L’ultimo libro di Houria Boutldja, Beaufs et barbares. Le pari du nous (la fabrique 2023), segue di un anno l’uscita in Francia di Restare barbari di Louisa Yousfì, recentemente pubblicato per i nostri tipi. Due libri compagni, che condividono una critica senza sconto alla civiltà occidentale e l’obiettivo di ricollocare gli indigeni nella storia del mondo, di svelarne il rapporto con il potere. Bouteldja, però, si spinge oltre e rilancia. Sin dal titolo evoca la scommessa politica di un «noi» conflittuale anticapitalista, trasversale alle gerarchie della razza. Barbari e bifolchi, che sono le «parole del razzismo e del disprezzo di classe», indicano rispettivamente i proletari indigeni e i proletari bianchi che dimorano tra le rovine di un mondo sull’orlo del collasso e che costituiscono la più genuina opposizione a «coloro che distruggono la terra». Si tratta, tuttavia, di un «noi» tutto da costruire, «una chimera» probabilmente, ma senz’altro l’irrinunciabile spazio di possibilità per quei «pazzi», che come noi, si ostinano da tempo a immaginare lo spazio per il cambiamento dello stato di cose presente.
Ringraziamo «La fabrique» per averci dato la possibilità di tradurre e pubblicare il testo.
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È la fine del mondo.
La Torah, la Bibbia e il Corano lo hanno annunciato.
Per quanto si possa guardare all'orizzonte, si vedono sempre più soltanto cieli tenebrosi e soli cupi. Tutti i sensori segnano rosso. Vorrei parlare di speranza ma so bene che la parola è banale.
È la fine del mondo. Le nostre certezze fondamentali, la nostra visione moderna di un progresso materiale, morale ed etico illimitato non esistono più. Che si tratti della minaccia di una guerra nucleare, di un virus o di un cambiamento climatico, non c'è più alcuna utopia, per quanto desiderabile, che possa prevalere sulla nostra lucidità o sulla nostra rassegnazione.
Gli spiriti più laici, le menti più scientifiche cominciano a convergere con i credenti. Ora hanno un immaginario comune: la fine sta arrivando.
Questo è un buon inizio. Andiamo oltre e consideriamo il potere del pensiero negativo. Consideriamo il suo potere e usiamolo come supporto. Non per affrettare la fine ma per dare alla disperazione la sua dimensione metafisica. Non è più la speranza a farci vivere ma la disperazione. Questa è una prospettiva concreta e materialista! La fine del mondo come mito mobilitante e, quindi, come nuova coscienza positiva. Il poeta, non ha forse detto: «Dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva»[1]?
Il mondo è morto, viva il mondo!
Se la fine del mondo è una certezza per i monoteismi, il momento in cui avverrà è un segreto. Un segreto che l'uomo moderno, più di ogni altra creatura sulla terra, ha contribuito a nascondere. Anche se ora sembra così vicina, potrebbe ancora essere rimandata, se la nostra volontà collettiva fosse quella di farla finita col mondo così com'è.
È un mondo capitalista. Il mondo della distruzione della vita. Il mondo della guerra. Deve essere fermato. Adesso.
Ma se il capitalismo è ovunque, le nazioni maggiormente responsabili della fine del mondo si trovano per lo più in Occidente. È da qui che scrivo, dal cuore del capitalismo francese. È lì che fiorisce la mia disperazione. È lì che deve rinascere la mia speranza, è lì che devo considerare la fine di questo mondo.
Poiché apprezzo la sfida di mantenere la posizione mentre va in rovina ogni speranza politica, potrei anche essere realista e chiedere l'impossibile, giusto? L'impossibile sarà questo: la fine di questo mondo. La NUOVA SPERANZA.
Abbiamo l'Idea, il mito mobilitante. Conosciamo il Nemico. Ora abbiamo bisogno di una volontà collettiva e di una strategia globale per «annientare coloro che distruggono la terra». Qui le cose si complicano, perché le forze popolari in grado di porre fine a questo mondo sono disunite, separate e persino opposte tra loro. La scommessa è trovare un modo per unirle. All’origine della mancanza di unione ci sono numerosi fattori. Tra i più strutturali, i più antichi e i più efficaci, c'è la divisione razziale. È a questo nodo che dedico questo libro.
