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Comune umanità


Giorgio Mattia, Ci incontriamo a metà strada, 2019, matita su carta, legno e ferro, 18x144x55 cm
Giorgio Mattia, Ci incontriamo a metà strada, 2019, matita su carta, legno e ferro, 18x144x55 cm

Due popoli fratelli, spinti al massacro dalla visione del mondo putiniana – che modellizza la Russia come vittima eterna delle manovre geopolitiche di un Occidente collettivo, da sempre intento a minacciare la sua integrità territoriale – e dall'immaginario di cui si nutre attualmente l'identità ucraina – che tenta di accreditarsi come parte dell'Occidente assumendo in toto la dicotomia civiltà-barbarie attraverso cui esso gerarchizza popoli e nazioni.

Una prospettiva sul conflitto tanto inedita quanto importante oggi, mentre i ceti dirigenti insistono sulla disumanizzazione dell'altro e sull'estraneazione reciproca. Come scrive l'autore: «Due nazioni distinte ma legate da mille fili, memori di lunghe fasi di statualità condivisa, portate poco a poco all'odio reciproco da élites che da questo odio traggono potere e legittimazione».


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In una società basata sulle classi, la nazione come omogeneo insieme sociopolitico non esiste, mentre in ogni nazione esistono classi con interessi e «diritti» antagonistici. Non c'è letteralmente alcuna arena sociale – dai più crudi rapporti materiali ai più sottili fra quelli morali – in cui le classi abbienti e un proletariato consapevole possano assumere la medesima posizione e figurare come un indifferenziato insieme «nazionale».

 Rosa Luxemburg, La questione nazionale e l'autonomia (1908)[1]

 

In tutta la canèa di chi tifa Trump, di chi tifa Putin, di chi tifa Xi, di chi tifa armi, armi, armi fino a una vittoria che non è mai stata possibile , di chi tifa dal salotto di casa, fottendosene, nel profondo dell'animo, di tutto e di tutti, nessuno spende una parola – una – per due popoli fratelli spinti al massacro, per una nazione smembrata, umiliata, spartita, e per un'altra nazione sorella lasciata in balia di un regime spietato e predatorio.

Da una parte, bieco suprematismo «bianco» spacciato per difesa della democrazia; dall'altra, rozzo campismo spacciato per «multilateralismo»: in mezzo, la tragedia storica di due nazioni distinte ma legate da mille fili, memori di lunghe fasi di statualità condivisa, portate poco a poco all'odio reciproco da élites che da questo odio traggono potere e legittimazione.

Eppure, il quadro etnoculturale imperiale prima e sovietico e postsovietico poi, rappresentava un mosaico complesso, con forme di convivenza, di interscambio e di conflitto a plurimi livelli e a geometria variabile nei medesimi spazi, dove aree dal nucleo omogeneo andavano trapassando in altre, in un continuum linguistico, culturale e identitario che vedeva infiniti gradi intermedi. Su tale continuum, sopravvissuto alla fine dell'Urss, nelle aree di più forte «intersezione» (Donbass, Crimea) si è sovrapposto dal 2014 un conflitto ora più violento ora latente, che ha stimolato la diffusione e il radicamento di due narrazioni ideologizzate ugualmente tossiche: dal canto suo, il paranoico Weltbild putiniano «modellizza la Russia come vittima eterna delle manovre geopolitiche di un Occidente collettivo, da sempre intento a minacciare la sua integrità territoriale»[2]; in modo del tutto speculare, l'immaginario di cui si pasce attualmente l'identità ucraina tenta di accreditarsi come parte integrante dello «spazio sacro» in base al quale da sempre l'Occidente gerarchizza popoli e nazioni, ossia a presentare «gli ucraini» come antemurale contro la barbarie asiatica che preme sull'Europa «civile».

Come dicevo giusto un anno fa in un'intervista purtroppo ancora attuale, «da una parte, l’ideologia putiniana presenta “i russi” come una categoria ontologica e sovratemporale alla cui comunità di destino “gli ucraini” imprescindibilmente partecipano anche se non lo sanno, per amore o per forza: basterà dare loro una serie di energici sgrolloni perché siano costretti a ricordarsene. D’altra parte, in campo ucraino si va elaborando – e non dal febbraio 2022! – una narrazione secondo cui “ucraini” e “russi” sono ontologicamente opposti e inconciliabili: europei, illuminati e civilizzati gli uni, asiatici, ottenebrati e barbarici gli altri»[3]. In questa ottica, tutte le fasi storiche vissute dai due popoli in una qualche forma condivisa vengono visti come pura e semplice oppressione coloniale, e tutti coloro che a qualsiasi titolo hanno combattuto contro «i russi» fanno bene o male parte dell’album di famiglia, per quanto aberrante possa essere stato il loro operato, senza escludere neppure i collaborazionisti filonazisti del 1941-45.

