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Dal capitalismo molecolare al nuovo capitalismo politico

Dialogo con Aldo Bonomi




Sociologo, fondatore e direttore della società di ricerche e consulenza sui temi dello sviluppo territoriale Consorzio Aaster srl, Aldo Bonomi ha pubblicato negli ultimi trent’anni numerosi testi, tra cui quelli richiamati nell’intervista, sul cambiamento della società e dell’economia, con attenzione particolare alle trasformazioni dei territori. Alcuni suoi concetti, come «capitalismo molecolare» e «comunità del rancore», sono entrati stabilmente nel dibattito sul cambiamento sociale del nostro paese. Intervista a cura di Salvatore Cominu e Giuseppe Molinari.


Di Aldo Bonomi è prevista la pubblicazione, a settembre 2021 per DeriveApprodi, del libro: Almanacco dei territori. L'arcipelago dei lavori, delle imprese e delle città nella metamorfosi italiana.


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Forse non è vero che «nulla sarà come prima», ma certo siamo nel vivo di una transizione accelerata verso assetti economico-sociali nuovi, che chiamano in causa società, territori, lavoro. Vorremmo sollecitare una riflessione, partendo dalle tue categorie interpretative, su questa transizione. Sei stato tra gli anni Novanta e Duemila, lo diciamo a beneficio di chi non conosce il tuo lavoro, tra quanti hanno concorso ad allestire la cassetta degli attrezzi per interpretare, usando la terminologia del periodo, il passaggio da un capitalismo fordista ad uno postfordista. Anche oggi parli di un nuovo «salto d’epoca», a cui la crisi pandemica ha dato ulteriore evidenza ….


Mi fa molto piacere questa conversazione. Vorrei partire, prima che dalle mie categorie, da un libro collettivo a cui hai collaborato, dedicato ad una figura di riferimento anche per me, Romano Alquati. Il libro, che giustamente si intitola «Un cane in chiesa»[1], è un elogio al pensiero eretico, a chi si è sempre sentito fuori luogo come può esserlo un cane in chiesa.


Partirei da due concetti ricavati dal pensiero di Romano Alquati. Il primo: Alquati è stato un eretico che ha alzato lo sguardo oltre il muro dell’impresa e della fabbrica – tenendo bene a mente i processi di potere e di dominio di questi ultimi – e ci ha detto, nel declino del fordismo, che stava venendo avanti una iper-industrializzazione della vita quotidiana. Grande intuizione. Da questo punto di vista credo che anche il mio andare, negli stessi anni (tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso), dalla fabbrica al territorio, rimandi molto a questo concetto. Il secondo, in quel librino, quando si ragiona di conricerca, termine e pratica di cui tutti siamo debitori ad Alquati, tu evidenzi come nell’essere eretico di Alquati c’è una distinzione metodologica (che poi è tutta politica) tra ricerca paziente e ricerca calda. Tutti quanti abbiamo sempre pensato che la conricerca fosse caldamente e simbioticamente legata al soggetto. Alquati, affermando la necessità di una ricerca paziente, ci ha indicato un terreno di lavoro politico che andava situato nel divenire dei processi. Usando un termine mio, sperando di non essere frainteso, un invito ad andare all’interno della moltitudine sporca, che aumentava. E non solo alla moltitudine come soggetto già dato.


