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Costruire l'immaginario attraverso le riviste



IMMAGINAZINE
Immagine: Tim Rollins & K.O.S.,Pinocchio (after Carlo Collodi), 1991.

Una riflessione di Alessia Riva sul ruolo delle riviste oggi a seguito della tavola rotonda IMMAGINA-ZINE - L'editoria indipendente: magazine e riviste tra avanguardia e libertà organizzata dall’associazione Doc(k)s alla libreria Anarres nel marzo scorso.

 

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Da sempre le riviste hanno svolto l’importante ruolo di connettori di comunità, grazie alla loro intrinseca capacità di abitare le temporalità del presente e del futuro prossimo. Per questo motivo ‒ più di altri prodotti editoriali ‒ sono in grado di intercettare e catturare i sentimenti dell’oggi e i baluginii di ciò che sta per accadere, riunendo in loro persone apparentemente molto eterogenee, che tuttavia condividono le stesse visioni. Nel corso del Novecento, le riviste hanno occupato uno straordinario ruolo politico e culturale: sono state un luogo di produzione di idee, uno spazio di dibattito, di polemica e a volte anche di propaganda. Le più interessanti hanno assunto un ruolo pionieristico, sondando territori ancora inesplorati dalla critica, offrendo nuove e divergenti prospettive sul mondo e anticipando tendenze ancora nascoste.

Oggi la digitalizzazione ha permesso un arricchimento quantitativo e qualitativo del panorama delle riviste indipendenti: grazie all’abbattimento dei costi di produzione e di distribuzione fare riviste è diventato infatti molto più accessibile. Tuttavia, la capacità di queste di incidere sulla realtà sembra essersi indebolita. Se pensiamo ad alcune riviste del Novecento che, nonostante la loro breve vita, hanno cambiato e impattato il panorama artistico e politico, risulta difficile trovare nella contemporaneità riviste che hanno ottenuto lo stesso risultato. Forse perché i tempi sono cambiati. Forse perché il presente è sempre più frammentato e molteplice, che il paragone con cambiamenti passati e unitari risulta fallace.

Alcune domande sorgono spontanee: è possibile, oggi, risolvere il limite del digitale utilizzando spazi sociali creatasi grazie alle riviste? Siamo in grado di contribuire alla costruzione di un discorso nel quale le riviste possano tornare protagoniste? A tal proposito, l’associazione Doc(k)s ha invitato realtà editoriali, riviste, magazine e blog indipendenti a partecipare attivamente a una tavola rotonda ospitata nei suggestivi spazi della Libreria Anarres a Nord di Milano. Durante i diversi interventi, ciascuno ha espresso le proprie opinioni e condiviso i propri punti di vista riguardo questioni attuali e a tratti spinose come il tema dell’indipendenza, la critica della forma-festival, il concetto di comunità e quell’affilatissimo filo del rasoio tra lavoro retribuito e pagamento in visibilità.

Numerose sono state le questioni sollevate attorno al tema caldo dell’indipendenza: la crescita di un progetto è testimonianza che consolida la sua indipendenza o decreta la fine di essa? Ci si dichiara «indipendenti» da che cosa di preciso? Com’è possibile oggi definirsi indipendenti riguardo al potere? Ciascun intervento ha messo in luce aspetti, partendo dalla propria esperienza e dal proprio posizionamento, che possono offrire spunti preziosi di riflessione. Per Elvira Vannini di «Hotpotatoes.it» essere indipendenti nel mondo odierno significa provare a stare dentro i processi di produzione assumendo delle tattiche di resistenza, senza lasciarsi assorbire dai processi di produzione capitalista. In altre parole: essere dentro e contro, riappropriandosi di una visione critica a più livelli. Secondo Christian Nirvana Damato di «Inactual Magazine», l’indipendenza totale la si raggiunge unicamente non avendo mai a che fare con il denaro. Quando quest’ultimo – inevitabilmente – entra nell’equazione si parla sempre di compromesso. È necessario, però, riuscire a mantenere un tipo di indipendenza che sia creativa, connessa al proprio immaginario, alle idee e alla sperimentazione da veicolare nelle maglie del processo di produzione. Più che indipendente, la rivista «E il topo» si definisce clandestina. Fondata nel 1992 da artisti napoletani trasferiti a Milano non è mai stata, per scelta, registrata. È nata dall’unione di più artisti che hanno trovato in questa città il terreno fertile per creare comunità e collaborazione anche con artisti noti che transitavano per Milano. «E il topo» è stato uno spazio mentale su carta per sei anni prima di interrompersi. Dopo sedici anni, nel 2012, un giovane artista ha stampato il numero successivo aggiungendo il suo nome in coda agli artisti che erano soliti collaborare con la rivista. Un chiaro segnale che in quegli anni era stato gettato un seme che, indipendentemente dai primi, è risorto e grazie a questo gesto il progetto è ripartito.

