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Tommaso Sarti

Correte forte ragazzi, correte

In difesa dei «maranza» del Corvetto



Verità per Ramy

 

 A partire dai fatti del Corvetto delle scorse settimane, con la morte del giovane Ramy e le successive rivolte nel quartiere, Tommaso Sarti spiega come la costruzione di retoriche e logiche securitarie e razziste, rappresentando i soggetti in maniera stilizzata e stereotipata, è volta creare un «nemico necessario» per rinsaldare la comunità di «interni» in periodi di crisi e a coprire le violenze della polizia nei quartieri.

E allora le rivolte dei e delle giovani giocano un ruolo importante proprio per lottare contro questa violenza e dare vita a nuove forme di empowerment e di politica.


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«Fino a qui tutto bene,

fino a qui tutto bene

fino a qui tutto be…»

(Said, La Haine)

 

 

La storia di Ramy e di Fares è la storia potenziale di molti giovani con background migratori nati o cresciuti nelle città, nelle periferie, nelle province e nei paesi italiani. Giovani visti e trattati come eterni ospiti che devono dimostrarsi grati e utili e astenersi da qualsiasi tipo di rivendicazione che possa contestare il ruolo di soggetti politicamente neutrali che gli viene assegnato.

Nei giorni successivi all’«incidente» e alla morte di un ragazzo di 19 anni, giornali più o meno generalisti hanno utilizzato le solite parole di condanna – nei confronti dei ragazzi per non essersi fermati all’alt, non certo nei confronti dei carabinieri per aver fatto schiantare un motorino –  per criticare ed esoticizzare la risposta e la pretesa di verità da parte de* ragazz* di Corvetto. Come riporta Valeria Verdolini su «Lucy sulla cultura», giornali e politici hanno commentato «[…] ricorrendo a formule pigre, richiamando l’immaginario dell’insicurezza legata all’immigrazione: effetto banlieue, guerriglia urbana, notte di fuoco». Questa operazione narrativa, per quanto possa sembrare banale, è profondamente connaturata al funzionamento del nostro sistema politico. Come già osservato da Stanley Cohen nel 1972, il registro linguistico utilizzato per descrivere i cosiddetti «diavoli popolari» è prevedibile, così come lo sono i soggetti dei panici stessi. Questo linguaggio, che Wolf Bukowski chiama «linguaggio del degrado», è un tipo di lingua che noi tutt* apprendiamo fin dalla nascita attraverso giornali, programmi televisivi, radio e che si concretizza, come scrive Pietro Saitta in Violenta speranza, «[…] in invocazione della polizia, ossia traduzione della questione sociale in questione penale e di politica dell’ordine pubblico» che tende a dividere tra civili – meritevoli di tutela – e incivili – meritevoli di controllo e repressione. Tale operazione, tesa a rinsaldare la comunità di «interni» durante le fasi di crisi e di tenuta dell’ordine pseudodemocratico, porta alla formazione di una società securitaria che fonda la propria tutela non più sulla pericolosità degli eventi, ma su una percezione che si concretizza in richieste di aumento di polizia e di repressione anche in quelle situazioni in cui le prime a sapere della non reale necessità di questi interventi sono le stesse forze dell’ordine. La creazione, dunque, di allarmi sociali che, come scrive Cohen, si concretizzano in categorie di soggetti pericolosi «[…] presentate in maniera stilizzata e stereotipata […]»  è non solo funzionale al mantenimento dell’ordine sociale e politico, ma, come mettono in luce gli studiosi del CCCS di Birmingham, anche strettamente legato ai processi di etichettamento e alla necessità dello Stato e delle classi dominanti «[…] di assicurarsi un controllo egemonico sul piano dell’informazione pubblica». Questo controllo permette di raccontare i giovani del Corvetto, i giovani con background migratori, i giovani di classe popolare come «maranza» ossia come i nuovi diavoli popolari del nostro tempo, fenomeno che viene trattato e raccontato come una novità sociologica secondo un meccanismo di riscrittura storica secondo la quale, parafrasando Valerio Marchi, i cattivi di oggi sono peggio di quelli di ieri. Tuttavia, grazie a numerose ricerche in merito sappiamo che questa narrazione di un’ipotetica età dell’oro in cui le porte di casa rimanevano aperte – favola raccontata da quelle stesse generazioni nate e cresciute durante la lotta armata, le bombe fasciste nelle piazze e nelle stazioni, i sequestri e i tentativi di colpi di Stato – è una falsità, e che le manifestazioni di turbolenza giovanile rappresentano una costante della storia fin dall’età moderna. Perché se è vero che la violenza giovanile può nascere da comportamenti imitativi, questo accade, come scrive Saitta, «[…] perché risponde a bisogni […] evidentemente connessi alla vita urbana [e non solo] sin dalla sua moderna conformazione» che precedono i canali e i mezzi di comunicazione di massa. Ecco allora che il concetto di panico morale diventa una sorta di magazzino pronto all’uso contenente al suo interno tutti gli elementi necessari per dare forma al nemico necessario, elementi stabili nel tempo a cui di volta in volta si aggiungono le innovazioni della società che danno forma e rendono «nuovo» il diavolo popolare.

