Una riflessione sullo spazio da abitare
Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un florilegio di pubblicazioni intorno al tema della casa, non è solo il faro che le ha puntato contro la segregazione dovuta alla pandemia, ma evidentemente qualcosa di più vasto che ha portato su questo tema soprattutto antropologi e filosofi. Il dibattito sull’abitare riceve dall’antropologia linfa vitale che arriva da altre culture e altri tempi, mentre spesso si ha l’impressione che la filosofia non riesca o non possa far altro che continuare a rimuginare sulla propria tradizione squisitamente occidentale, finendo per ripassare su sentieri già ampiamente percorsi dalla disciplina dell’architettura dell’occidente che ne condivide i padri.
Immagine: Torre di bambù per Green Utopia, progettisti: Ziegert Roswag Seiler Architekten Ingenieure. Foto di Maurizio Corrado
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La vera crisi degli alloggi è più vecchia delle guerre mondiali e delle loro distruzioni, più vecchia anche dell’aumento della popolazione terrestre e della condizione dell’operaio nell’industria. La vera crisi dell’abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare.
(M. Heidegger)
In un momento in cui nuove riflessioni, scritti sull’abitare e sulla casa, si diffondono come mai prima d’ora da parte di antropologi, sociologi, filosofi, e popolano il nuovo universo culturale (1), bisognerebbe interrogarsi se tali argomentazioni hanno avuto delle ricadute sul progetto architettonico inteso come esperienza dell’abitare. Perché se è vero che l’abitare è prima di tutto un riconoscimento del nostro essere nel mondo, «Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare» (2), è vero anche che noi riconosciamo dei luoghi sui quali fondiamo il nostro rifugio o casa, e ci prendiamo cura di essi. Gaston Bachelard nella sua Poétique de l’espace (1957) si serve dell’immagine del ventre materno e del rifugio come espressione più intima della casa, che ci consente di stabilire una relazione con il mondo dal punto di vista spaziale. Adriano Cornoldi, architetto e docente, che ha fatto degli studi sullo spazio domestico la ricerca di una vita, esprime il doppio valore dell’abitazione che risiede, da un lato, nella sua qualità interiore ovvero nella sua vivibilità, e dall’altro nell’importanza dello spazio e della sua attrezzatura per l’espressione di quel sentimento: «il valore della casa sta innanzitutto nella sua facoltà di favorire il senso di caldo raccoglimento e di discreta relazione dei propri luoghi “interni” (tanto chiusi che aperti, tanto coperti che scoperti); il suo valore architettonico sta nella capacità dei propri ambienti di esprimere con la loro forma quel raccoglimento e quella relazione» (3). Emanuele Coccia nel libro La filosofia della casa (2021) ci dice che non «esistono case, esiste solo il far casa». Questa interpretazione fenomenologica ben si sposa con la lettura dei luoghi primari dell’abitazione di Adriano Cornoldi, strutturata sulla base di azioni e gesti che avvengono nello spazio: accedere, addentrarsi, accogliere, spostarsi, affacciarsi, appartarsi, raccogliersi. Abitare è un po’ come una danza tra persone e cose animate e non animate, che si muovono in un susseguirsi di stanze, interne ed esterne. Il costruire, diventa quindi «un fondare e disporre spazi» da far abitare. Le nostre esistenze si arricchiscono in un costante attraversamento di luoghi definiti sulla base di gesti che compongono la stessa costruzione architettonica (4). La casa diventa il fondamento su cui analizzare la fenomenologia dello spazio vissuto, per comprendere e prefigurare nuovi modelli abitativi.
Inizialmente erano capanne e tende mobili, poi mura resistenti con l’affermarsi dell’agricoltura e quindi della stanzialità. Quello che permane in tutte le sue trasformazioni è il bisogno di protezione rispetto all’ambiente esterno. La casa e il progetto domestico, così come li conosciamo, nascono all’interno della cultura moderna – in particolare anglosassone da dove derivano i concetti di privacy e comfort – incentrati su un’idea di famiglia «come “cellula germinativa” della cultura borghese» (5), organizzata secondo un fitto apparato di ruoli e competenze che si riflettono nelle diverse stanze. Nel diciannovesimo secolo l’appartamento diventa la tipologia urbana per eccellenza, determinato sulla base di funzioni da dover esperire all’interno di precise spazialità che devono garantire la massima efficienza nelle operazioni domestiche:
«In forme diverse, nella casa di campagna vittoriana, nell’appartamento parigino e newyorkese, nel comfort Biedermeier della casa tedesca, l’abitazione dell’Ottocento si trasforma in un organismo sempre più complesso e specializzato, che definisce e individua le diverse funzioni, che separa e isola i protagonisti diversi della vita domestica: gli uomini, le donne, i bambini, la servitù». (6)
Agli albori del Novecento, il movimento moderno con la sua machine à habiter ha fondato una concezione della casa improntata all’ottimizzazione degli spazi – existenz minimum – e all’efficienza, per assicurare un alloggio alle persone che si spostavano nelle recenti città industriali: «L’approccio razionale allo space planning dei modernisti esercitò un influsso maggiore sulle aree della casa dedicate al lavoro piuttosto che al piacere, all’ostentazione, alle relazioni sociali, all’interiorità» (7).