E nonostante ciò, lo scoppio di un conflitto bellico vero e proprio ha colto di sorpresa la gran massa delle due popolazioni e ha lasciato sgomenta quella vasta area di persone che nella commistione delle culture aveva sempre trovato la propria identità: «I miei antenati riposano in un cimitero ucraino» – commentava un collega di Mosca nel febbraio 2022–, «I carri armati di quella che chiamo “patria” calpestano quelle tombe, mentre coloro che mi viene chiesto di chiamare “nemici” muoiono per difenderle». E ancora, un altro collega di San Pietroburgo: «Sono nato a Odessa cinquant'anni fa in un ambiente ebraico russofono. Quando ero bambino, la mia famiglia si trasferì a Leningrado, e oggi io mi sento un ebreo russo e un pietroburghese fino al midollo. Se i miei fossero rimasti a Odessa, oggi – rimanendo me stesso – sarei un patriota ucraino, impegnato a difendere la patria per quanto posso; se invece la mia famiglia, come tante altre, avesse optato per l'aliyah, ora avrei un'identità del tutto diversa, e il conflitto in corso, versoimilmente, mi sarebbe estraneo».

Si tratta di solchi incisi a forza nel tessuto identitario di due popoli, che io spiego così ai miei studenti partenopei: sarebbe come se la Campania dichiarasse guerra alla Lombardia. Quanti residenti in Lombardia si chiamano Esposito, Palumbo, Quagliarulo etc.? Sono due nazioni che hanno vissuto un'osmosi durata decenni, e la guerra che le contrappone – prima ancora di abbattere confini – ha attraversato famiglie, affetti, identità. Ma una volta che il meccanismo si mette in moto, il processo di polarizzazione diviene inarrestabile, settori sempre maggiori della popolazione vi rimangono coinvolti, quelli che erano artefatti ideologici astratti si coprono di carne e s'irrorano di sangue, cominciano ad espandersi e a orientare l'intero complesso delle rappresentazioni nelle due comunità contrapposte. Si scava un baratro che neppure gli slanci più generosi riescono a colmare: «Penso che per un po' tutti noi, che pure appoggiamo gli ucraini con tutto il cuore, faremmo meglio a lasciarli in pace per un po'», mi ha confidato di recente un amico e collega russo in esilio, che per le proprie posizioni coraggiosamente antigovernative si è guadagnato il marchio di «agente straniero». «Così come non va bene starsene lì a tampinare una donna che ha subito violenza chiedendole: “Tu lo sai, vero, che io non c'entro niente?”, allo stesso modo, adesso noi russi non dobbiamo imporre agli ucraini la nostra amicizia». 

Forse, per un tragico paradosso, l'intero circolo della disumanizzazione e della estraneazione reciproca deve compiersi perchè all'altro capo si riesca nuovamente a scorgere un barlume di umanità. Dal 2 gennaio circola il terribile video di un combattimento corpo a corpo fra due soldati nemici, ripreso «in soggettiva» dall'elmetto di uno dei due combattenti e subito divenuto virale sia in Russia che in Ucraina, ma poco o nulla diffuso presso il pubblico occidentale: è uno scontro che mostra l'essenza della guerra in tutta la sua nuda disperazione, che si conclude con l'agonia di uno dei due contendenti e con un paradossale saluto fra i due – fra l'ucraino che chiede al russo di lasciarlo morire in pace e l'altro che se ne va, in segno di rispetto.

