Estratto da L'uomo non è buono. Per la critica del progresso
In occasione dell'uscita di L'uomo non è buono. Per la critica del progresso, curato da Veronica Marchio e uscito per il nuovo marchio editoriale MachinaLibro - legato al lavoro della rivista e di DeriveApprodi -, pubblichiamo un estratto dal saggio di Damiano Palano che s'interroga sulla tradizione filosofica del realismo politico.
Il libro, ripercorrendo le fondamenta e i principali autori di quella che viene definita «antropologia negativa», formula un'importante ipotesi di ricerca teorico-politica: bisogna spezzare l'alternativa tra progresso e conservazione, tra fede nella bontà umana e inevitabilità dell'autodistruzione, usando anche il grande pensiero conservatore e reazionario piegandolo contro i propri fini.
Gli altri autori del libro sono Dario Gentili, Ubaldo Fadini, Maria Russo, Miguel Mellino, Franco Piperno, Marco Spagnuolo e Mario Tronti.
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In un famoso passaggio del Concetto del «politico», Carl Schmitt scrive che tutte le dottrine politiche potrebbero essere classificate in base alla loro antropologia e suddivise «a seconda che esse presuppongano, consapevolmente o inconsapevolmente, un uomo "cattivo per natura" o "buono per natura"» (Schmitt 1972, p. 143). Benché non sia facile rinvenire nei suoi testi una nitida esplicitazione dei presupposti antropologici della sua visione del ‘politico’, le simpatie di Schmitt vanno naturalmente alla prima di queste due prospettive, ossia a quella che propone l’immagine sinistra di un essere umano «cattivo per natura». Ai suoi occhi tutte le teorie che presuppongono l’uomo come «buono» finiscono infatti col prefigurare il superamento del «politico», e cioè la scomparsa di tutte quelle dinamiche (reali o solo potenziali) – il conflitto, la guerra, il disordine, la contrapposizione amico-nemico – che sono il presupposto del fenomeno politico per come lo conosciamo nella realtà. Pur percorrendo differenti traiettorie, secondo il giurista tedesco tutte queste dottrine ritengono cioè che gli esseri umani siano «naturalmente» pacifici e che solo alcune condizioni congiunturali – fattori istituzionali, norme culturali, dinamiche economiche – vadano a minare quella condizione «naturale» di ordine spontaneo cui si potrebbe invece tornare eliminando le cause storiche, sociali e culturali dei conflitti. Per Schmitt una simile visione è invece del tutto irrealistica, per il semplice motivo che, dal suo angolo visuale, il conflitto – e dunque il dato della strutturale lacerazione tra amico e nemico – non rappresenta un’eccezione, l’effetto di una specifica congiuntura, bensì un elemento strutturale e come tale ineliminabile, dell’esperienza umana (se non proprio della «natura» specifica dell’essere umano). «Poiché la sfera del "politico" è determinata, in ultima istanza, dalla possibilità reale di un nemico», scrive infatti, «le concezioni e le teorie politiche non possono facilmente avere come punto di partenza un "ottimismo" antropologico» (ivi, pp. 148-149). Viceversa, «tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l’uomo come "cattivo", […] cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi "pericoloso" e dinamico» (ivi, p. 146).
Evocando i principali esponenti della tradizione che raffigura «l’uomo come "cattivo"», Schmitt allestisce una galleria di pensatori tra loro piuttosto lontani, come innanzitutto Machiavelli e Hobbes, ma anche come Bossuet, Fichte, de Maistre, Donoso Cortés, Hippolyte Taine, oltre che (almeno per un lato della sua riflessione) persino Hegel: «con il loro pessimismo», tutti questi pensatori, almeno secondo Schmitt, presuppongono quantomeno la possibilità della «distinzione di amico e nemico» (ivi, p. 149). Con qualche rilevante eccezione, molti degli alfieri dell’antropologia pessimista – e non solo quelli cui si indirizzano le simpatie di Schmitt – furono politicamente dei conservatori, se non addirittura dei reazionari, che utilizzarono proprio l’idea secondo cui «l’uomo non è buono» come strumento per contrastare i progetti di trasformazione sociale dei rivoluzionari del loro tempo. Raffigurando l’essere umano come «cattivo», talvolta persino come un’indomabile belva feroce, e sostenendo che il «legno storto» della natura umana non può essere raddrizzato, puntarono infatti quasi invariabilmente a dimostrare che qualsiasi rivoluzione non avrebbe potuto rendere il mondo più pacifico o più giusto, né realizzare una reale uguaglianza. E non esitarono così a sostenere che, dietro le promesse di palingenesi sociali avocate dai rivoluzionari, continuava ad aleggiare l’ombra sinistra di una natura umana lacerata da un’inestinguibile sete di potere.
