Una riflessione dall’esperienza polacca
Questo testo è tratto dal volume collettaneo Jowita resta. Storia di dieci giorni di movimento studentesco (Heterodox, 2024). Jowita è uno studentato dell’università di Poznan che, studenti e studentesse di diversi collettivi e organizzazioni – tra cui spicca il sindacato di base Iniziativa Operaia (Inicjatywa Pracownicza) – hanno con successo difeso dal tentativo della governance universitaria di privatizzarlo, attraverso dieci giorni di occupazione (dicembre 2023). L’articolo qui proposto riporta, elabora e discute un’iniziativa assembleare tenuta nel contesto dell’occupazione. Aleksandra Taran (classe 2002) e Gabriela Wilczyńska (classe 2001) offrono un punto di vista lucido e combattivo sul ruolo delle donne nei movimenti sociali, offrendo spunti di riflessioni validi ben oltre il contesto polacco. Due posizioni sono, implicitamente, rifiutate: il separatismo e il vittimismo. Oltre queste alternative, le autrici riflettono sul ruolo delle donne nei movimenti: lungi dal negare la riproduzione delle violenze sessuali in questi contesti, sono interessate ad aggredire il piano della pratica politica. Come si rompe la riproduzione di queste gerarchie nelle lotte?
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Abbiamo iniziato il nostro terzo giorno trascorso nell’occupazione dello studentato Jowita con discussione dal titolo «Come rafforzare le voci delle donne nel nostro movimento?». In questo testo vorremmo condividere le nostre conclusioni, le osservazioni e i metodi che riteniamo necessari adottare e discutere.
Perché ne parliamo?
È noto come i circoli militanti riconoscano e individuino i problemi derivanti dal patriarcato e, per gli stessi motivi, è diffusa la convinzione che ne siano liberi. La nostra esperienza e quella di molte altre donne attiviste - non solo nel nostro sindacato, ma anche in altre strutture della sinistra – contraddice questo punto. Viene detto che solo poche donne ricevono trattamenti inferiori basati sul sesso (o almeno questo è ciò che dovremmo credere). Per questo motivo, durante l'occupazione di Jowita abbiamo deciso di organizzare una discussione incentrata su questo tema. Il nostro obiettivo era quello di affrontare e discutere collettivamente i problemi affrontati dalle donne nei movimenti sociali, per comprendere se e come possiamo cambiare le cose.
Abbiamo iniziato presentando i presupposti banali di questa discussione. O, meglio, sembrano banali, ma sappiamo che, per quanto, cruciali e vengano spesso trascurati nelle pratiche di organizzazione quotidiana.
«Le donne pensano. Le donne sono coinvolte in questioni di cui vedono il significato e l'importanza. Le donne vogliono avere un impatto sui temi che le riguardano. Le donne amano i cambiamenti e le attività che lo possono influenzare. Le donne sono disposte a prendere decisioni che riguardano loro stesse e gli altri e ad assumersene la responsabilità. Le donne vogliono imparare e lo fanno anche attraverso pratiche di (co)azione e (co)esperienza. Le donne sono capaci di agire e di parlare» [1].
La semplicità di queste affermazioni presenta in modo appropriato la portata del problema che dobbiamo affrontare. Abbiamo, quindi, discusso come la posizione delle donne nella società venga riprodotta anche negli spazi anti-sistemici. Siamo partite dal presupposto che siamo socializzati alla riproduzione degli schemi sessisti e, di conseguenza, l'intera realtà che ci circonda funziona secondo un paradigma misogino. In queste condizioni, la pretesa che autodichiararsi femministi ci garantisca la libertà dalla violenza sessuale è illogica. Inoltre, abbiamo sostenuto che, così come mettiamo in discussione le relazioni di potere prodotte dall'accumulazione di capitale, dovremmo continuamente mettere in discussione le relazioni di potere derivanti dalle dinamiche di genere.
Tra i problemi che affrontiamo quotidianamente hanno avuto particolare risonanza:
minare le competenze;
silenziare;
oggettivazione e sessualizzazione;
violenza basata sul sesso, compresa la violenza sessuale;
ignorare la violenza di genere in nome del bene del movimento;
due pesi e due misure, anche nella valutazione dell'attività politica;
isolamento e autoisolamento delle attiviste;
cultura organizzativa e comunicativa «maschile».