Risultano del tutto comprensibili i motivi per cui un documento – si direbbe – assai efficace dal punto di vista mediatico è stato passato sotto silenzio qui da noi. Esso, in primo luogo, contrasta la narrazione epica e manichea di uno scontro «tolkieniano» fra ondate di masse barbariche mandate al macello e falangi compatte di difensori della civiltà: «si tratta di un conflitto in cui le forze in campo hanno una densità bassissima»– rapporta uno dei più lucidi analisti della guerra in corso – «e in cui agiscono unità di meno di una decina di uomini, spesso su mezzi veloci quali motociclette, quad o addirittura monopattini. E questo non perché gli uomini non ci siano o non ci siano i mezzi per spostarne di più, ma perché qualsiasi concentrazione di truppe appena più grande viene immediatamente notata e colpita con i droni, i missili o, per chi ce l'ha, l'aviazione»[4]. Una guerra molecolare, dunque, altamente individualizzata, dove «in pratica ogni coppia di soldati ha la sua aviazione e ricognizione personale sotto forma di droni, armati o meno», e in cui lo scontro regredisce a lotta mortale, all'arma bianca, fra singoli che si battono per la sopravvivenza, ridotti alla propria nuda, disperata umanità.

E in secondo luogo, a vanificare la narrazione dominante di questa guerra è la stessa immagine di due persone normali calate in una situazione del tutto aberrante: due uomini che, in altre circostanze, avrebbero potuto essere colleghi, amici, compagni; due uomini che non hanno alcun interesse personale a infliggere dolore e morte, che non desiderano farlo e che – pur costretti a farlo – riescono a instaurare un attimo di comprensione reciproca finale in cui non ci sono più Russia e Ucraina, propaganda e ideologia,  ma solo un istintivo sentimento di comune umanità[5].

Il 24 febbraio 2025, per il terzo anniversario dell'inizio della guerra, la piattaforma indipendente Mediazona (fondata da attiviste del gruppo antagonista Pussy Riot) ha pubblicato i nomi dei caduti russi che è stato finora possibile identificare: 95.323 morti – su 165.000 complessivi presunti – hanno ora un'identità[6], e un giorno, si spera, torneranno ad averla anche i caduti di parte Ucraina. Persone e vite, non ingranaggi anonimi di una macchina di morte. Popoli fratelli, non eserciti schierati su una frontiera perennemente sanguinante. Comune umanità, appunto...



Note

[1] Non mi risulta che l'articolo, ripubblicato nelle Opere complete in polacco (1959), sia mai stato tradotto in altre lingue. Un intervento più breve della Luxemburg sulla questione nazionale è tradotto in italiano in R. Luxemburg, Scritti politici, Roma, 1970, pp. 251-281.

[2] R. Nicolosi, Putins Kriegsrhetorik, Konstanz U. P., 2025, p. 75. Cfr.: «All'interno di questa visione paranoica del mondo, l'invasione dell'Ucraina appare come una guerra di difesa necessaria e a lungo prevista. Nel nuovo ordine mondiale che si intende creare grazie a essa, la Russia verrebbe riconosciuta nuovamente come una grande potenza geopolitica. In tal modo, Vladimir Putin assume il ruolo di una figura storica, perfino messianica, che porta a compimento la "riunificazione della terra russa", ovvero che guida la Russia nella battaglia decisiva dell'"Armageddon ucraino", in seguito al quale dovrebbe sorgere un nuovo ordine mondiale multipolare, e perciò "giusto" [...] con Putin siamo di fronte a una forma paranoica di causalità, ovvero a una monocasualità che esclude il caso e la contingenza dalla geopolitica. Il presidente russo postula per tutti gli eventi geopolitici degli ultimi trent'anni un errore cardinale dalle devastanti conseguenze globali, compreso anche il conflitto con l'Ucraina. Questa causa originaria per lui è l'egemonia americana, l'ordine geopolitico unipolare che si è affermato dopo la fine della Guerra Fredda» (ibidem).

[3] M. Greco, M. Mecco (a cura), Oltre l’ideologia. Una conversazione su Lenin con Guido Carpi, «Andergraund Rivista», 29.03.2024.

[4]Canale Telegram War Room – Russia, Ucraina, NATO, di F. Dall'Aglio (3 gennaio 2025).

[5]Vedi al riguardo le interessanti considerazioni di F. Pietrobelli e F. Dall'Aglio sul canale YouTube di Gazzetta Filosofica.

[6] Qui. Vedi il canale Telegram Russia e altre sciocchezze, di G. Savino (24 febbraio 2025).


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Guido Carpi insegna Letteratura russa all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale ed è autore di diversi saggi tra cui Lenin. La formazione di un rivoluzionario (1870-1904) (Stilo editrice, 2020), Lenin. Verso la rivoluzione d'Ottobre (1905-1917) (Stilo editrice, 2021), Storia della letteratura russa (Carocci, 2020), Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) (Carocci, 2023).

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