Pratiche e saperi dei femminismi contemporanei
Il rapporto che le donne intrecciano con le forme dell’abitare, con lo spazio e con i territori è inevitabilmente segnato dalle culture, dagli ambienti, dal portato storico. Tuttavia, soprattutto in Occidente la casa, lo spazio domestico, l’oikos appaiono strettamente connessi alla ruolizzazione del femminile, mentre gli spazi urbani, pubblici, i luoghi delle decisioni e del potere sono appannaggio del maschile. Questa logica binaria non cessa di produrre gerarchie e discriminazioni e non basta denunciarla per potere sperare di superarla. Tuttavia margini, fratture e pieghe stanno disegnando nuove geografie che scardinano questo presupposto. Le frontiere che circoscrivono materialmente e virtualmente i territori del nostro tempo sono geografie attraversate da innumerevoli linee di conflitto.
Le molte articolazioni dei femminismi odierni sottolineano quest’urgenza indicando la violenza, la violenza di un diritto «autoponente» come prima rete di governo e di controllo: «Poiché il potere che conserva il diritto è quello che minaccia. E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come la interpretano teorici liberali sprovveduti […] (la Polizia) è il potere che pone – poiché la funzione specifica di quest’ultimo non è di promulgare le leggi, ma qualunque decreto emanato con forza di legge –, ed è il potere che conserva il diritto, poiché si pone a disposizione di quegli scopi» (Benjamin W., 1921). I territori, soprattutto quelli urbani stanno subendo profonde trasformazioni a seguito delle ondate pandemiche che stanno stravolgendo i modi di vivere, lavorare, camminare, gli incontri gli affetti.
Nessuna sfera, sia essa pubblica o privata, è trascurata. Eppure dobbiamo spingerci un po’ più indietro se vogliamo rintracciare i fili, le trame di questo mutamento, in qualche modo eravamo già «predisposti», già avviati ad affrontare i sommovimenti che la pandemia ha reso più drammaticamente evidenti.
Nelle analisi di G.A. Anzaldùa questa condizione di margine, di transito incessante attraverso la frontiera, le molte frontiere è il modo in cui oggi siamo chiamati a una costante messa in discussione di ogni certezza, di ogni progetto, di ogni alleanza. Gli spazi appaiono sempre più perimetrati, privatizzati, segreganti, isolati come i nostri corpi, definiti da identità precarie ma pur sempre resistenti. I corpi, le identità sono sfidati, messi in tensione poiché strappati ai contesti di origine, dalle appartenenze di genere, dalla lingua materna per poter affrontare condizioni nuove diverse, auspicate come migliori e non sempre tali. Questa condizione oggi è sempre più diffusa non solo lungo le frontiere visibili e invisibili, ma anche nei nostri contesti urbani in cui brecce di emarginazione intersecano contesti privilegiati (Anzaldùa G.A., 1987).
L’attivismo femminista in questo ha posto questioni cruciali soprattutto in quelle parti del mondo (India, Africa, Latino-America) dove i meccanismi di espropriazione dei suoli rimandavano e rimandano alla sottrazione di risorse primarie, acqua, cibo etc. Credo, in ogni caso, che le donne abbiano affinato saperi più esperti e immediati riguardo a ciò che ci accade, che ci parla di catastrofi annunciate e già previste come nei testi di Isabelle Stengers (2001) e Donna Haraway (2019). L’impatto economico e demografico sposta la popolazione femminile in un movimento incessante di entrata e di uscita dal lavoro, dalla «cura» (cfr. Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, 2021), dall’attenzione alla vita. Non vale in questo caso appellarsi a forme di «resilienza» quando la vita stessa è sottoposta a procedure eugenetiche che selezionano in base al genere, alle minoranze, alla classe, alle appartenenze.
I territori del controllo si configurano pertanto sempre più in territori della selezione umana e non in ragione di meccanismi produttivi, formazioni economiche che ne hanno determinato il devastante impatto, quanto in relazione alla nuova gerarchia del governo delle masse (Canetti E., 1960).