Leader senza nome
Provenendo da una famiglia working-class e avendo trascorso anni in ambienti politici, non è difficile notare uno schema. Si parla di «donne militanti», «donne feroci», «donne in prima linea», ma queste donne hanno raramente un nome. Servono come lavoratrici coraggiose e valorose, persone del territorio, povere donne, ma non si sono guadagnate il diritto di essere citate per nome. Molto probabilmente non vengono nemmeno ricordate: dobbiamo occuparci di Mariusz, Krzysztof, Krystian, Dariusz, dei militanti. Siamo consapevoli che ci sono delle eccezioni – lo sappiamo fin troppo bene, perché servono sempre a dimostrare non solo il contrario, ma anche come il problema non esista. Ma il nostro personale rispetto e apprezzamento per determinate persone non muta la realtà materiale che i leader abbiano nomi maschili. A volte ci sentiamo dire dalle nostre compagne che stiamo sbagliando, perché, dopo tutto, il nucleo della nostra organizzazione è costituito da donne. Donne che svolgono un lavoro invisibile e che testimoniano che il problema non esiste. Per noi, tuttavia, questa è solo la prova lampante che il problema non solo esiste, ma di come si diffonda a macchia d’olio.
Il dominio maschile, quello anticapitalista
La cosa più preziosa per noi sono state le voci delle donne presenti nella sala. Vorremmo che ogni lettore le prendesse a cuore e con la dovuta serietà, senza dare per scontato che le sue compagne siano semplicemente ipersensibili, più deboli, disadattate. Iniziare la conversazione è stato difficile: come previsto, le partecipanti erano riluttanti a parlare e a rispondere alle domande. La situazione è cambiata solo quando si ci siamo avvicinate di persona ad alcune donne con il microfono: occupare lo spazio è diventato meno spaventoso. Ogni affermazione ne ha provocata un'altra: in questo modo abbiamo iniziato a condividere le nostre esperienze e i nostri dolori come gruppo. È proprio per questo che la presenza delle donne nel movimento è così importante. Non esiste nel vuoto, riguarda il movimento e le nostre compagne. È accompagnata da una responsabilità ingiusta: quando tu, donna, parli – noi, donne, parliamo. Ma, quando un uomo parla, lo fa da solo, da uomo indipendente. Non ci ha sorpreso che gli uomini presenti fossero più propensi ad alzare la mano. La maggior parte degli interventi si è rivelata positiva (ai partecipanti stessi sono state poste domande per condurli a riflettere su alcuni meccanismi collettivi), anche se ci sono state eccezioni significative. Una di queste è stata l'osservazione di un compagno riferita alle nostre discussioni sul tono e sul timbro di voce (quelli più acuti vengono rapidamente screditati e silenziati). Il partecipante, sorridendo, ha osservato che la soluzione è tutto sommato semplice: dovete semplicemente iniziare a prendere il testosterone! La sua affermazione, sebbene sia stata accolta con una indignazione diffusa da parte dei presenti, illustra bene l'atteggiamento dei compagni nei confronti dei nostri problemi materiali. Possono essere banalizzati, trasformati in battute e aneddoti. Le stesse ragioni conducono agli scherzi e alle battute a sfondo sessuale: non è in essi che risiede il problema, ma nella mancanza di distanza e di serietà da parte dei compagni troppo seri e rigidi. Se siete fortunate, le vostre lotte non saranno ridicolizzate. Al contrario, diventeranno un simbolo, una storia strappalacrime, una voce gira tra tutti quelli che ti circondano: una storia pubblica. Ciò è successo, tra l'altro, quando un compagno curioso ha cercato di scoprire se tra le donne affiliate alla nostra organizzazione ce ne fossero alcune che avevano avuto esperienza dell’aborto. Non dimenticate che la vostra esistenza è un aneddoto che deve compiacere il pubblico.
Cosa insegniamo alle attiviste?
La vostra esperienza non è mai abbastanza - dopotutto, sei una giovane donna. La normalità sessista dei circoli anarchici e dei gruppi radicali è stata attaccata ripetutamente in sala. A prescindere dalla tua competenza e dal tuo lavoro di tutti i giorni, le tue osservazioni e le tue parole avranno meno peso di quelle di un uomo, sia questo più grande o più piccolo.
