Crisi della civiltà tecnologica in Crimes of the Future di David Cronenberg e Blade Runner di Ridley Scott

Questo scritto si focalizza su come i film Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg e Blade Runner (1982) di Ridley Scott abbiano fatto ricorso ad estetiche e immaginari gotici per mettere in scena una regressione dell’umanità imputata all’incoscienza ed al cinismo della civiltà tecnologica. L’intento è quello di dimostrare che le rappresentazioni degli spazi e degli ambienti dei film in questione possiedono chiare connotazioni gotiche che rimandano in special modo all’immaginario «vampiresco» come è tratteggiato soprattutto da Werner Herzog in Nosferatu. Phantom der Nacht (1979). Si procederà quindi con un metodo comparatistico a confrontare i film in questione sempre tenendo presente l’importante «sostrato» della letteratura gotica europea. Si dimostrerà quindi che i futuri distopici rappresentati nei film di David Cronenberg e di Ridley Scott, in cui si muovono squarci malati di umanità superstite, risentono, soprattutto nella raffigurazione delle ambientazioni e di alcuni personaggi, di una fondamentale impronta dalle connotazioni gotiche nelle quali è presente l’influsso della grande letteratura.
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Questo scritto si focalizza su come i film Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg e Blade Runner (1982) di Ridley Scott abbiano fatto ricorso ad estetiche e immaginari gotici per mettere in scena una regressione dell’umanità imputata all’incoscienza ed al cinismo della civiltà tecnologica. Da questo punto di vista, risulta particolarmente interessante la rappresentazione degli spazi che vediamo in questi due film e, nella fattispecie, quelli all’interno degli edifici dove vivono e agiscono i personaggi. Le case e i palazzi sembrano infatti risentire in modo significativo di un’estetica tendente a ricreare un immaginario gotico che rimanda all’inesorabile decadenza della tecnologia dopo una sua crescita incontrollata; di essa restano solo putrescenti reliquie che caratterizzano gli sfondi e gli ambienti in cui si muove l’umanità superstite: luoghi desolati, edifici disabitati, strade perennemente oscure e piovose, squallidi scorci suburbani, spiagge e litorali abbandonati sui quali sono arenate e incagliate barche e navi ormai inutilizzabili.
La dimora in cui vivono Saul Tenser (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux) in Crimes of the Future di David Cronenberg è una specie di torre in parte diroccata che si affaccia sul mare. La vediamo nel momento in cui i due, appena è calata l’oscurità, ne escono per uscire nello spazio esterno, dominato da un lugubre ronzio, come se si trattasse di un perpetuo suono di insetti mutati dai processi di artificializzazione subiti dall’intero Pianeta. Il languido vento che percorre le strade sembra il lascito abnorme di un clima ormai irrimediabilmente impazzito che ha lasciato dietro di sé squarci di territorio inariditi e bruciati. È un mondo ormai in rovina quello rappresentato nel film: un mondo in cui gli esseri umani si muovono come dolenti e stanchi sopravvissuti in strade abbandonate, e conducono la propria vita in dimore fatiscenti e lasciate a sé stesse. La magione di Tenser e Caprice è una sorta di tetro castello in rovina, forse l’estremo lembo di un gotico mediterraneo (cfr. Scotti, 2004) ormai spento ed esaurito, rappresentato mediante una rilettura retrofuturista con venture steampunk. Il film si ambienta infatti in una imbarbarita Grecia del futuro e la stessa dimora dei due personaggi si trova nelle immediate vicinanze del mare, quasi come un castello di Otranto devastato da un’apocalisse che ne ha lasciato in piedi solamente il cupo esoscheletro. La stessa idea di «castello», rappresentazione iconografica cara a tanta letteratura e a tanto cinema gotico, si disgrega nelle volute di un diroccato residuo di altre ere, di altri tempi e di altri spazi. Se il castello in passato era stato l’ideale spazio dell’inconscio e del perturbante, a partire dalla letteratura gotica (pensiamo al già citato Castello di Otranto di Horace Walpole ma anche ai Misteri di Udolpho di Ann Radcliffe e agli Elisir del Diavolo di Hoffmann) (cfr. Pezzini 2019, p. 128) per giungere poi al Novecento (e allora si può ricordare Kafka ma anche il Buzzati di Il deserto dei