Anche per questo non è sorprendente che il rapporto fra la teoria radicale e l’antropologia negativa dei cultori del realismo politico sia stato a lungo – e continui a essere – quantomeno problematico. Benché lo stesso Marx abbia – come i realisti – una concezione conflittuale della storia, e nonostante riconosca nelle istituzioni politiche uno strumento di dominio di una minoranza su una maggioranza, le sue premesse antropologiche si distaccano nettamente tanto dall’idea che l’essere umano sia inevitabilmente «cattivo», quanto dalla medesima convinzione che una natura umana costante e immutabile esista. E nella manciata di pagine in cui si spinge a immaginare quell’«osteria dell’avvenire», per cui di solito si rifiuta dettare ricette, affiora così un’immagine dell’essere umano – pacifico e cooperativo – non troppo distante da quelle che Schmitt prende di mira, e certo molto lontana dalla sagoma sinistra dell’homo homini lupus.
Molte volte negli ultimi decenni Mario Tronti ci ha ricordato come sia spesso preferibile un «grande reazionario» a un «piccolo rivoluzionario», ma ci ha anche invitato a ritrovare in Schmitt, e nelle sue tesi radicali, le provocazioni che un pensiero radicale non dovrebbe aggirare. In una simile prospettiva, la sua esplorazione della fisionomia multiforme del ‘politico’ lo ha spesso condotto a confrontarsi proprio con alcuni dei classici esponenti del realismo politico, nella convinzione che dentro le loro riflessioni – e nell’antropologia negativa che rappresenta il loro presupposto condiviso – si nasconda anche un’arma potenzialmente formidabile per la critica del presente. È in questa stessa ottica che possiamo puntare il nostro sguardo sull’elemento di fondo del realismo politico, e cioè su quell’antropologia pessimista che raffigura l’essere umano come «cattivo per natura», con l’obiettivo di coglierne alcune sfumature frequentemente disconosciute, per metterne in luce alcune varianti, oltre che per chiederci quale possa essere l’utilità oggi di una simile visione degli esseri umani e dei loro rapporti.
La «verità effettuale della cosa»
Non è difficile riconoscere in Machiavelli e in Hobbes i due pilastri dell’antropologia pessimista della modernità. Nella Firenze dell’inizio del Cinquecento e nell’Inghilterra attraversata dalla guerra civile, questi due pensatori ci ripetono nelle loro pagine che l’essere umano è una creatura diffidente, insoddisfatta, costantemente alla ricerca di potere. Ma ci dicono anche che non è possibile comprendere la politica – e, in generale, le dinamiche sociali – se non si prende atto proprio di questa specifica natura degli esseri umani. Nel Principe possiamo così ritrovare qualcosa di simile alla dichiarazione fondativa del realismo politico moderno: «mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa», a differenza di quei pensatori politici che «si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero» e che non hanno dimenticato che «egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere» (Machiavelli 2013). Quando Machiavelli sottolinea l’importanza di riconoscere la «verità effettuale della cosa», o la differenza tra «come si vive» e come «dovrebbe vivere», intende in gran parte riferirsi proprio alla realtà degli esseri umani e alle conseguenze che ne scaturiscono dal punto di vista politico. Ed è in fondo per questo che l’antropologia pessimista costituisce il presupposto forte (forse anche irrinunciabile) del realismo politico.