Se siete convinte di avere ragione e siete in grado di difenderla, siete assetate di potere. Naturalmente, i leader maschi, sicuri e competenti, sono semplicemente dei leader carismatici, voi, invece, siete vincolate ad altri criteri. Attenzione al tono: qualsiasi cosa diciate può essere usata per ritenervi maleducate.
Se notate un problema verso il nostro posizionamento e, in generale, verso il trattamento delle donne da parte dei compagni ideologici attaccatelo. Vi sembrerà che manchiate di discernimento nei confronti movimento (vedi punto 1), che stiate facendo gossip e, soprattutto, che commettiate il più grande crimine che una donna possa permettersi: alzare uno scandalo. Ingoia il tuo senso di ingiustizia, distogli lo sguardo dalle tue compagne che sbagliano, piega il collo e non raddrizzarlo più. Siate leali.
Prima di tutto, sei un corpo e un oggetto sessuale: non te lo faremo dimenticare. Se non vi ritrovate nell'archetipo della femminuccia sessualmente promiscua, vi aspetta un'altra etichetta, non preoccupatevi. Diventerete una madonna, una puritana le cui convinzioni e i cui complessi conservatori impediscono agli altri di divertirsi, provare piacere e liberarsi sessualmente.
Sei un ornamento. Non è che il movimento non abbia bisogno di te: è proprio il contrario, nessuno lo nasconde. Il movimento non può fare a meno di donne coraggiose e dedicate, delle martiri del capitalismo. Si sottolineerà ripetutamente che «ci sono donne in prima linea in molte lotte sociali», cosa che dopo un po' smetterà di impressionarvi, comincerete a trattare queste dichiarazioni con distacco e la narrazione complessiva vi porterà alla dissonanza cognitiva.
Lavoro invisibile
Nelle strutture organizzative le donne svolgono un lavoro che viene trascurato e dato per scontato. Si occupano di molti processi che sembrano avvenire da soli: burocrazia, documentazione, garanzia del flusso di informazioni. Senza di essi, i gruppi politici non esisterebbero. Dal punto di vista politico, la discutibile competenza dei militanti maschi in questo ambito è sorprendente. Il foglio pronto da firmare apparirà spontaneamente sotto il loro naso, mentre sono impegnati ad essere militanti geniali.
Nei confronti delle donne i compagni hanno un approccio del tipo «lasciamole partecipare e coinvolgiamole». La realtà dimostra che questo wishful thinking impedisce alle donne di inserirsi nella vita dell'organizzazione. I militanti alzano le mani: dopo tutto, le hanno provate tutte per coinvolgere le compagne. In questa zona d’ombra intervengono le donne che, riconoscendo tutte queste sfumature, tentano di contrastare l'isolamento dei membri femminili – ma non sempre con successo. Aderire ad un'organizzazione implica accettare alcune linee di fondo implicite per i membri anziani: ma tutto ciò conduce ad impedire l'effettivo sviluppo del gruppo.
Alcune osservazioni e la nostra esperienza
I gruppi e gli ambienti che creiamo riflettono la società in cui viviamo. Non siamo d'accordo con la narrativa che ritiene che la lotta contro i padroni porti le disuguaglianze sessuali a scomparire necessariamente. Non crediamo nemmeno che dovremmo evitare argomenti difficili (come lo sfruttamento sessuale che va a braccetto con il potere del capitale) e sfuggire dalle sfumature per non inimicarci il movimento. Lasciarsi alle spalle le donne non è un passo strategico, ma uno schema sgradevole.
Nel movimento sguazzano gli uomini narcisisti come pesci in un acquario. Non sei vincolata da alcuna regola di coesistenza, perché seguirla finirebbe col danneggiare il movimento. Non hai bisogno di un briciolo di umiltà, perché non commetti errori. Non preoccuparti se le tue azioni influiscono negativamente sul gruppo: dopo tutto, basta usare una manciata di parole d'ordine per evitarlo. Tu sei insostituibile, loro non lo sono.