La recente pandemia Covid19 ha esacerbato fragilità e limiti di assetti spaziali e sociali consolidati da tempo, insieme alla difficoltà di adattarli seguendo i processi di trasformazione in atto. Quando siamo stati rinchiusi nelle nostre case durante il primo lockdown, abbiamo assistito alla nascita di situazioni conflittuali, dove alcune aree delle abitazioni sono diventate spazi contesi (8). Arredi del quotidiano hanno subito un processo di risemantizzazione: il tavolo – quello della cucina o del soggiorno – è un buon esempio della necessità di ripensare gli oggetti per far fronte a esigenze generate da un fattore non umano come il virus. Nell’era pre-Covid19 abitavamo una costellazione di spazi, sia interni sia esterni, poi la casa ha assorbito la nostra intimità così come la nostra socialità. Nell’ottica di una prefigurazione di un futuro possibile, il prefisso post sembra accompagnare ogni campo del sapere, alla ricerca di nuove e diverse visioni progettuali. Pensare all’abitare postdomestico significa riflettere sulla temporalità, sul riuso dei manufatti, sulla rigenerazione delle città e su come adeguare il patrimonio edilizio esistente agli imperativi posti dalla pandemia. Il panorama domestico, in realtà, era già profondamente mutato da vari punti di vista: sociale, nei cambiamenti del nucleo familiare, nei ruoli di genere, tecnologico, politico ed ecologico. Varcando la soglia di una casa qualsiasi, esso sembra però ancora legato e strutturato attorno ai suoi schemi tradizionali. La riflessione sulla postdomesticità riguarda come riorganizzare una geografia delle abitazioni che sappia tener conto della totalità del vissuto. Tra le modifiche strutturali della pandemia, il lavoro da casa sembra essere il cambiamento principale, esso è diventato una presenza quotidiana con la quale convivere da qui in avanti. Alcune previsioni stimano il passaggio del lavoro da remoto da un giorno a settimana (pre Covid-19) a due giorni e mezzo (post Covid-19).
Nel periodo di confinamento in cui ci siamo riappropriati delle nostre case, sono emersi alcuni atteggiamenti significativi degli abitanti, proprio verso quei luoghi in cui da sempre si attua lo scambio tra interno ed esterno. Sono «spazi soglia» dove si esprime la finitezza dell’esistenza e del pensiero: «La soglia, quindi, nella visuale dell’architettura, non è semplicemente il piano di calpestio matericamente differenziato interposto tra la pavimentazione di due spazi comunicanti tra loro, ma è un luogo dove s’incontrano e interagiscono spazi abitativi, punti di vista, stati d’animo, aspettative, sentimenti» (9). Le soglie in quanto luoghi intermedi sono diventati aree d’incontro di una diversa socialità in grado di farci sentire ancora parte del nostro essere nel mondo, ovvero il Buan espresso da Heidegger. Se da un lato è vero che la socialità parrebbe oggi quasi completamente assorbita nel virtuale, grazie ad applicazioni come Facebook e Instagram con le quali «abbiamo creato un luogo psichico di condivisione che sta al di qua di ogni opposizione tra il pubblico e il privato» (10), dall’altro è possibile ripensare lo spazio abitativo partendo dalle aree di margine della casa, dove poter fondare un nuovo modello di condivisione e coabitazione: dai piani terra degli edifici condominiali, ai cortili, fino agli ingressi dei singoli alloggi.