Faceva specie all’epoca conricercare nel «capitalismo molecolare» (Einaudi, 1997), che era poi una metafora compiuta del postfordismo che veniva avanti. Tant’è vero che il mio libro così intitolato è stato travisato da molti perché venne inteso come sinonimo di piccole imprese e distretto industriale, ma non era solo (e non tanto) di questo che parlavo. Certo, si parlava della fabbrica diffusa e della strutturazione nei distretti produttivi à la Becattini e De Rita, tant’è che fu molto criticato dalla scuola distrettualista pura, perché non era «organico» al loro modello, ma non era questo il punto centrale del libro. Piuttosto si soffermava su due oggetti: il primo era l’antropologia del «casannone» (casa+capannone, a proposito di iper-industrializzazione della vita quotidiana), come forma di messa al lavoro della famiglia-impresa, che abbiamo conosciuto con l’espansione urbanistica delle villette a schiera, con i nanetti davanti a casa e a fianco il capannone; il secondo era costituito dalle figure terziarie che partivano dalla Fiat di Torino per andare a lavorare nel Mercosur e in India, nella Fiat globale, figure terziarie del comando che anticipavano Detroit, per capirci. Questo era il capitalismo molecolare, incardinato dentro il farsi fabbrica del territorio. Il mio libro successivo, infatti, che usava provocatoriamente il termine distretto, era intitolato «Il distretto del piacere» (Bollati Boringhieri, 1999), quanto di più lontano dal fabbrichismo. Era incentrato sulle figure messe al lavoro nell’industria del turismo, del piacere, dei parchi a tema. Non erano figure operaie classiche, ma figure che lavoravano dentro i Topolino, si parlava della messa al lavoro del corpo, della sua esposizione, delle cubiste nelle discoteche. La figura che rappresentavo era quella del consum/attore, di chi si faceva attore della propria logica di consumo nello spazio del piacere: in breve, il farsi produttivo del consumo. Quindi è un libro che aveva una sua ambivalenza, non era un libro né pornografico né di fabbrica, ma che raccontava di corpo, di desideri, del sentire, del loisir messi al lavoro per creare valore. Ovviamente anche questa riflessione era territorializzata, in quella grande fabbrica che è la costa adriatica. A rileggerlo uno ci ritrova il destino di Venezia come parco a tema, non è un caso che a Massimo Cacciari, allora sindaco, era piaciuto molto: da una parte Venezia parco a tema, dall’altro il Nord-Est come fabbrica diffusa.


Per poi arrivare al terzo passaggio: il «capitalismo personale» (Einaudi, 2005), libro scritto qualche anno dopo con l’economista Enzo Rullani, inteso come il venire avanti del nuovo lavoro autonomo e, sempre a proposito di iper-industrializzazione della vita quotidiana, la messa al lavoro delle partite IVA, altro che soggetti liberati! I mezzi di produzione diventavano il sapere e le competenze messe al lavoro, questo era il punto nodale. Cos’era il capitalismo molecolare se non il lavoro autonomo di «prima generazione» (l’artigianìa e l’artigianato) che stava cambiando? Cos’era il capitalismo personale se non il lavoro autonomo di seconda generazione, per richiamare Sergio Bologna e Andrea Fumagalli? Per poi arrivare oggi al lavoro autonomo di terza generazione, determinato e governato dagli algoritmi: dalla gig economy a Uber alla grande fabbrica iper-industrializzata di Amazon. Questo è quello che ci ha insegnato il cane in chiesa. Il mio percorso di ricerca è stato questo, una ricerca paziente, una conricerca con i soggetti che ho elencato.


Secondo passaggio: altre figure mi hanno spinto a cambiare la cassetta degli attrezzi. Nel tardo ‘900 e nel nuovo secolo non mi funzionava più, per fare ricerca, il vecchio adagio «dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei», e magari anche dove abiti e per chi voti. Giovanni Arrighi, un altro grande che parlava di sistema-mondo (termine proprio per definire la globalizzazione), mi diceva che era necessario aumentare le domande. Prima domanda da aggiungere: di che genere sei? L’operaio massa ci aveva consegnato il maschio adulto bianco con il lavoro a vita, pensiamo a «Vogliamo tutto» di Nanni Balestrini; mentre invece eravamo ne «L’Orda d’Oro», nel trionfo della moltitudine intendendosi con ciò, come avevo scritto all’epoca, un aumento e una frammentazione delle appartenenze. La moltitudine sporca, nel senso dei detriti che vengono quando il fiume è in piena. Seconda domanda: di che «razza» sei? Da dove vieni, straniero? Eravamo già nell’epoca delle migrazioni, della nuova dimensione globale del lavoro. Le migrazioni in Italia dove le trovavi, se non nel capitalismo molecolare, nelle fabbrichette, nei distretti? Un’ultima domanda a cui non sono ancora in grado di dare risposta oggi, per capire non solo gli interessi ma il sentire soggettivo: qual è la tua visione del mondo in un passaggio epocale, da una precedente condizione di mezzi scarsi e fini certi ad una con mezzi iper-abbondanti e fini incerti? Questa era una domanda fondamentale.