È da pazzi ostinarsi a credere nella formazione di un blocco storico capace di organizzarsi, resistere e persino avere la meglio sul nemico? Un blocco capace di unire le classi popolari, con una strategia di conquista del potere e dello Stato? Se c’è un terreno di unione, di cui si annuncia anche il trionfo, è quello della supremazia bianca, ultimo e definitivo antidoto del blocco borghese occidentale, scosso da ogni parte dalle crisi sociali e politiche che continua a provocare e che si aggravano giorno dopo giorno. Nell’attesa del big one, di questa esplosione di cui non conosciamo l’entità ma che sospettiamo sarà gigantesca (la fine?). Da questo punto di vista, la Francia è un caso da manuale ma la comprensione di ciò che sta accadendo non può prescindere da un'analisi del capitalismo come totalità. Questo è ben noto a qualsiasi marxista degno di questo nome ma è importante qui richiamarne gli elementi principali. Un'analisi di questo tipo deve innanzitutto collocare lo Stato francese e la sua politica nello spazio globale - il «sistema mondo», come direbbe Wallerstein - in cui si scontrano i poteri monetari. Uno spazio che è al tempo stesso una combinazione di dinamiche economiche, dominate dal capitale finanziario, e di logiche geopolitiche, imposte a ogni Stato per il fatto stesso di far parte dello spazio mondiale imperialista. Due vincoli hanno permeato il sistema mondiale nel XX secolo, lasciando un segno indelebile e traumatico nei paesi a capitalismo avanzato: la rivoluzione russa e le lotte di liberazione del Terzo Mondo. Ma dopo il crollo dell'URSS, la maggior parte degli ostacoli geopolitici sono caduti. Il capitale ha avuto la libertà illimitata di sfruttare le persone, la terra e l'ambiente. Dopo la scomparsa dell’«impero del male», è stato necessario trovare un nuovo nemico in grado di compattare il blocco imperialista. La rivoluzione iraniana, l'ascesa dell'Islam politico e poi gli attacchi jihadisti hanno fornito l'occasione per sviluppare le basi ideologiche di questa unione. Il nuovo nemico a cui si è dichiarato guerra, richiama l'unità nazionale: il popolo con i suoi governanti o, per dirla in altro modo, l'alleanza della borghesia con le classi subalterne bianche contro i Dannati della Terra all'esterno e contro gli indigeni in patria. Finché si mantiene il consenso popolare, le forze dell'ordine, la polizia e l'esercito, restano fuori dalla vita pubblica e lasciano che sia il governo ad arbitrare. Ma se il consenso si riduce, come accade in caso di astensione di massa o di rivolta sociale, l'esercito può rendersi autonomo e «assumersi le sue responsabilità».
In questo contesto, mentre la sinistra radicale e l'antirazzismo politico sono diventati irrilevanti, mentre la socialdemocrazia che fungeva da cuscinetto è stata liquidata, mentre l’estrema destra è fiorente e i temi dell'immigrazione e dell’islam assumono un posti centrale nel dibattito pubblico, è urgente rinnovare le nostre analisi sullo Stato e sulla razza che gli è organica, funzionando come tecnologia per l’organizzazione della società.
Questa sarà la prima ambizione di questo libro.
Il razzismo, è una passione delle élite, come suggerisce Jacques Rancière, o è al contrario una passione dei «proletari», come sembra pensare gran parte del campo politico repubblicano, soprattutto a sinistra? Esiste un razzismo di Stato, come affermano alcuni militanti e ricercatori quali Fabrice Dhume o Éric Fassin o esiste uno Stato razzista?
La mia ipotesi è che la razza sia consustanziale alla formazione degli Stati moderni. Pertanto, le analisi che contrappongono il «razzismo dall’alto» e il «razzismo dal basso» o che assolvono lo Stato facendo del razzismo una variabile congiunturale, non colgono il punto: esiste tra i due una relazione dialettica che l'idea gramsciana di «Stato integrale» può aiutarci a comprendere.
Gramsci definisce lo «Stato integrale» come una «egemonia corazzata di coercizione» costituita dagli appartai dello Stato, della «società politica » e della «società civile». «Tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce ad ottenere il consenso attivo dei governati»[2] è l'unione dialettica tra le istanze della società civile e della società politica.
Ma qual è il ruolo della razza in tutto questo? Propongo di dimostrare quanto seguente: lo «Stato integrale» è uno Stato razziale integrale[3]. È un'idea molto contrastata in Francia, che fatica ad imporsi, mentre in altri Paesi è quantomeno discussa: lo Stato razziale esiste e lo Stato francese ne è un esempio. Sebbene Gérard Noiriel, René Gallissot e Suzanne Citron abbiano magistralmente descritto i meccanismi che, dalla Rivoluzione francese ma soprattutto dalla Terza Repubblica, hanno «nazionalizzato i francesi» attraverso un patto sociale/nazionale, e sebbene molti pensatori marxisti, tra cui Nicos Poulantzas e Antonio Gramsci, abbiano riflettuto sullo Stato capitalista, ma senza analizzare la sua sostanza razziale, soprattutto per quanto riguarda lo Stato francese. La constatazione di questo fatto ci permetterà anche di studiare, attraverso il prisma della razza, il rapporto tra Stato, società politica e società civile in Francia, negli ultimi due secoli.
