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Attraversando il PNRR. Parte II (III)


Politiche energetiche e filiere produttive


Attraversando il PNRR
Immagine: Bernd & Hilla Becher, Plant for styrofoam production, Wesseling, 1983

Pubblichiamo la terza puntata della seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato, nella prima parte, il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori, dell’idrogeno e della logistica, ai processi di digitalizzazione industriale.


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IV. La digitalizzazione industriale

La Missione 1, Componente 2 del Pnrr italiano vuol dare impulso a processi di digitalizzazione e innovazione industriali, nonché a «un’infrastruttura di reti fisse e mobili ad altissima capacità (Very High Capacity Network)»[1]. Investire per rendere le imprese più tecnologiche sarebbe un inutile sperpero di risorse nel caso in cui il territorio nazionale non offrisse una capacità di connettività sufficiente all’utilizzo ottimale delle nuove tecnologie.

Se da un lato, dunque, questa Componente elargisce soldi pubblici per gli investimenti in tecnologia e in ricerca e sviluppo, supportando poi in maniera più corposa alcuni settori strategici dal punto di vista comunitario[2], dall’altro «include importanti investimenti per garantire la copertura di tutto il territorio con reti a banda ultra-larga (fibra FTTH, FWA e 5G), condizione necessaria per consentire alle imprese di catturare i benefici della digitalizzazione e più in generale per realizzare pienamente l’obiettivo di gigabit society»[3].

Per un’impresa infatti non è ammissibile adottare tecnologie produttive wireless, se poi funzionano a intermittenza, o sviluppare infrastrutture di sicurezza informatica e tecnologie per la produzione di dati relativi alle performance industriali che, però, non possono operare a pieno regime a causa della mancanza di un sistema di connettività digitale all’avanguardia diffuso sul territorio nazionale.

Infine, un ulteriore fattore abilitante per una reale digitalizzazione del paese è l’esistenza di un mercato europeo in grado di rendere disponibili e a buon prezzo i componenti semiconduttori necessari a far funzionare le nuove tecnologie[4], [5]. Prima di pensare all’Italia, però, cerchiamo di gettare luce su quali interessi imprenditoriali si nascondano dietro le nuove tecnologie.

La digitalizzazione delle attività economiche è ricercata soprattutto nei segmenti delle filiere produttive che consentono profitti più alti, ossia un maggior ritorno degli investimenti. Perché? In genere un’impresa digitalizzata consegue profitti più alti ma, presentando gli investimenti in digitale un costo elevato, nel complesso un’effettiva convenienza la si incontra soprattutto in tali segmenti particolarmente remunerativi. Ne consegue che gli Stati cerchino di finanziare le imprese, contribuendo ai loro investimenti per facilitarne lo sviluppo: viene pubblicato un bando per gli investimenti ammissibili, gli imprenditori presentano delle proposte di investimento e il Governo, se le accetta, versa il proprio contributo. In Germania questo processo è seguito più da vicino dalle istituzioni e dalle apposite commissioni governative create ad hoc, mentre in Italia ci sembra che vi sia meno attenzione. Il motivo potrebbe essere che mentre lì c’è un’effettiva disposizione a investire nelle tecnologie digitali, con aziende meglio posizionate nei segmenti più remunerativi delle filiere; da noi si incontra invece una relativa preferenza a ridurre gli investimenti[6] e recuperare margini di competitività abbattendo il costo del lavoro. Come? Aumentando l’orario e abbassando il salario reale, sfruttando magari gli ampi margini concessi da una certa deregolamentazione normativa[7]. A livello sindacale si tratta di un concetto importante: la digitalizzazione è maggiormente collegata all’aumento dei ritmi, mentre la riduzione del costo del lavoro (anche tramite deregolamentazione normativa) è preferibilmente associabile alla diminuzione del salario e all’aumento dell’orario.

Se in Germania, dunque, il contributo statale serve a massimizzare il rendimento di investimenti che comunque verrebbero effettuati, in Italia questi hanno più un carattere di stimolo che di sostegno. Si pensi soltanto che la digitalizzazione della Pubblica amministrazione (prevista dal Pnrr nella Missione 1, Componente 1, Sottocomponente 1) ha l’obiettivo dichiarato di stimolare il mercato nazionale del cloud e di alcuni altri servizi di connettività digitale: si fa della Pa il cliente, sperando che una parte delle imprese sia interessata a riorientare il proprio business per diventarne il fornitore. Non per niente il Pnrr dice che «andranno introdotte specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato»[8]!

Ad ogni modo, per un’economia capitalista è importante avere un tessuto imprenditoriale «ben posizionato» nelle filiere in cui investe: «Secondo un rapporto dell'Unione internazionale delle telecomunicazioni (2018), nei Paesi OCSE, un aumento dell'1% dell'intensità di digitalizzazione del Paese significa un aumento del PIL pro capite dello 0,14%»[9]. Come dicevamo, oltre che per il valore del mercato queste «posizioni» sono caratterizzate da un alto tasso di produttività del lavoro, dovuto proprio all’applicazione delle nuove tecnologie, perché «tramite l’ottimizzazione delle risorse e l’automazione dei processi [l’Intelligenza artificiale] consente la previsione della domanda e il miglioramento dei processi logistici»[10].