Tartari), adesso, tramite il travestimento steampunk e post-punk, sembra che esso si trasformi in una semplice allusione a ciò che era stato un tempo, una blanda rappresentazione sbiadita, straziata dal dolore di un’apocalisse forse già avvenuta. Quasi un ultimo sussulto di malinconica e disillusa nostalgia per un universo irrimediabilmente mutato che viene ad aggiungersi, nel film di Cronenberg, a quella ricerca del dolore perduto in un contesto in cui questo non esiste più, in un ultimo disperato e inconcludente tentativo di riconquistare un briciolo di vitalità, di piacere e dare un senso ad una realtà che sembra non averne. L’estetica della rovina goticheggiante che si rintraccia in Crimes of the Future – al pari delle lame affilate dei bisturi e degli altri strumenti chirurgici con cui i personaggi cercano godimento –, sembra rivelarsi una via di fuga illusoria, incapace di sottrarre l’umanità da una realtà in preda a una mutazione disumanizzante che parrebbe ormai non poter essere contrastata. L’umanità catatonica in preda a una metamorfosi organica generalizzata abita un mondo esausto, in decomposizione, ove i rottami di navi arrugginite e i palazzi decrepiti abbandonati al loro destino, gli interni cavernosi con corridoi che sembrano catacombe o scenari endoscopici all’interno di un corpo umano sconosciuto, gli archivi polverosi, gli scenari goticheggianti e finanche gli inquietanti strumenti chirurgici sembrano svolgere la funzione di quotidiano richiamo, per personaggi del film, non all’ineluttabile fine che si approssima, ma ad una morte già avvenuta.
Gli spazi interni della dimora assumono connotazioni dai caratteri neogotici ibridati con accenti steampunk, i quali emergono soprattutto nella rappresentazione dei macchinari (meccanici ma dalle truci sembianze biologiche) che scandiscono la vita di Saul Tenser. La prima ambientazione all’interno della casa è infatti una cupa e buia stanza al centro della quale si trova un enorme letto-amaca che pende dal soffitto ma ai nostri occhi appare come un terribile insetto gigante appeso, una creatura aliena che può appartenere all’immaginario di Alien (1979) di Ridley Scott o uno scarafaggio di kafkiana memoria. La macchina da presa avanza verso il tetro marchingegno e, lentamente, capiamo che si tratta di un’amaca dalle parvenze animalesche che avvolge ed abbraccia il corpo di Tenser come un enorme bozzolo in cui elementi biomorfi si ibridano con altri tecnomorfi, richiamando le inquietanti creazioni di Hans Ruedi Giger per Alien. Quella che pende dal soffitto, quasi si trattasse di un enorme pipistrello appeso ad una trave all’interno di un tetro castello, si presenta come una sorta di inquietante culla-sepolcrale rimandante tanto all’idea di morte (di quel che resta dell’umano e, più in generale, della natura) quanto a quella di nascita (il trionfo definitivo dell’artificiale). Siamo di fronte a un’immagine che, nel suo comprendere tanto una fine quanto un inizio, richiama alla mente il celebre dipinto The Fighting Temeraire (1838) di Joseph Mallord William Turner, ove viene mostrato allegoricamente il momento in cui la civiltà del vapore (il moderno rimorchiatore) accompagna alla dismissione il mondo della vecchia Inghilterra (il glorioso veliero Temeraire) sostituendosi ad esso. Se nel dipinto si ritrovano tanto sentimenti di nostalgia per un passato che è ormai tale, quanto di fascinazione mista a inquietudine per l’aprirsi della nuova era delle macchine, destinata a cambiare la vita e l’immaginario dell’essere umano, e con esso la natura che lo circonda, l’immagine cronenberghiana sembra testimoniare come il trionfo della civiltà delle macchine abbia comportato un tale livello di artificializzazione dell’umano e della natura da sancirne l’imminente scomparsa. Quella fascinazione per la nuova nascente civiltà che ha condotto il pittore londinese, a cavallo tra Sette e Ottocento, ad affiancare alla dimensione estetica del sublime naturale, quella che si potrebbe definire del sublime industriale (Clare Beavan 2013), sembrerebbe aver lasciato il posto nell’opera cronenberghiana ad una visione decisamente più pessimista; pur non mancando di manifestare una certa attrazione, il processo di artificializzazione dell’essere umano e della natura palesa impietosamente la regressione mortifera a cui ha condotto, resa attraverso il recupero di estetiche gotiche.