Che ruolo gioca l’intensificazione della tecnica in tutto questo? Per Haraway «il corpo aperto cyborg» indicato nel suo Manifesto (Haraway D., 1985) è chiamato oggi alla creazione di nuove alleanze, alla realizzazione di simbionti esito di una drastica riduzione dell’impronta demografica. In questa analisi molto non torna, Haraway parla di «buone regole» condivise anche tra le specie, indica nel percorso femminista un’intuizione della «naturacultura» (Haraway D.,2003) estranea al modello patriarcale, ma sottovaluta la presa con tutto ciò che rimanda alle condizioni materiali, sociali, politiche e mentali in cui questa pandemia ci ha gettato. Il corpo proprio, il corpo collettivo non è mai un qualcosa di astratto come non lo sono i territori esistenziali che attraversiamo, materiali o virtuali che siano. I corpi attraversano le diverse soglie di intensità e trasformazioni, dunque sono esposti al continuo mutare delle condizioni che abitano.
Al contempo, le pratiche, le analisi del femminismo nelle formulazioni di femministe-attiviste come Anzaldùa, Haraway, Butler, Shiva indicano la possibilità di aprirsi a una nuova relazione ecologica che sappia essere critica rispetto ai meccanismi di espropriazione e discriminazione del presente.
Queer ecologia
Il termine queer si è da tempo emancipato dal suo significato originario che lo collocava nella sfera di una sessualità sporca e marginalizzata. Divenendo una bandiera dei movimenti di sovversione dei generi e delle appartenenze, ben presto queer ha finito con l’indicare le zone, i territori i corpi in transito. Geografie meticce in attrito permanente. I corpi, come i territori, sono sempre collocati, dunque occorre sempre considerare gli ambienti che sono il frutto di un sistema di relazioni molteplici, materiali, immaginative, operative etc.
Ma questi sono gli ambienti che più sono stati interrogati dalle donne, dalle attiviste, dalle artiste, si tratta di pratiche che tendono a mettere in valore spazi e relazioni al fine di consentire condizioni di vita migliori, più felici. Tutto questo però non può prescindere dai contesti più ampi di governo attuale. Sistemi di governo e di controllo sviliscono le pratiche ecosofiche marginalizzandole nei sistemi della comunicazione e dell’estetizzazione. In suo recente intervento Vandana Shiva, riferendosi alle proposte di Bill Gates riguardo la questione climatica, denunciava la «dittatura digitale» e il nuovo colonialismo praticato dai «nuovi filantropi» che investono in brevetti che riguardano gli ogm, privatizzano le risorse, sottraggano terre e le condizioni minime di vita.
Per molte attiviste dunque la questione della terra e del territorio si pongono come essenziali per qualunque forma non solo di resistenza, ma anche di ripensamento dello stato delle cose non più rinviabile, come la pandemia in corso ci sta ben mostrando.
Il queer è divenuto oggi un approccio diverso rispetto alla sua sfera d’origine.
La queer theory nasce in contesto femminista e viene coniata da Teresa de Lauretis nel febbraio 1990 in occasione di una conferenza all’Università di Santa Cruz in California. La formula «queer theory implica una doppia enfasi – sul lavoro concettuale e speculativo inerente alla produzione dei discorsi, e sul necessario lavoro critico di decostruzione dei nostri propri discorsi, dei nostri propri non detti».
Da qui il passaggio in diverse altre discipline accademiche, ma soprattutto riguardo alla critica ecologica ha modificato i campi della sua applicazione rendendo il termine molto più elastico e depurato dei suoi connotati più radicali. In ogni caso la spinta e l’interesse verso zone di contaminazione, meticce e non codificate ha permesso a un geografo come Matthew Gandy di esplorare prospettive molto interessanti. Gandy nel suo Queer Ecology (Gandy M., 2015) occupandosi di uno spazio queer il cimitero di Abney Park a Londra, si sofferma sul ruolo di quegli spazi pubblici, che per motivi diversi si trasformano in natura urbana selvaggia costituendo così una sorta di minaccia alla normatività dei quartieri e dei sistemi di sorveglianza delle città.