Matteo Meschiari nell’illuminante libro Disabitare (2018) cita il caso della «longhouse dayak», tipica abitazione del Borneo, caratterizzata da una lunga veranda comune detta ruang (piattaforma, spazio) e una serie di spazi privati chiamati lem rumah (dentro l’appartamento) che si affacciano su essa. La veranda rappresenta il luogo di inclusione del Fuori «che viene incorporato nell’architettura domestica come principio coessenziale e fondante il Dentro» (11). L’abitare è, infatti, inteso non solo come azione individuale ma collettiva e comunitaria. L’aspetto più interessante riguarda la composizione dei singoli gesti che si svolgono in questi due luoghi: all’interno si trovano strisce parallele che identificano uno spazio dedicato al focolare, uno spazio per mangiare e quello per dormire. Nella veranda sono collocati lo spazio di lavoro e lo spazio dedicato agli ospiti, quest’ultimo una sorta di soggiorno comune da condividere. Le divisioni tra i singoli alloggi sono realizzate attraverso pareti fatte con strisce di corteccia molto sottili e posizionate in modo da lasciare dei piccoli passaggi per cani e gatti e per le persone che possono scambiare oggetti e parole. In questo senso si attua quella «permeabile promiscuità» o «mescolanza» tra persone, animali e piante, dove le case si fanno «più sottili, più duttili». Abitare postdomestico significa eliminare il supefluo, gestuale e spaziale, significa ridefinire aree della casa in grado di trasformarsi rapidamente, significa garantire uno spazio esterno o «estroverso» pari almeno a quello più propriamente interno.
Quarant’anni di architettura ecologica ci hanno insegnato che il problema della casa è la casa, è l’esterno il nostro ambiente vitale […] e tutta l’architettura dovrebbe essere ripensata da qui.
(M. Corrado)
Note
(1) Si vedano in senso cronologico: E. Coccia, Filosofia della casa: Lo spazio domestico e la felicità, Einaudi, Torino, 2021; A. Staid, La casa vivente: Riparare gli spazi, imparare a costruire, Add editore, Torino, 2021; G. Didino, Essere senza casa: sulla condizione di vivere in tempi strani, Minimum Fax, Roma, 2020; L. Molinari, Le case che siamo, Nottetempo, Milano, 2020 (2016); M. Corrado, L’invenzione della casa: Storia di una trappola, Primiceri editore, Padova, 2018; M. Meschiari, Disabitare: Antropologie dello spazio domestico, Meltemi, Milano, 2018; A. Staid, Abitare illegale: Etnografia del vivere ai margini in Occidente, Milieu, Milano, 2017, M. Corrado, Il sentiero dell’architettura porta nella foresta, Franco Angeli, Milano, 2012.
(2) Il testo della lezione è tradotto in italiano da G.Vattimo in M. Heidegger, Saggi e Discorsi, Mursia, Milano, 1976, pp. 97-108.
(3) Tra i principali testi di Adriano Cornoldi sull’abitare: A. Cornoldi, L’architettura della casa, Officina, Roma, 1988; A. Cornoldi, Architettura dei luoghi domestici, Jaca Book, Milano, 1994; A. Cornoldi, Le case degli architetti: Dizionario privato dal Rinascimento ad oggi, Marsilio, Venezia, 2001; A. Cornoldi, Balconate domestiche. Wohnungs Balkone,Officina, Roma, 2002.
(4) G. Ottolini, Spazio primario e architettura, Ogni uomo è tutti gli uomini edizioni, Bologna, 2012.
(5) M. Vitta, Nuovi modelli dell’abitare, Enciclopedia Treccani, accessibile https://www.treccani.it/enciclopedia/nuovi-modelli-dell-abitare_%28XXI-Secolo%29/
(6) G. Teyssot, “Figure d’interni”, in Il progetto domestico. La casa dell’uomo: archetipi e prototipi, Electa, Milano, 1986, p. 23.
(7) P. Sparke, Interni moderni. Spazi pubblici e privati dal dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 2011 (2008), p. 140.
(8) P. Meloni, “Spazi di vita, spazi di lavoro”, in La ricerca, n. 19, 2021, pp. 21-24.
(9) A. Bossi,La soglia, in Fusco Ludovico Maria, Saitto Viviana (a cura di), Lo spazio della soglia, E.S.I., Napoli, 2016, pp. 11-19.
(10) E. Coccia, Filosofia della casa: Lo spazio domestico e la felicità, op. cit, p. 87.
(11) M. Meschiari, Disabitare: Antropologie dello spazio domestico, op. cit., p. 81.
Michela Bassanelli, architetto e dottore di ricerca in Architettura degli Interni e Allestimento, è assegnista di ricerca (Dipartimento DAStU) e docente a contratto di Allestimento presso la Scuola AUIC del Politecnico di Milano. I suoi interessi di ricerca sono incentrati sugli interni domestici, sulla museografia e allestimento e sulle pratiche di diffusione della memoria collettiva attraverso un approccio teorico multidisciplinare. Di recente si sta occupando degli effetti della pandemia Covid-19 sulle modificazioni dell’abitare contemporaneo.
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