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Breve genealogia dell'urbanistica del decoro



In queste settimane, è arrivato l’inverno. Sono arrivati anche dibattiti e polemiche sulla «indecorosa» presenza in città di persone senza fissa dimora. Si è ripetuto il triste copione delle diffide firmate da gruppi di residenti (tra cui notabili e fautori della «Grande Bellezza» cinematografica) che intimano a Comuni, società di nettezza urbana e forze dell’ordine, di rimuovere i senza fissa dimora da portici e giardini, in nome del decoro [1].

Queste diffide sono palesemente intrise di quel perbenismo che, da un lato, sostiene di aiutare poveri e migranti maltrattati in mare o nei luoghi di confini sparsi per il mondo, e dall’altro cerca di rimuovere fisicamente quelli a pochi passi da sé. Tali richieste fomentano la criminalizzazione della solidarietà, e dell’attivismo politico, come forme di incentivo a comportamenti reputati «criminali» anziché dettati dalla necessità; hanno legittimato gli inviti di vigili, e assessori, a non fare l’elemosina, e a non portare le coperte, per non incoraggiare i senza tetto a restare sotto i portici.

Da Piazza Vittorio a Trastevere abbiamo quindi visto polizia locale e Ama gettare con solerzia nell’immondizia le coperte e i pochissimi averi di chi dormiva per strada, e che potevano garantire loro un minimo riparo dal freddo (visto che, è bene ricordarlo, dodici persone sono morte solo a Roma nell’ultimo mese abbandonate all’addiaccio). Infine, è notizia di pochi giorni fa che sempre la Municipale romana abbia provveduto a multare e a «daspare» dall’area di piazza Vittorio sei persone nel corso di controlli «volti al contrasto di ogni forma di degrado» [2]. Che differenza c’è da chi «invitava» le Ong nel Mediterraneo a non effettuare operazioni di soccorso per non «incitare l’immigrazione clandestina» facendo i «taxi del mare» (cit. Casalino)?


Si potrebbe liquidare la questione dicendo che «non temo la governamentalità in sé, ma la governamentalità in me», e risolverla sul piano della sussidiarietà e della garanzia dei diritti umani. Oppure, è quantomai urgente riconoscere come la logica dell’eccezionalismo, delle «emergenze» (freddo, così come di quella «abitativa») siano l’altra faccia della medaglia di quella urbanistica del decoro che è legata a doppio filo alla cultura della rendita e della proprietà immobiliare (Filandri, Olagnero e Semi, 2020). Quest’ultima trasforma la proprietà privata ad ogni costo (inclusi l’indebitamento insostenibile, e l’insolvenza, come sottolineato anche da Davoli nel contributo precedente in «Disurbanità» [3]) nella modalità abitativa, economica, e sociale di riferimento. In questo quadro, l’urbanistica diventa la disciplina che modella il tessuto urbano, e i paradigmi abitativi, per favorire e riprodurre tale egemonia (Marchini e Sotgia, 2017). Eppure, come evidenziato da Scandurra [4] citando Luigi Cosenza in Rinascita del 1944, i Piani Regolatori (e dunque l’urbanistica) dovrebbero essere «problemi di solidarietà umana, di coerente valutazione delle possibilità e degli ostacoli. Essi devono rappresentare la condanna delle ambizioni egoistiche, il ritorno nell’ora critica della solidarietà e della comprensione, la manifestazione di una volontà tesa verso scopi coerenti, costruttivi, creativi».