Dopo la presentazione di questa culla-sarcofago, nell’inquadratura entra la figura di Caprice che si reca ad aprire la finestra dalla quale emana improvvisamente una forte luce e scopriamo lembi di paesaggio mediterraneo. Ma quell’inenarrabile meccanismo dalle connotazioni gotiche è ancora lì, appeso al soffitto, e in esso si trova, apparentemente tranquillo, il personaggio di Tenser, ricoperto di una lugubre veste nera.
Gli spazi della casa dei due accolgono anche un vero e proprio sarcofago utilizzato per le operazioni cui Tenser si sottopone esibendosi nella sua arte performativa. L’iconografia di Tenser nel sarcofago rimanda all’immaginario dei vampiri e, nella fattispecie, ai personaggi di Dracula e di Nosferatu. A quest’ultimo sembra fare riferimento anche la cupa veste con la quale Tenser si reca fuori dalla sua magione, un saio nero (i cui lembi coprono anche la bocca e le mani del personaggio) dotato di un cappuccio con il quale egli si copre il volto. Sembra quasi un nuovo Nosferatu che, in una notte ormai ammalata, si aggira a caccia delle sue prede attraversando lembi di territorio abbandonato e frequentato da gruppi di individui che, devastati nella coscienza, si autoinfliggono ferite per provare piacere. La magione di Tenser e Caprice appare poi dotata di una sorta di sotterranei caratterizzati da corridoi con il basso soffitto a volta, illuminati da squallide lampade a muro, quasi fossero gli interstizi delle menti degli individui distrutte dai mutamenti sociali e culturali a cui sono stati sottoposti e, forse, si sono voluti sottoporre, che investono un annichilito futuro. I corridoi sotterranei e gli angoli oscuri possono rimandare agli spazi interni del castello di Dracula in Nosferatu Principe della notte (1979) di Werner Herzog, il quale, anche esternamente, appare come una rappresentazione fantasmatica emersa dagli oscuri meandri di una coscienza ferita. Come è stato notato, anche nel romanzo di Bram Stoker – a cui il film, rifacendosi al Nosferatu (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau, si ispira – il castello «è una categoria anzitutto dell’interiorità, un polo-limite dell’umanamente concepibile» (Pezzini 2019, p. 166). Le tetre sale del castello del vampiro sono sature di oggetti morti e dimenticati, come le pietanze imbandite sul tavolo nel momento dell’arrivo di Harker. Al centro dell’oscurità vi è Nosferatu, mostruoso essere notturno, abitatore incontrastato della sua magione; Tenser ne è quasi una rilettura postmoderna, un essere ferito e malato costretto a coprirsi interamente di funebri drappi non troppo diverso, alla fine, dal Dracula di Herzog, emarginato dal contesto sociale, pazzo o drogato perduto in incomprensibili dolori. I cunicoli della magione di Tenser sono gli eredi dei cupi corridoi del castello di Nosferatu, gli unici possibili in un mondo in cui una tremenda malattia mutante si è estesa a sempre maggiori lembi di umanità. In Crimes of the Future il contagio è già avvenuto e nessuno spazio ne è esente. Se il cupo drappo che ricopre il corpo di Tenser può rimandare anche alla rappresentazione della Morte offerta da Ingmar Bergman in Il settimo sigillo (1957), quegli squarci marini dalle ridondanti fattezze romantiche nei quali si consumava la terribile partita a scacchi con il cavaliere Antonius Blok (Max von Sydow), nel film di Cronenberg si riducono a imbarbariti lembi di terra sui quali si trovano arenate vecchie imbarcazioni appartenenti ad un torbido passato e al posto del cavaliere troviamo il detective Cope (Welket Bungué), un giovane poliziotto nero che ricerca informazioni da Tenser.