Il realismo politico – è opportuno sottolinearlo – non è comunque una dottrina coerente: si tratta piuttosto di un modo di guardare alla politica che si fonda (o che pretende di essere fondato) proprio su una visione realistica degli esseri umani, su una conoscenza dei caratteri immutabili della «natura umana», sulle «regolarità» che ne conseguono. Il realismo non è dunque – o quantomeno non è necessariamente – una «prasseologia», nel senso che non è detto che un cultore del realismo politico punti a fornire (a chi detiene il potere o a chi aspira a conquistarlo) indicazioni relative al «che fare», sebbene molti realisti – tra cui lo stesso Machiavelli – lo abbiano fatto o tentino di farlo. Il realismo politico in senso stretto va dunque principalmente compreso come un programma conoscitivo volto a decifrare le logiche della politica, mentre solo secondariamente – ma non è questo il suo elemento distintivo – può porsi l’obiettivo di incidere sulla realtà, prescrivendo linee di azione o invitando a evitarne altre.
Il realismo politico
In termini molto schematici, l’eterogenea tradizione del realismo politico è contrassegnata innanzitutto proprio dall’idea che esista una natura umana sostanzialmente invariante nel tempo e nello spazio: la convinzione, cioè, che gli esseri umani – in ogni momento storico e in ogni luogo – agiscano sempre seguendo alcune logiche immutabili, che l’educazione, i costumi culturali o le istituzioni non possono sostanzialmente modificare. Oltre a rappresentare un elemento invariante, la «natura» degli esseri umani è inoltre dipinta dai realisti con toni piuttosto pessimistici, anche se non necessariamente l’uomo viene raffigurato come "cattivo": piuttosto, la natura umana viene concepita come «ancipite, fatta di passioni e ragione», e in virtù proprio di questa ineliminabile componente di passioni l’essere umano è un «animale desiderante», nel senso che «il desiderio agisce come fattore di destabilizzazione di quegli equilibri faticosamente costruiti dal calcolo razionale» (Portinaro 2014, p. 19).
Se in Machiavelli e Hobbes troviamo forse le più nitide e celebri raffigurazioni di questa natura umana, l’antropologia negativa non è un’invenzione della modernità. Il racconto biblico del «peccato originale» è innanzitutto una delle immagini più suggestive della natura conflittuale dell’essere umano, perché, scacciati dall’Eden, Adamo ed Eva, diventano consapevoli della loro imperfezione e dell’impossibilità di controllare interamente il corpo e la psiche. L’esperienza umana – come avrebbe sottolineato Sant’Agostino (che, con un profilo specifico, può essere annoverato tra i realisti politici) – appare così lacerata da un dissidio insolubile tra un corpo spirituale e un corpo animale, e ogni individuo è divorato da un’inestinguibile libido dominandi. A incidere in mondo profondo sulla visione che i realisti hanno della natura umana è però probabilmente Tucidide, che a buon diritto può essere considerato come uno dei pilastri di questa tradizione teorica.
Lo storico ateniese condivide infatti la visione della natura umana e dei rapporti fra natura e politica che hanno elaborato alcuni sofisti nel V secolo a.C., secondo i quali esiste una sorta di legge di natura, in virtù della quale ogni essere umano punta sempre ad aumentare la propria potenza. In particolare, tale spinta secondo Tucidide assume tre volti: la ricerca dell’onore, il timore per la propria incolumità, lo sforzo di massimizzare il proprio utile (e dunque di accrescere le proprie ricchezze). Gli obiettivi dell’onore, della sicurezza e dell’utilità per Tucidide non accomunano inoltre solo i singoli individui, perché rappresentano gli obiettivi prioritari anche delle comunità politiche, le quali possono essere raffigurate in chiave antropomorfica «come se» fossero dei «grandi uomini», e cioè dei soggetti che perseguono le medesime finalità ricercate dai singoli individui. In uno dei celebri discorsi della Guerra del Peloponneso, gli Ateniesi si rivolgono infatti agli Spartani chiarendo loro che, nei decenni che hanno preceduto lo scoppio delle ostilità, sono stati costretti a estendere il loro dominio sulle città greche «per timore, poi per essere onorati e infine per utilità» (Tucidide 1985, p. 179, I. 75). Questi imperativi non sono intesi come il frutto di condizionamenti storici, culturali o religiosi, né come il risultato di una sorta di anomalia psicologica, che induce alcuni individui (e alcuni gruppi di individui) a perseguire obiettivi che ad altri non interessano. Secondo lo storico ateniese, l’onore, la sicurezza e l’utilità sono infatti gli obiettivi che, per la loro stessa «natura», tutti gli esseri umani e tutte le comunità politiche perseguono.