A fronte di questa frammentazione delle appartenenze, ho incominciato ad usare anche categorie più antropologiche, perché ho iniziato a capire che era in atto ciò che Ernesto De Martino chiamava «apocalisse culturale», il non riconoscerci più in quello che ci era abituale. Questi tre esempi che ho fatto prima corrispondevano a figure che non si riconoscevano più in ciò che era abituale. Come cambiava la fabbrica, i turismi, le città-distretto, il terziario o la terziarizzazione? Da qui l’introduzione, dentro al salto d’epoca, di un’altra categoria che poi ho utilizzato molto: il rapporto tra i flussi e i luoghi. Nel sistema-mondo che veniva avanti la finanza era un flusso, forse il principale se ragioniamo in termini di potere (le banche si alzavano dai territori, li abbandonavano per cercare valore nella finanza globale, anche se c’è chi l’ha capito solo dopo il 2008). Le imprese transnazionali erano un flusso (l’andata senza ritorno da Torino a Detroit cos’è stato se non un flusso?) Le reti hard e soft sono flussi: basti pensare ad esempio come l’AV To-Mi ha impattato nella desertificazione più di quanto il fordismo aveva fatto con il triangolo industriale Ge-Mi-To, oppure la rete internet. Anche le migrazioni in un certo senso sono un flusso (nel senso che impattano nei territori e li cambiano antropologicamente, culturalmente, socialmente). Quindi la questione che diventava per me centrale era mettersi tra flussi e luoghi, decodificare i flussi e fare conricerca nei luoghi come eretici, ad esempio con Alberto Magnaghi. Non bastava più la coscienza di classe, serviva una «coscienza di luogo» intesa non come localismo o rinserramento, ma come capacità dialettica di esprimere conoscenza rispetto ai flussi e poi mettersi in mezzo, perché i flussi non sono in sé buoni. E da qui proveniva tutta una serie di neologismi: al termine glocal (l’ibrido globale-locale) io preferivo rispondere usando il termine lobal.


Ed è qui che, ragionando dentro questo mix complicato da tenere assieme (la coscienza di classe e quella di luogo, gli interessi e le identità che sono anche gerarchie di classe e territoriali), usandola con le pinze ho iniziato a recuperare una parola, comunità, nell’accezione della filosofia critica moderna. Richiamo alcuni miei riferimenti. Jean Luc Nancy che parla di «comunità inoperosa», di comunità che subisce i flussi. Roberto Esposito di communitas che incorpora immunitas, la voglia di chiusura. Agamben che parla di “comunità che viene”. Abbiamo iniziato a ragionare sull’essere-in-comune. Scavando in questo processo delicato, ho scritto che l’essere-in-comune non è buono in sé, perché nella dinamica flussi-luoghi produce anche rancore, l’isolamento contro l’altro da sé. Qualcuno in questa dinamica ha pensato che il neonazionalismo potesse essere la soluzione, ma lì c’era già il leghismo. Non è un caso però che frequentando i territori esposti ai flussi si è visto venire avanti, quotato al mercato della politica – quello che poi si è chiamato populismo – il rancore di soggetti che invece di ragionare sul conflitto possibile per riequilibrare il rapporto tra flussi e luoghi, si facevano portatori di conflitti autoreferenziali contro l’altro da sé. Per fortuna non esistono solo «comunità del rancore», ma anche «comunità di cura», che poi significa le pratiche e i mestieri che riproducono la società. Da qui l’attenzione, condivisa con Marco Revelli (ricordo la sua eterotopia quando diceva «non è più l’epoca del militante ma del volontario») verso questo mondo. Più che la ricerca del volontario come soggetto, però, per me bisognava guardare al venire avanti del magma no profit (terzo settore, coop, associazionismo) e della messa al lavoro dei servizi della cura. Occorre oggi ragionare per allargare la dimensione della cura, non intesa riduttivamente come lavoro sociale. Il sindacato, ad esempio, ne dovrebbe costituire un pezzo fondamentale, se impara a occuparsi anche degli invisibili del nuovo lavoro; lo è la scuola; la sanità dei territori oltre che della tecno-medicina.