Gramsci non ha mai preteso di fare dello Stato, della «società civile» e della «società politica» degli assoluti, delle permanenze che sfuggono alla storia. Egli stesso riconosceva che si trattava di distinzioni «di metodo» e non «organiche». Approfitto di questa precisazione per avvertire che io stessa mi prenderò delle libertà con la definizione che Gramsci fornisce di queste categorie. In primo luogo, riprenderò la definizione poulantzassiana secondo cui lo Stato non è un «blocco monolitico» ma un «campo strategico» che rappresenta la «condensazione materiale di un rapporto di forze fra le classi e le frazioni di classe». In secondo luogo, limiterò l'analisi della «società politica» alle organizzazioni politiche e sindacali che rappresentano l'opposizione di classe al blocco al potere. Infine, la «società civile» sarà considerata in riferimento all’indistinta categoria di «popolo» e alla sua unità costitutiva che negli Stati moderni è chiamata «cittadino».
Questo approccio potrebbe essere criticato perché troppo meccanicistico, troppo sistematico, e non sarebbe del tutto sbagliato. Se assumo qui il prisma della razza come al contempo essenziale e costantemente oscurato, ciò non pregiudica l’esistenza di altri determinismi storici che dipendono da altre logiche. La razza è una dimensione della storia, non è tutta la storia.
La mia seconda ambizione, che è anche un'ambizione gramsciana, non è quella di rinunciare all’«ottimismo della volontà» e all'utopia, un’espressione quest’ultima talmente abusata che ha perso la sua forza rivoluzionaria, e a cui vorrei qui dare nuova vita. L'idea è questa: lo Stato integrale (razziale), per quanto tentacolare, non assorbe completamente l'essere umano né la sua capacità di spezzare le catene e di coltivare la libertà. Nello scafandro, è una farfalla. Una farfalla che ama la vita e sogna solo una cosa: la fuga. Come comprendere altrimenti l'ottimismo della volontà caro al rivoluzionario sardo? E come non farne il substrato filosofico di ogni strategia politica? O, per dirla in altro modo, come possiamo sperare di rovesciare le forme dello sfruttamento capitalistico senza prima credere? Senza avere una fede in cui credere, un obiettivo e una strategia in grado di formare una nuova comunità politica, un «noi» rivoluzionario? A tal fine, ho individuato due soggetti rivoluzionari: i barbari e i bifolchi. «Barbari» e «bifolchi» non sono parole mie. Sono le parole del razzismo e del disprezzo di classe. Sono le parole del nemico principale. Sono le parole con cui ha recintato il proletariato bianco da una parte e il proletariato indigeno dall’altra; sono quelli di cui conosce il potenziale politico e che, spesso con la complicità degli stessi interessati, è riuscito a osteggiare e neutralizzare. Risultato: i «barbari» dicono «loro» quando parlano dei «bifolchi» e, viceversa, i «bifolchi» dicono «loro» quando parlano dei «barbari». Il progetto è di sostituire «loro» con «noi».
Lo ammetto, è una parola molto strana, «noi». Al tempo stesso diabolica e improbabile. Da un lato ci sono, spavaldi, l’«io» e il «me» e dall'altro fiorisce il «noi» della supremazia bianca. È incongrua. Soprattutto quando sappiamo che le diverse componenti e sottocomponenti di questo grande «noi» fanoniano sono esse stesse quasi tutte incerte. Il «noi» delle classi lavoratrici bianche? Improbabile. Quello degli indigeni? Una battuta. L'incontro di questi due «noi»: un miraggio. La loro unione in un blocco storico? Una chimera. Mi sono dunque messa a scrivere un libro che ai miei occhi è quasi ingiustificabile, aggrappandomi al fragile appiglio di questo adagio popolare, tanto esatto quanto irrisorio: «finché c'è vita, c'è speranza». La NUOVA SPERANZA. Se ho, infatti, grandi difficoltà a convincermi che tale unione sia possibile, non posso rassegnarmi finché non sia stata provata ogni cosa. Dobbiamo quindi iniziare da ciò che fa da ostacolo.
In alto i cuori!
Traduzione di Anna Curcio
Note [1] F. Hölderlin, Patmos in id., Poesie scelte, Feltrinelli, Milano 2010 [2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 1765. [3] Lo scopo di questo libro non è dimostrare l'esistenza degli Stati razziali (anche se dedico a questo tema il primo capitolo), poiché la questione ha già molti specialisti. Si può citare l'opera da cui traggo ispirazione: The Racial State (2002) di David Theo Goldberg, che non è mai stato tradotto in francese ma è un classico nel mondo anglosassone.
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Houria Bouteldja, scrittrice e militante politica decoloniale, tra i fondatori del PIR (oggi sciolto), è autrice, di I bianche, gli ebrei e noi. Verso una politica dell'amore rivoluzionario (Sensibile alle Foglie 2016). «Machina» ha pubblicato Addio Bandung, una conversazione con Anna Curcio.
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