All’antropologia negativa della natura umana si lega anche un ulteriore elemento: l’idea che la politica sia il regno della forza. In termini generali, secondo i realisti, l’ordine, le istituzioni e le leggi non sono infatti né la conseguenza dell’attitudine cooperativa degli esseri umani, né il frutto di principi etici condivisi, bensì il risultato dell’esercizio della forza di alcuni su altri. Ciò non significa che i realisti (o, quantomeno, tutti i realisti) celebrino incondizionatamente l’esercizio della forza o la violenza degli umani sui loro simili. Piuttosto, tendono a pensare che questa sia la realtà della politica e che sia fuorviante ritenere che l’esercizio della forza, come strumento per conservare un determinato ordine o per cercare di imporne uno differente, sia un’eccezione patologica rispetto a una normalità virtuosa, nella quale la forza risulta bandita dalle relazioni sociali.
In maniera brutale, sono le parole di Trasimaco nella Repubblica di Platone a esporre la visione realista della giustizia: secondo Trasimaco, infatti, la «giustizia» non ha nulla a che vedere con criteri morali, ma è semplicemente «l’utile del più forte» (Platone 1994, p. 42, I, 338c). Per Tucidide, il diritto del più forte è invece una sorta di legge naturale che le norme convenzionali, stabilite dagli umani, non possono sostanzialmente modificare. Gli Ateniesi, sempre rivolgendosi agli Spartani, dichiarano infatti che, quando hanno accettato la guida di una vasta alleanza di poleis, non si sono comportati in modo differente da chiunque altro: «è sempre valso l’uso che il più debole sia tenuto a freno dal più forte» (Tucidide, p. 179, I. 76). Nel famoso discorso pronunciato dinanzi ai cittadini di Melo (che oppongono le ragioni morali della giustizia a quelli della forza), gli ambasciatori ateniesi ripropongono la visione secondo cui in politica decide la forza, mentre i principi etici hanno un ruolo secondario: «chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (ivi, p. 937, V. 90). Questa «regolarità» per gli ambasciatori di Atene è una legge di natura valida per l’eternità, una legge di cui gli esseri umani possono servirsi, ma che non possono in alcun modo modificare: «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente» (ivi, p. 945, V. 105).
Ciò non significa che per i realisti altre componenti – come in particolare le considerazioni etiche sulla giustizia – siano irrilevanti, ma comporta piuttosto che esse siano poste in secondo piano. In altre parole, chi si trova in una posizione di supremazia esercita il «diritto del più forte», mentre chi si trova in una condizione di debolezza, e non può dunque imporsi con la forza ai propri simili o ai propri vicini, finisce con l’appellarsi a principi superiori di giustizia. Conseguentemente, si ritiene anche che gli esseri umani rispettino le leggi e i principi morali solo nel caso in cui siano costretti con la forza, perché, dal momento che ognuno di essi tende principalmente a perseguire il proprio utile, violerebbe dunque anche le leggi, qualora avesse la certezza di non essere scoperto o punito. Ad ogni modo, sulla base di tali premesse, i rapporti umani non possono che essere sempre lacerati da una latente conflittualità, che deriva dal fatto che ciascuno punta prima di tutto a soddisfare i propri bisogni e i propri interessi, anche nel caso in cui ciò possa danneggiare gli altri. Solo la forza può così risolvere – sebbene in modo temporaneo – la situazione di conflitto, nel senso che «il più forte», grazie alla minaccia della violenza, può imporre un ordine, dichiarando «giusto» il proprio dominio e «ingiusto» (dunque criminale) chiunque punti a insidiarlo.