Al contrario, gli attuali dibattiti sugli usi dello spazio urbano vedono ormai come latitante il discorso, la prassi e perfino l’etica della città pubblica, laddove viene ossessivamente affermato il nesso tra proprietà immobiliare e decoro. In quest’ottica, la povertà, la mancanza di casa, e ancor peggio la riappropriazione di un tetto sopra la testa, divengono elementi destabilizzanti dell’ordine sociale dominante, e dunque, degrado da rimuovere per ripristinare «igiene» e «ordine» pubblici. Assumere una prospettiva genealogica sulla questione del degrado e del decoro consente dunque intrecciare le analisi, e le pratiche politiche, su fenomeni urbani apparentemente distanti, come la deprivazione abitativa, la gentrification e la touristificazione. Ci consente di territorializzare le riflessioni che Wacquant (2008) articola attorno al rapporto tra studi urbani, rigenerazione urbana e sostanziale colonizzazione dello spazio urbano designato per essere «riqualificato». Ci permette inoltre di cogliere il ragionamento di Carbone e Di Sandro (2018) in merito alla costruzione gentrificante dell’etnico desiderabile, che passa attraverso la vera e propria «sanificazione» dell’immaginario associato a determinati quartieri in folklore attrattivo per gentries più desiderabili e abbienti (Semi, 2015). In ultimo, ci permette di valutare fino a che punto la touristificazione passi non solo per la retorica del «social mix» (Rossi e Vanolo, 2010), ma per la vera e propria sostituzione dei residenti, e dei frequentatori abituali di quell’area, con nuove popolazioni, tanto meglio se temporanee (Gainsforth, 2019). Non casualmente, tale fenomeno è osservabile a occhio nudo proprio dentro Esquilino dove, da inizio pandemia, vi sono oltre 3700 alloggi vuoti precedentemente destinati per gli affitti brevi e gli usi turistici [5].


Laddove i soggetti «indecorosi» siano indisponibili, o impossibilitati, a spostare la propria presenza in un’altra area della città, ecco che intervengono l’invisibilizzazione per decreto, per Daspo, per multa e regolamenti di polizia municipale. Il peccato originale di questo approccio squisitamente securitario, amministrativo (e classista) alla povertà, tuttavia, non sono i Pacchetti Sicurezza di Minniti che hanno «inaugurato» i cosiddetti Daspo Urbani (atti amministrativi che consentono di allontanare soggetti indesiderabili anche da una specifica porzione dello spazio urbano come un porticato, un mercato, o per l’appunto i giardini di piazza Vittorio). Allo stesso modo, la penalizzazione anagrafica di rifugiati, richiedenti asilo e cittadini neocomunitari (specialmente se di etnia Rom) non è figlia dei cosiddetti Decreti Salvini. Il peccato originale, infatti, è rappresentato dal decreto-legge n. 47/214, cosiddetto «Piano Casa Renzi-Lupi». Anziché rimuovere le cause strutturali della crisi abitativa (ad esempio, utilizzando il patrimonio pubblico e privato vuoto per implementare nuovi alloggi popolari), il Piano Casa da un lato dispone nell’articolo 3 la massiccia dismissione di alloggi popolari per fare cassa. Dall’altro, nell’articolo 5 agisce la «Lotta contro l’Occupazione Abusiva di Immobili» privando chi è riconosciuto come «occupante per necessità» (inclusi bambini e bambine) del diritto alla residenza. Ciò implica l’impossibilità di accedere ai servizi di welfare locale, l’esclusione per cinque anni dall’iscrizione alle graduatorie per le case popolari, nonché l’esclusione da qualsiasi meccanismo di «sanatoria» [6]. Sul terreno dei servizi, la stessa norma impone agli enti gestori delle utenze (incluse quelle fondamentali, come l’acqua) di non accettare contratti di fornitura per alloggi occupati, oltre a concedere la facoltà di operare distacchi in qualunque momento. Inoltre, l’effetto combinato dell’articolo 5 e dei «Pacchetti Sicurezza» che si sono susseguiti negli ultimi anni influisce pesantemente sul rilascio dei titoli di soggiorno e dei titoli di cittadinanza legati allo ius domicilii, nonché sulla permanenza dei cittadini neocomunitari (in particolare se di etnia Rom). Come se non bastasse, durante la pandemia, lo stesso articolo 5 continua ad impedire a decine di migliaia di persone di avere un medico di base, nonché l’accesso anche a quei magri provvedimenti tampone predisposti per affrontare le conseguenze più immediate della crisi (come i buoni spesa).