Non è dunque una novità l’intemperanza dei «maranza», così come purtroppo non è una novità quello che è avvenuto a Corvetto, è inutile parlare di «banlieueizzazione» delle periferie italiane e di derive inaspettate quando, in una sorta di profezia che si auto avvera, abbiamo avuto trent’anni per non commettere gli stessi crimini razzisti francesi nei confronti de* giovani e delle loro famiglie. Eppure anche qui assistiamo ormai impotenti ad un processo di disinfantilizzazione sistemico dei bambini e dei ragazzi discendenti dalle migrazioni che, fin da subito, vengono visti dalla stato come adulti e criminali e, in quanto tali, non meritevoli di quei diritti dell’infanzia che spetterebbero a tutt* indipendentemente dal colore della pelle, dal conto in banca dei genitori, dalla fede professata. I ragazzi con background migratori o popolari sanno bene cosa significa crescere in uno spazio pubblico pensato appositamente per controllarli e separarli dal resto della popolazione, sanno bene che i loro quartieri e le loro piazze sono luoghi rubati alla socialità per fare posto a delle forze di occupazione militare (FF.OO) che sono lì per reprimerli, ma non certo per proteggerli. Ma come possono crescere felici questi giovani? Come possono fidarsi dello Stato quando l’unico volto che conoscono è quello di polizia e carabinieri che possono minacciarli, arrestarli, picchiarli, rovinargli la vita, ucciderli impunemente? Nei quartieri  e – per estensione direi – nelle città nei paesi, ovunque si respira male anche per colpa della polizia perché questa rappresenta una minaccia per le famiglie e soprattutto per i figli delle migrazioni «in quanto ostacolo armato e istituzionale alla libertà di movimento e di socialità», come scrive Fatima Oussak. Non dovrebbe sorprenderci che polizia e carabinieri uccidono: quello che è successo a Ramy e Fares va a sommarsi a quello che è successo a Davide Bifolco – ucciso da un carabiniere a Napoli perché non si era fermato ad un posto di blocco, a Moussa Diarra – ucciso da un poliziotto in stazione a Verona – a Federico, Stefano, Carlo. Anzi, come scrive Houria Bouteldja, potrebbe e dovrebbe diventare un punto d’incontro per una necessaria alleanza tra giovani dei quartieri e delle provincie con background migratori o meno perché abbiamo una storia comune di morti da ricordare e da vendicare e dal loro sacrificio dobbiamo partire per resistere ed esistere. Per farlo però è necessario essere dispost* ad ascoltare le richieste e le parole di quest* giovani senza sovradeterminarl*, cosa che a parole è chiara a tutt* ma che nei fatti non si verifica perché predomina ancora il privilegio e la superiorità politico e intellettuale della militanza bianca. La rabbia del Corvetto, così come la rabbia per la Palestina, è una rabbia legittima che risponde a quella hogra con cui sono nat* e cresciut* quest* giovani, ossia quella volontà istituzionale di terrorizzare e umiliare le persone. Noi bianch* dobbiamo ascoltare questa rabbia perché se è vero che not all men è complicità nei confronti del patriarcato, anche not all white è complicità nel mantenimento del privilegio bianco sulle popolazioni non bianche. Vogliamo lottare per la Palestina? Vogliamo lottare per i Ramy e Fares che vivono in Italia? Per il loro diritto di vivere felici e di essere giovani? Allora dobbiamo sporcarci le mani tradendo la nostra razza e ritrovando quella «bellezza bianca» di cui parla Baldwin. Bellezza bianca che sta non nel negare il proprio essere bianco, ma nel riconoscere la propria responsabilità e da lì partire per la liberazione di tutte e di tutti, perché come ricorda Louisa Yousfi o «sarà paradiso per tutt* oppure sarà inferno per tutt*». Se vogliamo redimerci dobbiamo allora prendere il mare al fianco degli e delle indigen* come fratelli e sorelle, come compagn* uniti in una lotta e in una storia comune fatta di rivolte, di diserzioni, di attacchi, di furti e di fughe che, nella lingua degli schiavi, come scrive Marie Moise «[…] è fare il primo passo verso la libertà».