Dalle premesse che abbiamo individuato – l’idea che la natura umana sia una invariante; la convinzione che l’essere umano sia un animale desiderante, condannato a tormentarsi alla ricerca di sicurezza, onore, e ricchezza; la raffigurazione della politica come regno della forza, nel quale le regole di convivenza derivano la loro efficacia dalla forza coercitiva che le sostiene – deriva anche un’ulteriore conseguenza, che per i realisti è spesso cruciale. Proprio perché l’uomo è «per natura» un animale desiderante, destinato a entrare in conflitto con i propri simili, diventa allora possibile guardare alle cose umane con l’obiettivo di ricercare delle ricorrenti connessioni causali, delle grandi «regolarità», se non addirittura delle «leggi», le quali – se correttamente individuate – dovrebbero consentire di formulare previsioni su possibili eventi futuri (per esempio, sullo scoppio delle guerre, sulla crisi di un regime, ecc.). Ed è anche per questo motivo che, a farsi alfieri del progetto di una «scienza» dei fenomeni politici, sono per lungo tempo proprio i cultori del realismo politico.
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Che fare del realismo?
Dopo aver tracciato un ritratto sommario dell’antropologia negativa del realismo politico, e dopo aver riconosciuto alcune delle lacerazioni che lo attraversano, è quasi inevitabile chiedersi quale sia l’utilità da riconoscere a questa tradizione teorica, specialmente nella prospettiva di una teoria che non voglia rinunciare a una critica del presente.
Innanzitutto, è quasi scontato osservare che, a cinquecento anni dalla stesura del Principe, l’appello alla «verità effettuale della cosa» riesce a conservare intatta la propria portata critica dinanzi alle obiezioni che ciclicamente gli vengono indirizzate, proprio perché si poggia sulla convinzione che l’essere umano sia contrassegnano da alcune componenti che lo rendono «naturalmente» rivolto alla ricerca del potere, alla diffidenza, al conflitto. Dinanzi al più consolidato degli attacchi, che rimprovera al realismo l’implicita liquidazione di ogni morale o la riduzione dell’etica a puro strumento di legittimazione dello status quo, è per esempio piuttosto agevole replicare rimarcando l’autonomia e la specificità della politica, le quali non negano un ruolo alla dimensione etica, ma impongono piuttosto di distinguere fra il piano della morale individuale e quello della morale politica. Ed è in fondo piuttosto facile replicare anche all’obiezione che rimprovera al realismo un eccesso di pessimismo, ossia una concezione che dipinge l’essere umano come sempre guidato da un’inestinguibile sete di potere, da un animus dominandi che lo induce «necessariamente» a tentare di estendere la propria sfera di potere. Innanzitutto, molti realisti non condividono infatti una rappresentazione così monolitica della natura umana, e tendono piuttosto a sottolineare come l’essere umano sia «anche» animato da pulsioni che lo conducono alla lotta. Persino l’antropologia più ottimista non può sottovalutare il peso di quella disposizione soggettiva che scaturisce non tanto dal conflitto effettivo, quanto dall’ipotetica eventualità del conflitto, una percezione che induce alla diffidenza verso i propri simili. Ma la lezione forse più importante – specialmente agli occhi di una prospettiva critica nei confronti del presente – non riguarda tanto la sottovalutazione dell’etica da parte del realismo, quanto proprio la relazione tra etica e politica.