Vale a questo punto la pena ricordare che tutto ciò avviene per vie esclusivamente amministrative, torcendo in dispositivo di cittadinanza differenziale uno strumento quale la residenza che, come evidenziato ancora da Gargiulo (2020, p. 13), dovrebbe rappresentare la mera ratifica dell’appartenenza territoriale al luogo dove una persona ha il centro dei propri interessi e vive abitualmente. Al contrario, l’articolo 5 cancella per decreto il legame territoriale di chi abita in uno spazio occupato sulla base della supposta indegnità dell’ambiente in cui vive, come evidenziato ancora da Gargiulo (2020, p. 131). Difficile, dunque, non vedere un filo rosso con le multe e il sequestro amministrativo delle navi delle Ong nel Mediterraneo, con i Daspo Urbano di minnitiana fattura, con le multe per mancato rispetto del «Restate a casa» comminate durante il lockdown ai senzatetto che non avevano un posto dove andare. In questa ottica, ricostruire una più comprensiva genealogia della urbanistica del decoro è necessario per sfuggire alla logica dell’eccezionalismo, dei diritti differenziali, della gestione contingente e mai strutturale della povertà nella sua intersezionalità. Questo approccio, infatti, rischia di deformare non sono le pratiche di governo in esercizi repressivi, ma anche di compromettere le azioni sussidiarie compiute in nome della solidarietà. In conclusione, una genealogia della ideologia del decoro, ad un anno dall’inizio della sindemia, è utile per chiedersi collettivamente se il mutualismo, e le proditorie pratiche solidali praticate nella contemporaneità, siano adeguati ad essere acceleratori di conflitto e decostruttori di questi regimi discorsivi, o se rischino piuttosto di ammortizzarne le inaccettabili responsabilità.



Note

[1] La prima, che questo punto di vista non sia rappresentativo dell’interezza del tessuto residenziale, sociale e anche intellettuali di questi luoghi (come, ad esempio, rappresentato dalla lettera aperta dei e delle residenti di Esquilino, e dal libro Esquilino/Esquilini. Un luogo plurale curato da Carbone e di Sandro per RomaTre Press, 2020).

[4] Scandurra, 2021, p. 17

[5] A tale proposito, nelle Mappe della Disuguaglianza di Lelo, Monni e Tomassi (2019) veniva evidenziato come, dentro Esquilino, il rapporto tra offerta di posti letto turistici (in particolare airbnb) e in affitto fosse 4:1 prima dell’inizio della pandemia.

[6] Tale discriminazione è visibile anche rispetto a provvedimenti recenti come la legge n. 1/2020 della Regione Lazio, successivamente implementata attraverso la DGR n. 429 del 7 luglio 2020. La nuova legge regionale ha istruito l’assegnazione in regolarizzazione (la cosiddetta sanatoria) di alloggi ERP abitati senza titolo, ma solo per quelli occupati anteriormente rispetto all’entrata in vigore dell’art. 5 del Piano Casa Renzi-Lupi, ossia il 23 maggio 2014.


Riferimenti bibliografici

Carbone V., Di Sandro M. (2018), (2018). “Esquilino. Per un etnico socialmente desiderabile”, in Osservatorio Romano sulle Migrazioni – XIII Rapporto, IDOS, pp.259-264.

Filandri, Olagnero, Semi (2020) Casa Dolce casa? Italia, Un Paese di Proprietari, Il Mulino, Bologna.

Gainsforth, S. (2019), Airbnb Città Merce. Storie di Resistenza alla Gentrificazione Digitale, DeriveApprodi, Roma.

Gargiulo, E. (2020), Appartenenze Precarie. La Residenza tra Inclusione ed Esclusione, Utet, Torino.

Rossi U., Vanolo A. (2010), Geografia Politica Urbana, Editori Laterza, Bari.

Scandurra E. (2021), “Serve un Progetto Urbano”, in Bevilacqua P. e Scandurra E. (a cura di), Roma: Un Progetto Per La Capitale, Castelvecchi, Roma, pp. 13-20.

Semi G. (2015), Gentrification. Tutte le Città come Disneyland?, il Mulino, Bologna.

Marchini R., Sotgia A. (2017), Roma, alla Conquista del West. Dalla Fornace al Mattone Finanziario, DeriveApprodi, Roma.

Wacquant, L. (2008), Urban Outcasts. A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Polity Press, Cambridge.



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