Gli spazi della cupa casa di Tenser sono inoltre svuotati da ogni oggetto desueto e incancrenito nel tempo, quasi a mostrare un’umanità che ha sostituito all’accumulazione di merci un’austerità quasi monacale: è una dimora neogotica sulla quale ha agito una sorta di sottrazione e di mancanza, una privazione di qualsiasi orpello barocco e venato di orrore. Quest’ultimo infatti non risiede più negli oggetti ma ristagna ovunque, e si spalma sulle vuote e nude pareti. Se lembi di orrore persistono, si trovano anche in quei macabri oggetti dalle fattezze biologiche, scheletri e pseudoinsetti mostruosi, come l’amaca o la poltrona che Tenser usa per inghiottire il cibo. Ecco che, allora, vediamo il personaggio seduto sulla poltrona muoversi a scatti, figura nera aggrovigliata ad un terribile scheletro dal colore più chiaro e il suo corpo unito al marchingegno si staglia come un glaciale fantasma irretito in uno spettrale passato. Il suo corpo sembra essere un ultimo presidio del ‘sentire’ in un mondo in cui il corpo non ha più significato, svuotato com’è del senso dell’umano. Nelle ultime sequenze, il protagonista compie un gesto potenzialmente sacrificale, decidendo di cibarsi di una sostanza sintetica nella consapevolezza che questa potrebbe condurlo alla morte nel caso non abbia raggiunto il necessario livello di artificializzazione. Nelle scene finali, in bianco e nero, la lacrima che solca il viso di Tenser, cosciente di essere inesorabilmente avviato alla definitiva artificializzazione, più che tradire un ultimo barlume di umanità, pare manifestare la consapevolezza dello stato di impotenza a cui è giunto insieme al resto dell’umanità.
Svuotati sono anche i cupi saloni in cui avvengono le esibizioni di Tenser e Caprice: spazi enormi illuminati da candele nei quali campeggiano televisori panciuti appartenenti forse a squarci di anni Ottanta naufragati in ambienti postindustriali di Berlino o di Londra, adibiti a spazi per mostre o concerti. Non a caso, una lunga sequenza di Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders – di fine anni Ottanta, sul declinare di un importante momento di transizione – si ambienta in un salone, ricavato forse da uno spazio industriale decaduto, nel quale si esibisce un Nick Cave venato di connotazioni dark. Il gusto gotico si unisce a quello postindustriale e post-punk per offrire lembi di imagery dark. Ma se una perfetta dark lady era Lucy nel film di Herzog, Caprice e l’artista performativa che si fa ferire il volto, nel film di Cronenberg, sono le dark ladies di una postmodernità espansa fino all’inverosimile, fino a far coincidere la contemporaneità con un inane tempo futuro irretito nell’apocalisse delle coscienze.
E allora, se volessimo ricercare uno spazio di congiuntura fra il castello di Dracula nel film di Herzog e lo spazio delle esibizioni degli artisti performativi in quello di Cronenberg, probabilmente dovremmo rivolgerci a Blade Runner di Ridley Scott che, anche temporalmente, si situa in un momento di passaggio e di transizioni epocali, l’alba – stavolta – di quei proteiformi anni Ottanta. Qui, il «castello» mostruoso assume una doppia valenza: quella di oscuro e turpe decadimento, simile allora alla dimora di Tenser, e quella di un ipertecnologico futuro, per quanto altrettanto lugubre ed inquietante. Emblema del primo è il Bradbury Building di Los Angeles, risalente al 1863, nel quale si trova la dimora dell’ingegnere J.F. Sebastian (William Sanderson), mentre del secondo è il grattacielo nel quale vive – anch’egli quasi un Dracula postmoderno – il capo della Tyrrel Corporation (Joe Turkel).
I due edifici si collocano in un contesto urbano fatiscente che, come sostiene Giuliana Bruno (cfr. Bruno, 1987), suggerisce la sua decadenza mostrando il lato oscuro della tecnologia, palesandosi come risultato infernale del suo lungo regnare incontrastata. «Il ricorso a svariati elementi del passato rende la città del futuro “regressiva”, come se il progresso tecnologico [...] avesse comportato “un passo indietro” per il genere umano. È come se al collasso urbano, determinato dall’insostenibilità economica, ecologica e politica di un preciso sistema di sviluppo, si tentasse di far fronte attraverso un’operazione architettonico-urbanistica di retrofitting, di “aggiornamento retroattivo”» (cfr. Lago, Toni 2023, p. 118). Secondo Roy Menarini (cfr. Menarini 2001), più che i tratti della postmodernità, la megalopoli assume in questo film le caratteristiche di un epilogo del moderno, una sorta di proiezione esasperata nel futuro delle criticità sociali, urbanistiche ed ambientali che affliggono gli anni Ottanta del Novecento, il periodo in cui venne realizzato il film. Quella messa in scena da Scott è una metropoli caotica priva di alternanza tra giorno e notte, così da rafforzare l’idea di un eterno e buio presente infranto soltanto da schermi luminosi, tremolanti luci al neon e fiamme, una città priva di vegetazione e battuta da una pioggia incessante, il cui disordine non annulla la rigida suddivisione sociale su cui è strutturata. Quasi a ribaltare l’entusiastico immaginario futurista italiano di inizio Novecento, a suggerire il canto del cigno di una società ipertecnologizzata, la Los Angeles del film si presenta come un enorme bazar ove tutto viene (ri)prodotto e venduto confondendosi ad un originale ormai scomparso, nel disperato e fallimentare tentativo di preservare la memoria, o almeno di rallentarne l’oblio definitivo.