In questa direzione, può essere utile tornare alla declinazione del realismo fornita Edward H. Carr alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, in un testo che è considerato come la pietra di fondazione del realismo internazionalistico. Alla vigilia del Secondo conflitto mondiale, riflettendo sul fallimento delle grandi ambizioni con cui è nata la Società delle Nazioni, Carr svolge innanzitutto una severa requisitoria delle illusioni portate avanti dagli «idealisti» e mette in luce come, dietro il progetto di salvaguardare l’«armonia degli interessi» degli Stati, vi sia in realtà la volontà di Francia e Gran Bretagna di preservare lo status quo, ai danni della Germania. Animato da un simile intento polemico, Carr espone anche quelle che dovrebbero essere le basi di un’analisi scientifica della politica internazionale, e in questo senso esplicita i cardini di una prospettiva «realista» che si richiama direttamente a Machiavelli e che colloca in primo piano il potere e le relazioni di potere tra gli Stati. Mentre avvia la demarcazione tra il «realismo» e l’«idealismo» liberale, Edward H. Carr si richiama per esempio proprio alla lezione di Machiavelli, e in particolare al ruolo corrosivo che la critica realista può esercitare nei confronti della teoria liberale dell’armonia degli interessi. Agli occhi di Carr, i principi della visione realista scaturiscono innanzitutto da un pieno riconoscimento che «l’uomo è per natura un animale politico»: un animale che vive all’interno di gruppi politici e che talvolta «mostra egoismo, o la volontà di affermarsi a spese degli altri», mentre in altri casi «mostra socievolezza, o il desiderio di cooperare con gli altri e creare con loro rapporti di benevolenza e amicizia o persino subalternità» (Carr 2009, p. 135). Inoltre, le «pietre angolari» della filosofia realista che, secondo Carr, vengono poste da Machiavelli, sono principalmente tre. «In primo luogo», scrive, «la storia è un susseguirsi di cause ed effetti, il cui corso può essere analizzato e compreso dall’intelletto, ma non (come credevano gli utopisti) guidato dall‘immaginazione’». Inoltre, «la teoria non crea la realtà (come assumono gli utopisti), bensì la realtà ispira la teoria», e, infine, «la politica non è una funzione dell’etica (come pretendevano gli utopisti), ma l’etica lo è della politica» (ivi, p. 94). E quest’ultimo punto implica dunque che le dottrine relative alla morale sociale debbano sempre essere considerate come «il prodotto di un gruppo dominante, che si identifica con la comunità nel suo complesso e che possiede strumenti negati ai gruppi subordinati o agli individui per imporre la propria visione del mondo alla collettività» (ivi, p. 113).
La critica di Carr era volta definire una linea di demarcazione tra due modi di intendere la politica internazionale, ma, riletta oggi, la sua proposta può forse fornirci qualche indicazione sull’utilità che ancora riserva la critica realista. Se certo l’armamentario realista può essere brandito contro le ambizioni di chiunque punti a raddrizzare il «legno storto» dell’umanità, quello stesso armamentario può rivelarsi un formidabile strumento di critica delle rappresentazioni ideologiche dell’«armonia degli interessi». Anche quell’antropologia negativa, che ci raffigura l’essere umano come «cattivo per natura», può aiutarci cioè a riconoscere come, dietro il velo di una rappresentazione di ogni ordine spontaneo si nasconda sempre un pluriverso di parti in conflitto e come dunque la politica non possa mai scomparire del tutto nelle procedure di una società pacificata. «Senza voler fare historia de la eternidad», scriveva d’altronde Tronti più trent’anni fa, è infatti «veramente non pensabile la fine della politica», perché «sono la società divisa e la divisione del mondo, sono il conflitto e la guerra che producono la guerra», e «senza la politica degli uomini – cittadini o uomini di Stato – niente storia umana» (Tronti 1992, p. 11).
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Damiano Palano insegna Filosofia politica all'Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri: Partito (Il Mulino, 2013), La democrazia senza qualità. Le promesse non mantenute della teoria democratica (Mimesis, 2015), Il segreto del potere. Alla ricerca di un'ontologia del «politico» (Rubbettino, 2018), Animale politico. Introduzione allo studio dei fenomeni politici (Scholé, 2023). Ha recentemente curato il volume di Mario Tronti, Hobbes e Cromwell. Con un'appendice di scritti sul politico (Mimesis, 2023).
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