Il che rimanda ad un’altra grande questione che interroga il presente e il futuro: che ne sarà di quella che chiamo «comunità operosa», per dirla in breve i ceti produttivi che vivono di mercato? Per questo ho inserito il trattino quando ho scritto il libro intitolato «Il capitalismo in-finito» (Einaudi, 2013): dicevo che c’è un capitalismo che finisce e un altro che viene avanti, che è la grande questione che abbiamo di fronte oggi, con le due grandi questioni del nostro tempo: l’Antropocene e il rapporto squilibrato uomo-natura-mezzi; il Tecnocene, l’epoca della potenza dispiegata della tecnica. Ed è qui che continuo a fare ricerca paziente. In primo luogo la pandemia si aggiunge ai flussi che ho citato: non è la fine del mondo ma la fine di un mondo, ne apre un altro, con grandi interrogativi: digitalizzazione del lavoro, rapporto tra territorio e sviluppo (grandi temi che ci ritroveremo ad affrontare, ad esempio, col Recovery Plan), la «dissonanza dell’insofferenza», cioè: abbiamo chiari i salti d’epoca (le dissonanze), ma quando «conricerchiamo» coi soggetti che ne subiscono gli effetti, troviamo ben visibile l’insofferenza, che però non coagula in forme di autorganizzazione.


Sei partito da Romano Alquati e dal suo metodo, volto ad anticipare «la tendenza» al fine di poterla in qualche modo abitare e, possibilmente, ribaltarla. La ricerca paziente era anche inchiesta «a tiepido», come l’abbiamo chiamata in modo immaginifico per porre in luce questa postura: arrivare prima, non dopo che i processi sono già dispiegati (razionalizzando ex post gli eventi sociali, politici o le lotte), se si vuole modificare qualcosa di rilevante della società capitalistica, almeno nel suo «medio raggio» (usando un espressione di Merton, definiva così nel suo modello analitico basato su livelli di realtà, i livelli cerniera – intermedi – di connessione tra l’azione sociale e le grandi dimensioni strutturali del capitalismo – l’accumulazione e in ultima istanza il dominio). Però, al di là della sua figura, se dovessi oggi riscrivere il capitalismo molecolare o il capitalismo personale, da cosa partiresti?


Rispondo esprimendo più dubbi che certezze. Hai citato un termine su cui riflettere: medio raggio. Secondo passaggio, se penso a Bagnasco e al suo lavoro sui distretti, Bagnasco ha parlato di «Tracce di comunità», in cui non c’era nessuna nostalgia per la comunità del ‘900. C’era un desiderio di mettere a racconto il divenire sociale, la società. E quindi dal punto di vista del metodo, è chiaro che si inserisce in quella tradizione che va da Braudel al Polanyi de «la grande trasformazione».


Allora io credo che le dinamiche odierne dei flussi, che sono selettive e gerarchiche, incominciano ad accorparsi in quelle che Alessandro Aresu chiama «Il capitalismo politico»[2], in cui si intende una simbiosi sempre più accelerata tra economia e politica, non intesa quest’ultima solo con la statualità, ma anche con la burocrazia weberiana, la tecnicalità. Nella dinamica dei flussi dunque c’è una selezione e un accorpamento, e a maggior ragione bisogna mettere in mezzo di nuovo la società, riprendendo le lezioni di Polanyi e di Claudio Napoleoni. Quindi il medio raggio e la ricerca paziente, mai come oggi sono importantissimi. Perché, per capirci, significa un percorso di ricerca che deve come sempre decodificare, da una parte, i flussi e i primi (i vincenti), per capire come avvengono prodotti gli ultimi, gli espulsi, i migranti. Ma il medio raggio ci porta nuovamente a guardare ai secondi e ai penultimi, questo è il punto vero. Questi sono cosa resta della classe operaia, cassintegrati, il grande cambiamento nel lavoro pubblico, la scuola, la sanità, questi grandi tessuti orizzontali; e i penultimi sono tutto il grande mondo delle partite iva, grande nebulosa. Oggi siamo tutti qui a parlare dei ristoratori ecc.: sono forconi? No, evidentemente.