La «notte di fuoco» de* giovani di Corvetto s’inserisce in una lunga tradizione conflittuale che ritroviamo ovunque in Europa e non solo: «[...] le rivolte non sono un fenomeno moderno, sono esistite nella maggior parte delle società e hanno rappresentato un certo disturbo pubblico […]» (Nasir, 2020, ). È possibile definire la rivolta come «[...] una forma di protesta politica in risposta alle disuguaglianze strutturali» (Akram, 2014, p.376) e di dominio economico e sociale a cui si aggiunge l’ordine simbolico di queste disuguaglianze che «[...] è cruciale nel determinare completamente le azioni e le motivazioni sia delle rivolte che dei rivoltosi» (Sutterlüty, 2014). Ogni rivolta rappresenta un punto di rottura, un evento che è allo stesso tempo di liberazione e di festa è «[...] un evento che lascia segni e fornisce orientamenti che vengono razionalizzati nel tempo. Picco sociale ed evento politico, la rivolta è anche per le persone coinvolte un incontro sociale, un momento catartico e un’esperienza intensa con conseguenze personali» (Troung, 2017). Tuttavia ci sono rivolte che più di altre hanno la capacità di creare immaginari e narrazioni durature, come è avvenuto con le rivolte nelle banlieue francesi del 2005, rivolte che hanno portato in strada una generazione di giovani che: «[...] dopo aver imparato a convivere con il razzismo e il degrado, si affacciava al mondo del lavoro senza nutrire grandi speranze di emanciparsi dalla miseria e senza mai aver risolto il lacerante conflitto interiore tra i valori liberali ed edonisti dei coetanei inglesi [e francesi e italiani] e quelli di austerità e sottomissione confusamente appresi dai genitori e in moschea» (Del Grande, 2023).

Come hanno dimostrato gli eventi a Corvetto l’intervento della polizia determina pesantemente le azioni dei giovani dei quartieri popolari che, consapevoli di poter diventare delle vittime di polizia, accelerano i meccanismi di rivolta urbana esasperati dalla «[...] misura in cui lo stato è riuscito a mantenere superficialmente la legge e l’ordine e a contenere le esplosioni di violenza esercitando un modello puramente paramilitare di gestione della polizia nei quartieri svantaggiati» (Jobard, 2009). Per questi giovani la rivolta, intesa come risposta particolare a problemi specifici, da vita a nuove forme di empowerment e di politica, forme che restano vive nella memoria post-rivolta grazie alle produzioni dal basso come l’hip hop, le fanzine, il writing che tramandano la storia delle rivolte e del loro «[...] tentativo parossistico di creare e disfare la società [...] [diventando] l’apice del processo di socializzazione politica per molti giovani […]» (Troung, 2017).

Per concludere, è vero anche per l’Italia quello che dice Ouassak: «[…] nessuno si interessa di come i/le giovani dei quartieri popolari vedono e vivono la città. I punti di vista che vengono presi in considerazione sono quelli della polizia, del padrone, delle classi medio-alte [e anche popolari bianche] che vivono preoccupate […] perché percepiscono questi bambini come un problema e una minaccia». A riprova di questo, non è un caso che il 7 dicembre abbia dovuto fermare un «onesto» cittadino di almeno 60 anni che voleva picchiare un ragazzino di forse 15 anni davanti a due poliziotti della locale incapaci di prendere le difese di un giovane «maranza». La misura è colma e la rabbia è tanta, questa può essere una minaccia oppure un’opportunità politica, ma se deve essere un’opportunità che sia grande e soprattutto realmente rivoluzionaria.

 

  

Riferimenti bibliografici

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Tommaso Sarti è dottorando in Scienze Sociali presso il dipartimento FISPPA dell'Università di Padova con un progetto sull'autorappresentazione dei giovani musulmani in Italia e sulla loro relazione con la cultura di strada e la musica (t)rap.

Ha scritto vari contributi per «MUN Magazine», «Studi sulla Questione Criminale» e «Antigone».

Komen


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