Il caso di «E il topo» è emblematico già dal titolo perché contiene in sé l’idea di condivisione: l’utilizzo della congiunzione E presuppone la presenza di qualcosa di già esistente al quale collegarsi. Questo concetto si oppone a quello di avanguardia: guardare avanti, termine divenuto ormai abbastanza sospetto e dal sapore di progressismo ingenuo e militaresco. Marco Enrico Giacomelli ha ben messo in luce come il concetto antinomico di avanguardia sia quello di comunità. Non si tratta di massa, ma fa riferimento alla cooperazione. La comunità non è mai data a priori, ma si struttura di volta in volta ed è proprio da questa prolifica tendenza alla continua rinegoziazione che possono essere generate alternative che siano trasformative in maniera pragmatica. Una tendenza, quest’ultima, insita già nel titolo di «TBD Ultramagazine»: To Be Defined. Un progetto editoriale in divenire che si struttura di volta in volta attorno al dialogo tra artisti, critici e curatori riguardo un focus specifico della contemporaneità e a partire da quest’ultimo, sviluppano saggi scritti e opere visive commissionati per l’occasione.

Una soluzione alle questioni sopracitate va trovata in maniera cooperativa. Chi decide di partecipare ad un festival, ad esempio, è mosso dal desiderio di superare i limiti della digitalizzazione o di una distribuzione che intralcia l’editoria indipendente, ma la forma-festival egemonica non prevede al suo interno uno spazio di rottura e di condivisione di immaginari e soggettività. Questi eventi, fatta

eccezione di qualche caso sempre più raro, sono diventati delle fiere dove ciascuno

espone il proprio prodotto passando ore dietro il proprio stand al servizio della macchina. Al loro interno lo spazio del dibattito e della presa di parola è stato soffocato: la maggior parte dei festival sono diventati dispositivi che quanto più producono immagini tanto più consumano immaginazione.

Forse occorre ripensare a festival che siano effettivamente festival: luoghi di scambio, di divertimento e di aggregazione.

In questo caso la creazione di comunità è una forma efficace di contrattazione dell’indipendenza. Andando un po' controcorrente, nel suo intervento Federico Ferrari di «Antinomie» ha evidenziato come lui non creda nelle comunità e di come la sua rivista sia in realtà formata da persone estremamente diverse che spesso faticano a trovare un tratto comune che le leghi. Penso, provocatoriamente, che nella sua presa di posizione Ferrari abbia pienamente descritto cosa significa fare comunità oggi. Non si tratta di ricercare un’unità irraggiungibile, ma piuttosto di riconoscere a ciascuno le proprie differenze e diversità. Partendo dal riconoscere i differenti posizionamenti di ciascuno è possibile creare rapporti che siano generativi di cambiamento e, accogliere all’interno il dibattito e il conflitto è necessario per continuamente negoziare ed evolvere le proprie convinzioni e scelte. A prescindere dalla questione dell’indipendenza, come lucidamente sottolineato da «Lay0ut Magazine», una rivista oggi che vuole parlare a pubblici eterogenei (digitali e fisici), deve accogliere la pluralità al suo interno permettendo a ciascuno di esprimere il proprio punto di vista e la propria creatività e questo andrebbe realizzato tenendo conto del ruolo fondamentale che dovrebbe avere la sostenibilità sociale – e dunque la garanzia di retribuzione ‒ delle penne che lavorano per essa.


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Alessia Riva è una giovane curatrice e critica d’arte contemporanea, scrive per varie riviste tra le quali «Artribune» e ha recentemente curato «(Im)possible Ecolologies» all'orto Botanico di Roma. Studia alla NABA di Milano.

 

 


 

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