Se il grattacielo di Tyrrel, una sorta di monumentale ziqqurat derivata da una lunga stratificazione tecnologica nelle cui architetture persino le forme arcaiche sono proiettate ad un futuro ipertecnologico, il palazzo in cui vive Sebastian appare come una reliquia putrescente del passato; una «reliquia imbalsamata dal tempo, quasi uno spazio mostruoso in cui le ferite del tempo non cessano mai di rintoccare» (cfr. Lago, Toni 2023, p. 136). Lo scenario in cui si trova il grande palazzo è caratterizzato da un fitto accumulo di macchinari, più o meno in efficienza, di oggetti desueti e rifiuti che, come ha notato Oliver Carmi (cfr. Carmi 2020), rendono lo spazio labirintico non meno di quello delle celebri Carceri immaginarie del Piranesi (cfr. Piranesi 2019 e Meistro, Pezzini, 2020, a e Meistro Pezzini, 2020, b). La presenza costante di pioggia, fumi e vapori sembra una versione aggiornata del tipico scenario boschivo immerso nella nebbia e battuto dalla pioggia in cui si colloca un tetro castello, caro all’horror gotico. Ad assumere l’aspetto della reliquia non è soltanto la dimora di Sebastian; essa stessa appare satura di reliquie bloccate in altre ere, come gli oggetti che si trovano nella casa di Dracula: un falco impagliato che oscuro si leva sopra il tavolo, un funereo orologio a cucù con uno scheletro meccanico che scandisce i rintocchi, le imputridite portate sul tavolo, rivestite di una patina barocca e senescente. Nella casa di Sebastian ci sono ovunque esseri meccanici rappresi in oscuri dolori: sono i giocattoli che egli crea nel tempo libero, automi che emergono forse dalla settecentesca memoria di un folle sovrano, come la bambola meccanica che Giacomo Casanova incontra nella corte di Würtemberg in Il Casanova (1976) di Federico Fellini. In mezzo a un arredamento che richiama altre epoche del passato, i pupazzi scandiscono il dolore rappreso di un presente che è diventato futuro troppo in fretta, precipitando nell’abisso di una nuova barbarie e di una nuova violenza che attanaglia le menti e i corpi degli individui, come nell’oscuro tempo rappresentato in Crimes of the Future. L’ottocentesco palazzo è un fantasma pietrificato che si staglia nella Los Angeles del 2019 illuminata dai fari delle astronavi e delle macchine volanti dirette verso le «colonie extramondo», a cercare forse l’illusione di una vita migliore. È come un grande e stupito essere senescente che si trova rimbalzato in un futuro non suo e rimane reliquia pulsante di passato che non cessa di emanare lancinanti grida di dolore. Come il palazzo semiabbandonato in cui vivono Tenser e Caprice, come le case che incorniciano la costa battuta da un vento impietrito e rappreso forse in sostanze tossiche e in veleni che si sprigionano ovunque nel futuro di mutanti raccontato da Cronenberg, il Bradbury Building è un povero sopravvissuto alla guerra di ere, agli scontri di epoche ed ancora vive istupidito dai suoi mutamenti. Le sue stanze sono enormi e illuminate da luci artificiali che echeggiano arcaiche torce e candele, come i saloni dell’esibizione degli artisti performativi, come uno spazio post-industriale emerso da una metropoli anni Ottanta ormai inesorabilmente mutata. Ed anche le stanze del castello del vampiro, in un film successivo come Dracula di Bram Stoker (1992) di Francis Ford Coppola, assumeranno l’aspetto del cupo ventre industriale venato di accenti dark.