Il processo di dimissione delle donne nel movimento è qualcosa di affascinante, da osservare silenziosamente. È uno spettacolo propagandistico in cui il pubblico applaude al dittatore che cammina sui corpi morti, perché il copione è ben scritto. Nel corso dei decenni abbiamo attraversato un numero non indifferente di movimenti sociali. Rimaniamo nell'anonimato, ci esauriamo e scompariamo dopo aver subito violenze o essere state ostracizzate, oppure entriamo nelle grazie dell'antisistema e lo difendiamo a oltranza - perché a cosa sarebbe servito tutto questo se dovessimo ammettere a noi stesse, anni dopo, di non aver creato l'utopia?
Ci è capitato di assistere a picchetti, dove veniva gridato «è arrivato il nostro salvatore», quando un uomo carismatico arrivava in ritardo. In più di un'occasione abbiamo telefonato ai compagni più grandi prima delle riunioni per chiedere loro di presentare la nostra idea, perché se lo avessimo fatto da sole avrebbe perso importanza agli occhi degli altri. In più di un'occasione abbiamo spiegato ai compagni che se non siamo d’accordo con loro non significa che li odiamo. Sembra che l’ambiente si rivolti contro le malelingue che subiscono e portano all’attenzione le violenze sessuali. Spesso vediamo le nostre compagne sminuire le testimonianze delle donne che le circondano, perché si sentono più sicure. Abbiamo creato il nostro patriarcato rosso e nero.
Quello che non va non siamo noi
Il solo fatto di notare e prestare attenzione alle differenze di genere innesca una buona dose di problemi. Rappresentarsi in un ruolo di sottomissione non è giusto e preferiamo non farlo. Tuttavia, se lo stato delle cose è sufficientemente accogliente, incontriamo un altro muro imposto dai compagni, in particolare, dai bravi compagni. Diventa presto evidente come questo si tratti di un ossimoro. Quando accettiamo come dato di fatto l'affermazione, per alcuni controversa, che gli uomini vengano cresciuti in modo misogino, diversi elementi cominciano a formare un insieme coerente. Coloro che hanno rifiutato i percorsi imposti dalla cultura dominanti ne fanno, allora, un vanto. Si credono illuminati e qualsiasi commento contro di loro viene immediatamente bollato come assurdo. Dopo tutto, quel compagno sostiene il diritto all'aborto e ritiene che gli stipendi degli asili nido siano troppo bassi, di cosa pensate di parlare? Non avete visto quella foto in cui è circondato dalle compagne?
Sradicare le convinzioni misogine è un qualcosa che riguarda noi stesse, le militanti. Richiede umiltà e apertura alle esperienze delle altre donne. Inoltre, è essenziale mettere in secondo piano i propri interessi e uscire dalla propria zona di comfort. A volte, è il vostro amico a comportarsi in modo abusivo: non è impossibile che commetta una qualche violenza. La vittima dei comportamenti che abbiamo delineato nel testo può essere una compagna con la quale si è in disaccordo. In queste situazioni, le attiviste si trovano di fronte a un conflitto morale: gli ideali che portano sulle labbra sono abbastanza importanti per agire?
Le idee in conflitto con la realtà
Per le donne, organizzarsi nei sindacati, implica un ampio numero di conversazioni con uomini sessisti. A volte non vi lasciano parlare, sentite battute con sfumature sessuali nei vostri confronti o scherzi che si riferiscono al vostro sesso. Di fronte a tutto questo, molte domande si affollano nella nostra testa: che fare? Dovete ignorare questo trattamento oggettificante? Dovete reagire? E se reagire compromettesse la situazione? Come si concilia questo trattamento avvilente e la lotta per un salario dignitoso? Reagire significa essere colpevoli o tradire la classe? Il solo fatto di sottolineare queste cose in un contesto anticapitalista rende questionabili le nostre intenzioni e i nostri valori. I problemi che le militanti affrontano quotidianamente sono trattati come leggende metropolitane. È meglio non parlarne ad alta voce, dopo tutto, tutti sappiamo che accadono, ma non vogliamo disturbare le sacre icone.