Ora, questo movimento di inselvatichimento, di uso molteplice e diversificato eccede naturalmente gli spazi urbani e finisce con il dilatarsi a tutta la sfera variegata dell’abitare, dunque dei corpi, delle relazioni e degli spazi altrimenti costituiti. Le monoculture che impoveriscono le comunità locali e rendono sterili i terreni secondo la volontà delle grandi multinazionali agroalimentari, corrispondo alla perimetrazione e alla sorveglianza dell’urbano, soprattutto laddove zone di frattura, Taz (Hakim Bey,1991), declinano possibilità di eccedenza rispetto agli usi consentiti dalle società di controllo e sorveglianza.
Si tratta dunque di pratiche, spesso costruite in modo orizzontale e talora occasionale che innescano dei processi di nuova scrittura dei territori e che riescono a rilanciare l’idea di una domesticazione, di un’omologazione che non è mai compiuta o totalizzante. Sono brecce che non restano chiuse in sperimentazioni locali e che riescono ad aprire percorsi rizomatici, magari fragili e talora più forti che si diffondono con un andamento sismico.
Vale la pena allora di richiamare di nuovo le analisi e le pratiche di attivismo di Gloria Evangelina Anzaldúa. Accademica e studiosa di teoria cultura chicana che alle zone di transito e di frontiera ha dedicato nel suo Borderlands / La Frontera: The New Mestiza, i suoi studi inerenti le condizioni di emarginazione e dominio eteronormativo e coloniale, condizioni permanenti contro le quali occorre recuperare tutte quelle lingue culture «minori» come insegnano Deleuze e Guattari (Deleuze G., Guattari F., 1975) che evocano il «popolo che manca».
Ilaria Zanella, nel suo lavoro di ricerca per la tesi da me seguita, tesi intitolata Our Name is Zero for We Are Many – Generi sintetici ai margini della biopolitica, da me seguita, propone le seguenti considerazioni riguardo al lavoro di Anzaldúa:
«Negli scritti di Gloria Evangelina Anzaldúa, “nepantla” – un termine nahuatl che significa “spazio intermedio” – indica punti temporali, spaziali, psichici e intellettuali di liminalità e potenziale trasformazione. Durante nepantla, le concezioni individuali e collettive di sé e le visioni del mondo vanno in frantumi. Le categorie apparentemente fisse, che siano basate sul genere, la razza, la sessualità, lo stato economico, la salute, la religione o una combinazione di questi elementi e spesso anche altri, cominciano a erodersi. I confini diventano più permeabili e iniziano a sgretolarsi.
Alcune persone che vivono questi stati di nepantla diventano ciò che Anzaldúa chiama “nepantleras”: mediatori, “in-betweeners”, “coloro che facilitano i passaggi tra i mondi”. Nepantlera è una parola che Anzaldúa conia per descrivere le persone di soglia: coloro che vivono all'interno di e tra più mondi, e che sviluppano ciò che lei descrive come una “prospettiva dalle fessure”. Le Nepantleras usano la loro prospettiva da queste “crepe-tra-mondi” per inventare teorie e tattiche olistiche e relazionali che permettano loro di ripensare, trasformare i vari mondi in cui esistono» (Zanella I., 2020).
A queste pratiche, a queste prospettive che sono già in essere in tante pratiche del mondo e in diversi campi dell’attivismo contemporaneo occorre riferirsi se pensiamo che il quadro del modello dominante non sia definitivo, che vi sia una riformulazione del piano dei conflitti e delle progettualità, che i semi, le tracce lasciate negli ultimi decenni si stiano raccogliendo in forme di nuove consapevolezza e che in questo i femminismi, il queer, i movimenti Lgbit costituiscano un’innervatura importante per ripensare il presente.
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