Anche i saloni della casa di Sebastian sono venati di rimandi ad un neogotico che sembra essersi ibridato ogni dove e i pupazzi che in essi si muovono sono gli orrorifici congegni di una nuova dimensione perturbante che fa muovere coloro che erano consegnati eternamente alla dimensione dell’inanimato. Ma anche i saloni della dimora dell’ingegner Tyrrel sono il ventre oscuro che racchiude il creatore di altri oggetti perturbanti che rifiutano la senescenza per abbracciare sempre nuove ere: i replicanti sono i congegni dell’orrore che lambiscono il nostro presente, sono gli esseri umani mutati definitivamente, forse dopo innumerevoli trasformazioni biologiche, dopo inenarrabili evoluzioni che seguono quelle descritte da Cronenberg. Il loro creatore è il creatore dell’orrore, e il suo cereo volto sarà devastato e sottratto al tempo proprio da quelle mani meccaniche che egli aveva plasmato nei suoi putrescenti saloni.
Bibliografia
Bruno G., Ramble City: Postmodernism and Blade Runner, in «October», Vol. 41, The MIT Press, Summer 1987, pp. 61-74. http://pdf-objects.com/files/Tim-Portluck-Ramblecity.pdf online (ultimo accesso 15 settembre 2024).
Carmi O., Los Angeles 2019. The City of Blade Runner, Independently published 2020.
Lago P., Toni G., Alle radici di un nuovo immaginario. Alien, Blade Runner, La cosa, Videodrome, Rogas, Roma 2023.
Meistro C. - Pezzini F., Cervello nero, invenzione sporca (Nightmare Abbey 15/1), «Carmilla online», 18 Luglio 2020 (a) .
Meistro C. - Pezzini F., Cervello nero, invenzione sporca (Nightmare Abbey 15/2), in «Carmilla online», 25 Luglio 2020 (b) .
Menarini R., Ridley Scott. Blade Runner, Lindau, Torino 2001.
Pezzini F., Il conte Incubo. Tutto Dracula vol. 1, Odoya, Bologna 2019.
Piranesi, G.B., Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019.
Scotti M., Gotico mediterraneo. Letteratura fantastica sul mare nostrum, Diabasis, Reggio Emilia 2004.
Filmografia
Alien (1979) di Ridley Scott.
Blade Runner (1982) di Ridley Scott.
Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg.
Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula, 1992) di Francis Ford Coppola.
Il Casanova (1976) di Federico Fellini.
Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987) di Wim Wenders.
Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957) di Ingmar Bergman.
Nosferatu. Principe della notte (Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog.
The Genius of Turner: Painting the Industrial Revolution (2013) di Clare Beavan.
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Paolo Lago è dottore di ricerca in Letterature e Scienze della Letteratura all’Università di Verona e in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie presso l’Università di Padova. Si occupa principalmente di teoria della letteratura e di critica tematica nella letteratura e nel cinema. Fra le monografie prodotte: La natura ostile. Visioni e prospettive nella narrativa contemporanea (Terracqua 2023), Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini, Edipo re, Teorema, Porcile, Medea (Mimesis 2020), Il vampiro, il mostro il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij (Clinamen 2019), La nave, lo spazio e l’Altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (Mimesis 2016). Coautore di Spazi contesi. Cinema e banlieue. L’Odio, I Miserabili, Athena (Milieu 2024), Salvatrici del mondo. Personaggi femminili nella fantascienza italiana contemporanea (Giorgio Pozzi Editore 2024), Alle radici di un nuovo immaginario. Alien, Blade Runner, La Cosa, Videodrome (Rogas 2023), ha pubblicato un suo saggio nel volume L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura (Mimesis 2023). Docente di materie letterarie, è redattore della rivista «Carmilla online» e collaboratore di altre testate.
Gioacchino Toni è studioso dei fenomeni artistici e audiovisivi contemporanei, oltre che di Storia dello sport. Autore di Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale (Il Galeone 2022) e coautore dei volumi: Spazi contesi. Cinema e banlieue. L’Odio, I Miserabili, Athena (Milieu 2024), I migranti del pallone. I calciatori stranieri in Italia. Un secolo di storia (Le Monnier 2023), Alle radici di un nuovo immaginario. Alien, Blade Runner, La Cosa, Videodrome (Rogas 2023), Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978 (Mimesis 2018), Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell'immaginario (Mimesis 2018), Guida agli stili nell’arte e nel costume (L’età moderna, Odoya 2019 e L’età contemporanea, Odoya 2020). Suoi saggi sono stati pubblicati nei volumi L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura (Mimesis 2023), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto (Il Galeone 2020) e Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio (Il Galeone 2021). Docente di Storia dell'arte, è redattore della rivista «Carmilla online» e collaboratore di altre testate.
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