Chiunque può parlare
Nel corso della discussione, le assurdità del movimento sono state ripetutamente avanzate come spiegazione al fatto che le donne non partecipano attivamente ai processi politici. Una di queste è il famoso tema della gerarchia e dell’orizzontalità. In un'organizzazione democratica, ogni voto ha lo stesso peso, e parlare rimane una questione di volontà. È semplice: quando le donne non si esprimono, è a causa della loro riluttanza. Si scopre che, stranamente, di solito non hanno nulla da dire. Lo stesso vale per il processo decisionale e per l'iniziativa. Se le donne non si impegnano, il motivo è la mancanza di ambizione, o il disinteresse e l'indifferenza. Adottando questo punto di vista, non si arriva al nocciolo della questione. Perché le donne non partecipano ai processi politici, nonostante formalmente nulla le limiti? Dichiarare l’assenza di gerarchia pone molte sfide e non porta necessariamente ad eliminare le dinamiche di potere. Sono gli uomini a gridare senza inibizioni durante le riunioni, nonostante ciò che dicano non apporti alcun contributo. L'opportunità di parlare liberamente diventa solo apparenza in un tale contesto. Le donne alzano la mano e aspettano pazientemente il loro turno e, spesso, potrebbero anche non ottenerlo. Dalle osservazioni delle donne che partecipavano all'occupazione, sembra che gli uomini parlino in modo audace e disinibito su qualsiasi argomento (anche se privi di competenze). Nel frattempo, le donne, a volte anche esperte in quel campo, penseranno dieci volte alla scelta del vocabolario e al tono da dare al discorso.
Su «è una specie di, non sono sicura, mi sembra», tenendo lo sguardo basso
Ascoltando i modi in cui organizziamo inostri discorsi, si può giungere ad una conclusione generale: stiamo scavando buche sotto di noi. Durante l'occupazione, lo slogan «non ti serve un capo per fare qualcosa» è servito per mostrare come avere iniziativa sia una cosa naturale (ad esempio: pulire il bagno non è qualcosa che deve essere votato in una riunione o organizzato burocraticamente - basta farlo e non aspettare l'approvazione). A questo aggiungiamo un pensiero banale, ma molto difficile da praticare nelle vite delle donne, ovvero: «non devi scusarti per aver parlato». La nostra cultura della parola differisce drasticamente da quella degli uomini. Tendiamo a sottolineare costantemente che pensiamo di dire qualcosa, che pensiamo di farlo, per così dire. Nello spazio online la questione si fa ancora più interessante, con ogni sorta di emoticons per rasserenare il messaggio e acronimi come idk tho [non saprei, comunque] o altri inglesismi, che sottolineano come semplici frasi assertive non rientrino nella cultura delle donne. È anche pericoloso fare una semplice domanda, perché cadiamo nella convinzione di sembrare offensive, per cui: 1) attenuiamo radicalmente il tono delle domande che poniamo; 2) reagiamo in modo difensivo quando la domanda è rivolta nella nostra direzione. Anche nello spazio delle riunioni, anche se le donne sono la maggioranza dei presenti, parliamo di meno. Un motivo è il costante senso di incompetenza e la paura di parlare in gruppo che ci accompagna, e l'altro è la convinzione maschile che il mondo sia il loro palcoscenico, che gli consente di ripetere l'ovvio e di avere botta e riposta tra tre maschi in una riunione di cinquanta persone. Non importa che ci sia una palese maggioranza femminile, se sole tre attiviste dicono la loro, nei modi giusti, come hanno sempre fatto. Parlate di più. Non lasciate i vostri commenti nella vostra testa o nelle chat dei social media: iniziate a parlare. Anche se, all’inizio, può intimorire. I vostri pensieri meritano di essere espressi ad alta voce.
E voi, compagni, dovete imparare a tacere. Non tutte le vostre parole valgono oro. L'organizzazione farà a meno di ripetere mille volte commenti che sono già stati ribaditi in modo forte e chiaro. Infine, la vostra voce non è la più importante: siate consapevoli che potrebbe fare fallire sul nascere la discussione giusta.
Note
[1] Strength, Courage, Solidarity. Empowerment as an effective strategy to counter violence against women and girls and other gender-based violence. A Handbook for Organizations and Institutions, Autonomia Foundation: Cracovia 2016.
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Aleksandra Taran è studentessa di Etnologia e Antropologia culturale presso l’Università di Varsavia. Milita nel sindacato il sindacato di base Iniziativa Operaia (Inicjatywa Pracownicza).
Gabriela Wilczyńska è sindacalista, studentessa e lavoratrice. Fa parte del comitato nazionale del sindacato di base Iniziativa Operaia (Inicjatywa Pracownicza). È nata nell’area industriale della Slesia e studia presso l’Università di Varsavia.
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