Ultima questione: dove fa condensa questa moltitudine? Torno al discorso dei luoghi. Io attualmente ho elaborato solo un balbettio di racconto: ci sono tante oasi che cercano di fare «istituzioni di comunità» (per dialogare con l’ultimo libro, importante, di Roberto Esposito[3]), che non sono però né capitalismo politico né statualità. Medio raggio per me significa anche interrogarsi su cosa resta delle rappresentanze, del terzo settore, dei ceti medi, delle partite iva, dei ritornanti, dell’ambientalismo, del femminismo. Dove lentamente si formano oasi che cercano di istituzionalizzarsi, di rafforzarsi. Ovviamente le oasi sono poche, il deserto aumenta. Secondo me bisogna lavorare dentro questa ricerca paziente, nel capire come questa nuova composizione sociale inizierà a produrre le proprie istituzioni: oggi abbiamo solo dei balbettii.


Qui torniamo ai luoghi, i balbettii che stanno avvenendo in maniera caotica e disordinata, sono molteplici. In primo luogo, con la pandemia, ha preso forma una categoria di cui non ci occupavamo: il rapporto tra il «vuoto» e il «pieno», tra la metropoli e i territori della desertificazione produttiva e sociale. Fino a ieri tutti tendevano al pieno (e lì con la pandemia c’era il dramma). Come si sta ridisegnando oggi questo rapporto? Un balbettio c’è nelle pratiche dei piccoli comuni, che si ritrova dentro una cosa di grande interesse per il nuovo capitalismo politico: la questione ambientale. Sta venendo una nuova «comunità di luogo»? Forse oggi prevalgono ancora rancore e resistenza, ma è qualcosa a cui guardo. Poi, un grande tema riguarda le «città-distretto» (le città medie al centro di sistemi produttivi diffusi), che devono ridisegnarsi. E poi nelle grandi città, la riscoperta dei quartieri: c’è in atto un fermento, questo è il nostro medio raggio. Avere una capacità di narrare questo spazio intermedio che si rimette in mezzo, irrobustendosi con quelle che Esposito chiama istituzioni della comunità e ricomincia a fare società perché, tanto per capirci, il Recovery Plan è il modello balbettante europeo del capitalismo politico, che in Europa non c’è, mentre se lo guardi in America e Cina lo vedi chiaramente. Questa costruzione europea è un grande momento in cui devi rimettere in mezzo la società, sennò diventa un flusso di un capitalismo politico all’alto e niente più.


Però a me sembra soprattutto questo, il Recovery Plan, al di là della sua attuazione effettiva.


Certo, è un flusso di capitalismo politico dall’alto, ammantato dalle solite retoriche sulla tecnica e sull’ambiente. C’è in atto un’evoluzione e il famoso trattino di quel mio libro si sta dispiegando: capitalismo in-finito, l’infinito sta andando verso questo discorso. Mi sarebbe piaciuto se Arrighi fosse arrivato a questo punto, per interpretare le potenze del capitalismo politico di Alessandro Aresu, questo è il nuovo capitalismo dei flussi.


[1] A cura di Bedani e Ioannilli, Un cane in chiesa, Deriveapprodi, Roma, 2020. [2] Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico: Stati Uniti e Cina, La Nave di Teseo, Milano, 2020. [3] Roberto Esposito, Istituzione, Il Mulino, Bologna, 2020.

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