole aderenti al modello dell’Altro, per accedere dolorosamente a quella dimensione che Lacan definisce «il godere di un corpo quando non ci sono più abiti», ossia quando i rivestimenti simbolico immaginari che lo rendevano appetibile adombrano l’oggetto causa del desiderio[4]. Il fallo è un significante del potere, un’insegna iscritta in ogni esistenza umana; in quanto funzione simbolica e immaginaria agisce alla stregua di un sembiante, atto a coprire la faglia invisibile tra il mio agire come soggetto desiderante e il mio «essere». E tuttavia l’apertura della faglia che brucia come il sale o lo zucchero sull’incandescenza di una ferita viva,  ci sembra attivare l’operatività di un divenire-altro di deleuzania memoria, l’arresto di una macchina desiderante che produce un passaggio, uno spostamento.

È qui che per Sandra si situa il suo altrove, tra la torsione del rapporto con il figlio e la spoliazione, la caduta del sapere dell’altro, delle recriminazioni, compromessi e competizione per stare laddove nessun sapere comanda, il non sapere di un corpo che è la donna. E incontrare l’altro, anche nell’accezione dell’altro uomo -  l’amico avvocato con il quale è in congiunzione - in un variato regime di segni che induce la formazione di nuovi concatenamenti. In modo analogo seppur diverso nella sua evidenza, per Nat si tratta di lacerare l’abito al quale aderisce come una pelle, per venire a trovarsi nella non coincidenza del corpo e nella ferita del trauma – di cui il cane è l’alter-ego. La figura del cane del film Un amor ci parla di una differance non assimilabile alla dicotomia che ipostatizza dualisticamente la differenza biologica[5]. L’emancipazione della donna è emancipazione dalla logica opposizionale binaria, ed è emancipazione della società. Come le determinazioni sessuali non costituiscono separate identità assolutizzate, come non c’è sapere che non sia sapere codificato dell’altro, così, al pari di un flusso di ecceità che ci attraversa, la donna è un divenire, non un essere, donna si diventa.

 

 

Note

[1] Quella che chiamiamo cultura patriarcale a proposito di un sistema di oppressione a danno di un genere umano, quello femminile, ha un valore semantico estensivo (per derivazione da patriarcato) e si iscrive in un campo molto ampio che racchiude l’intera storia greco romano cristiana (e anche oltre). Il sostantivo patriarca, dal punto di vista etimologico, risale al greco πατριάρχης, composto da πατριά «stirpe, tribù, famiglia» e -άρχης der. di ἄρχω «essere a capo», ossia colui che guida, che è al comando di un’aggregazione umana, per lo più in termini di discendenza; esso indicava la struttura delle società arcaiche. Non più esistente, è sul piano antropologico che l’accezione viene traslata e convertita in funzione di potere in seguito alle analisi di  Pierre Bourdieu sul capitale culturale, quel processo di simbolizzazione nel quale il ruolo delle parastrutture di potere agisce come sistema di convinzioni introiettato in modo inconsapevole - quindi fondamentalmente invisibile - tale da diventare habitus, che informa l'essere umano, uomo o donna che sia.

[2] Sul concetto di fuori campo si veda S.M. Ejzenstejn, Izbrannye proizvedenija v šesti tomach, 3° vol., Neravnodušnaja priroda, Moskva 1964 (trad. it. La natura non indifferente, Venezia 1981), G. Deleuze, Cinéma 2. L'image-temps, Paris 1985 (trad. it. Milano 1989); P. Montani, L'immaginazione narrativa, Milano 1999.

 [3] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), trad. it. di E. A. Panaitescu, in Id.,  Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1971, 1999, cit. p. 102

[4] Che, continua Lacan, «lascia intatta la questione di che cosa costituisca l’Uno, e cioè la questione dell’identificazione», in J. Lacan, Seminario XX, cit. p. 7

[5] Differenza minima sosteneva Jacques Lacan dalla cui pratica evinceva qualcosa che eccedeva il godimento fallico. E tuttavia occorre chiedersi quanto su questa differenza minima si sono stratificate strutture mitiche, sociali, culturali. Di questo lo psicoanalista francese non si occupa. La sua analisi tocca funzioni logiche estratte dalla clinica. Nei Seminari XIX e XX Lacan, intrecciando la pratica clinica con il quadro di riferimento della logica aristotelica, pone l’uomo e la donna come rispondenti entrambi alla funzione fallica universale, funzione che «sottomette» significante e godimento istituendosi al posto di un «buco», una faglia beante, una lacerazione che ci fa essere come questo corpo singolare. Le forme della sessuazione possono dirsi quindi due declinazioni della funzione fallica tale per cui la differenza non deriva dall’anatomia, ma dalla modalità di godimento. Entrambe le declinazioni sono caratterizzate da due proposizioni, una universale e una esistenziale. Tuttavia, se la proposizione universale della declinazione maschile indica un tutto, si esaurisce tutta nella funzione fallica, mentre quella esistenziale indica l’uno del padre mitico freudiano a cui nulla ex-iste, se non la molteplicità degli altri uomini (da qui l’inesistenza del rapporto sessuale in quanto l’apertura all’altro che si crede esserci nel rapporto con l’altro sesso in virtù della funzione fallica non è un rapporto, nell’atto sessuale ciascuno gode per sé). Nella declinazione femminile, la proposizione esistenziale non è di supporto a quella universale, poiché La donna come fosse un tutto non esiste. La donna quale declinazione femminile del godimento del corpo (godimento lacanianamente inteso non quale piacere, ma come quell’incidenza del significante che genera il corpo sintomatico) è e non è nella funzione fallica. Il Pas tous – non tutto – indica la sua indeterminazione, il non limitato, l’infinito di un essere che risponde alla funzione fallica solo parzialmente. C’è da chiedersi di quale sostrato affettivo partecipi questo infinito, se la sua evenemenzialità viene a  configurarsi come ciò che rompe la logica tout court.



Bibliografia

André Bazin, Qu'est-ce que le cinéma? Paris 1958-1962 (trad. it. parziale a cura di A. Aprà, Milano 1973).

Pierre Bourdieu, Forme di capitale, a cura di M. Santoro, Armando Editore, Roma 2016

Gilles Deleuze, Psicoanalisi morta analizzate, in Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni, Ombre corte, Verona 2019

S.M. Ejzenstejn, Izbrannye proizvedenija v šesti tomach, 3° vol., Neravnodušnaja priroda, Moskva 1964 (trad. it. La natura non indifferente, Venezia 1981).

Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), trad. it. di E. A. Panaitescu, in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1971

Jaques Lacan, Seminario Libro XIX …O peggio, Einaudi, Torino 2019

Lea Melandri, Amore e violenza, Bollati Boringhieri, Torino 2016

Rossana Rossanda, Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri, Torino 2018


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Ileana Zaza è regista, sceneggiatrice e studiosa indipendente. Laureata in Filosofia all'Università di Roma La Sapienza, dopo un percorso teatrale professionale segue i corsi di regia presso la NYFA di New York e la Fondazione FareCinema di Marco Bellocchio. Interessata ai punti di intersezione tra le pratiche artistiche, i saperi e la struttura socio-politica, il cinema come finestra delle visioni del mondo è la prospettiva nella quale opera.

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