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4. Alla crisi del modello economico industrialista italiano degli anni sessanta e settanta, il buon senso – prima che la politica di piano – voleva che si rispondesse con istanze di correzione e mitigazione sostenibile dello sviluppo, basate innanzitutto sulle regole ambientali dei territori. Viceversa si è puntato ancora su programmi e progetti ad alto impatto ambientale e paesaggistico e forte consumo di suolo: se l’industria implodeva, si invocavano e poi si perseguivano nuove cascate di cemento per infrastrutture, servizi, residenze. Si rilanciava – invece di bloccare e riqualificare – la «città diffusa». Con la denuncia di «una carenza di infrastrutture che blocca il paese» (stessi slogan dell’immediato dopoguerra), ecco i nuovi progetti, con liste enormi di opere, fuori da ogni pianificazione, spesso contro l’ambiente, per presunte, quasi sempre inesistenti, esigenze dei territori. Si ricostruiva, ampliando ovviamente l’urbanizzato, anche nei casi di «post disastri naturali» (amplificati invece dal degrado da cementificazione); così come si faceva nelle città e nei contesti «premiati dai Grandi Eventi»: gli anni Ottanta e Novanta venivano allegramente marcati dal «Piano Autostrade», «Le Colombiadi», gli «Stadi dei Mondiali», le «Nuove Centrali Termoelettriche» che dovevano ovviare all’abbandono del nucleare, gli «Inceneritori» più tardi «Termovalorizzatori»; e finalmente l’«Alta Velocità» ferroviaria. La crisi della prima repubblica con Tangentopoli sembrava dovere innescare riflessioni e cambi di rotta rispetto ad un modello che tra l’altro favoriva le distorsioni gestionali e criminali di una governance già in crisi. Ma dalla fine dei partiti della prima repubblica scaturivano invece nuove istanze politiche subalterne o dirette espressioni della finanziarizzazione crescente, che pervadeva tra l’altro la politica delle «Grandi Opere». Il governo di destra guidato da Silvio Berlusconi, cresciuto con l’edilizia e le costruzioni favorite da clientele e corruzione, prima dell’impero mediatico televisivo, sanciva e consolidava queste logiche.
5. L’irrinunciabilità delle Grandi Opere (comprese quelle già scartate perché assai improbabili oltre che insostenibili, come il Ponte sullo Stretto di Messina), veniva sancita normativamente con la Legge Obiettivo del 2001. Che nel tempo ha costituito una formidabile fonte di spesa e sprechi, diventando un enorme strumento di trasferimento di risorse pubbliche al capitale privato. Il regime di «emergenza e straordinarietà» in cui operava la legge arrivava infatti al punto di affidare la totalità delle scelte in fase esecutiva a chi doveva costruire. Una volta decisa l’opera, il blocco «concessionario-contraente generale» coglieva che era possibile fare affluire subito sul progetto grandi flussi di risorse. Che spesso si acquisivano dagli stessi finanziatori, entrati a far parte – come titolari o creditori – dello stesso consorzio di imprese che si indebitava per avviare la costruzione. In nome dei «soldi tanti e subito» si trascuravano sovente istanze tecniche fondamentali: molti progetti non avevano nemmeno fattibilità certa, la valutazione ambientale era un problema e si taroccava o più spesso si ometteva, qualsiasi razionalità programmatica era ridicolizzata. Più tardi però, allorché si doveva realizzare l’opera – almeno in alcune sue parti – i problemi ambientali e tecnici occultati riemergevano e si trasformavano in blocchi e interruzioni, spesso stop definitivi. I flussi di denaro ingenti si interrompevano, le imprese spesso fallivano (ricordiamo che oggi la più grande impresa nazionale, Salini-Impregilo, sta trasformandosi con i soldi pubblici di Cassa Depositi e Prestiti, in una grande holding che ha come primo compito quello di salvare altre grandi imprese fallite per la logica appena descritta). Il meccanismo è tale per cui le finanze private vengono gratificate prima delle condizioni di crisi; poi il pubblico paga per tutto questo. Molte inchieste giudiziarie – MOSE in primis – hanno illustrato questo sistema.
Su richiesta anche dell’Autorità Anticorruzione, oltre che di molte istanze sociali e ambientaliste, la Legge Obiettivo è stata abrogata nel 2016. Disseminando il territorio nazionale di centinaia di cantieri sospesi o addirittura mai avviati, con ulteriore degrado ambientale e consumo di suolo. Paradosso di tutto ciò è che, mentre appare chiaro che il meccanismo si inceppava per la ferma intenzione di massimizzare spese e flussi finanziari, a scapito di buone progettazioni per risoluzione reale dei problemi, il «coro mediatico» attribuisce blocchi e fallimenti «agli ambientalisti, ai comitati, all’odiosa burocrazia». La logica della Legge Obiettivo cancellata peraltro prosegue attraverso i vari «decreti sblocca» (Italia, Crescita, Cantieri) che perpetuano meccanismi e strumenti.
6. La politica che dovrebbe controllare ed eventualmente ovviare a tutto questo, ne è invece prigioniera, con istanze che ne obliterano l’azione fino alla «liquefazione». Anche i 5 Stelle, pure cresciuti su critiche e denunce di tali logiche distorsive, hanno finito per arrendervisi una volta andati al governo, lasciando che persino un Presidente del Consiglio espresso dal loro movimento, giungesse a mentire su costi, penali e fondi anticipati (inesistenti), per non bloccare il TAV. Cedendo così anche sull’«ultima spiaggia» pentastellata e condannando il movimento a un declino probabilmente esiziale.
Ci vuole invece una vera svolta «green». Come richiedono tra l’altro i ragazzi di Fridays for Future con Greta; e, da tanti anni, ambientalisti e comitati locali. Tali inversioni di tendenza possono scaturire da sostegni forti agli accordi globali di contenimento dei grandi inquinamenti, e dalla riconversione ecologica di contesti e produzioni. Basati sul risanamento e sulla riqualificazione di territorio e paesaggio; e quindi sugli «statuti dei luoghi» e sulle «regole ambientali» dettate dagli ecosistemi locali. Simili istanze non possono oggi che muovere dal «basso»; dagli abitanti dei territori, organizzati in comitati, assemblee, tavoli, laboratori. Che si battono per bloccare il degrado e formulare visioni di sostenibilità sociale e ambientale dei contesti, investendo e rifertilizzando in tale logica una politica istituzionale, altrimenti strumento dei grandi interessi che hanno determinato i disastri attuali.
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