A sua volta, assieme alla previsionalità e all’automazione aumenta anche la standardizzazione del lavoro. Che si tratti di una fabbrica, di un ufficio, un magazzino logistico o altro, la standardizzazione e il monitoraggio operati dalle nuove tecnologie consentono il mantenimento del cosiddetto «flusso teso»[11] del processo produttivo. Ciò indica come i confini dell’autonomia personale del lavoratore vengano sempre più determinati dalle «variabili collettive di produzione»[12], che impongono ritmi di lavoro più alti. Si veda l’esempio dei lavoratori autonomi freelance e dei riders, intrappolati fra «le storpiature di un’autonomia direzionata da vincoli e scadenze imposte dall’esterno (generalmente dal cliente) che di fatto annacquano l’effetto emancipante dell’autonomia legittimando una condizione di autosfruttamento»[13]. Ma anche considerando il tutto da un punto di vista più generale il quadro non cambia: «emerge una relazione inversamente proporzionale fra intensificazione [dei ritmi] e spazio di decisionalità, che passa principalmente dalla conformazione organizzativa che è stata scelta per le macchine digitali»[14]. Un problema antico, quello del conflitto fra macchine e lavoratori, denunciato con lungimiranza dai comunisti fin dai tempi di Marx e addirittura, ancor prima, nell’inno L’Internazionale: «E la macchina sia alleata, non nemica ai lavorator!».

            Vediamo ora quale sia lo stato dell’arte del processo di digitalizzazione industriale italiano. Fra le disposizioni previste dal Pnrr spicca l’Investimento 1, «Transizione 4.0». Forte di 13,38 miliardi, consiste nel riconoscimento di crediti d’imposta alle imprese che presentino programmi di sviluppo tecnologico (adozione di nuove tecnologie, progetti di ricerca e formazione della forza-lavoro). Fra i macchinari industriali di cui è possibile detrarre parzialmente il costo, già definiti dalla L. 232/2016 (Allegati «A» e «B»), troviamo tutte le principali nuove tecnologie produttive, comprese alcune di quelle direttamente funzionali all’aumento del controllo e dei ritmi di lavoro[15]. Rispetto al vecchio programma governativo «Industria 4.0» (2017) ora si concedono agevolazioni non solo sul profitto (base imponibile positiva) ma anche verso altri obblighi fiscali, permettendo così a molte aziende in difficoltà di utilizzare i soldi pubblici per ammortizzare il rischio d’impresa. Inoltre, sono aumentati il numero massimo delle agevolazioni concedibili, la durata dei programmi di sviluppo ammissibili e le percentuali di credito sul totale dell’imposta. (Per completezza, infine, diciamo anche che questo Investimento è simile e complementare a quello denominato «Transizione 5.0» (6,3 miliardi), previsto ex-novo dal REPowerEU e che, similmente, concede crediti per l’efficientamento energetico).

L’innovazione del sistema produttivo viene poi accompagnata da una riforma del sistema della proprietà industriale (Riforma 1, «Riforma del sistema della proprietà industriale») e dal relativo investimento (Investimento 6, di 30 milioni), aventi come obiettivo quello di tutelare Made in Italy, proprietà del marchio e proprietà intellettuale, nonché di semplificare la burocrazia e favorire il coordinamento amministrativo in tema di implementazioni tecnologiche e innovazione.

Un ennesimo tassello consiste, da anni, nell’aiutare le PMI a sostenere i costi dell’innovazione attraverso lo strumento dei Contratti di Sviluppo[16], che erogano contributi a fondo perduto e/o finanziamenti agevolati, e tramite il Fondo SIMEST[17], rivolto a quelle che operano sui mercati esteri. Tali possibilità di credito esistono rispettivamente fin dal 2012 e dal 1981, ma con i fondi del Pnrr (Investimento 5, «Politiche industriali di filiera e internazionalizzazione», per 1,95 miliardi) ricevono oggi nuova linfa.

Infine, dal REPowerEU arrivano altri 100 milioni, finalizzati a progetti di ricerca e sviluppo sulla transizione digitale di filiera e delle PMI, mentre il Piano Nazionale Complementare (a cui appartengono i fondi stanziati dai governi italiani per completare l’azione del Pnrr) prevede poco più di 5 miliardi per la «Transizione 4.0» e 1 miliardo per l’innovazione industriale[18].

Per quanto riguarda la connettività digitale, ossia la capacità di trasmettere con bassi tempi di latenza una grande quantità di dati, l’obiettivo è sostanzialmente quello di favorire l’utilizzo delle nuove tecnologie industriali (sensori, Internet of Things, stampanti tridimensionali, ecc.), laddove presenti, e stimolare il mercato hi-tech diffondendo fra la popolazione l’utilizzo di quelle a uso privato. L’Investimento 3, «Reti ultraveloci (banda ultra-larga e 5G)», si avvale di 6,71 miliardi e ha come obiettivo quello di raggiungere «entro il 2030 una connettività a 1 Gbps per tutti e la piena copertura 5G delle aree popolate». Nel Pnrr ci si elogia di stare provando a tagliare il traguardo in anticipo sui tempi, ossia entro il 2026, ma si tratterebbe veramente di un risultato di primo piano all’interno dell’UE?

A pensarci bene, l’Italia investe per stimolare il mercato delle nuove tecnologie industriali e per sviluppare la connettività digitale, ma la filiera hi-tech, in sé, non viene presa in considerazione se non marginalmente.

Di conseguenza, l’efficacia e l’utilità della strategia italiana per la digitalizzazione dipendono fortemente dallo sviluppo di una filiera europea per l’industria 4.0.

Da questo punto di vista la Spagna sembra trovarsi in una posizione simile: ciò che ci accomuna è l’assenza di un piano maturo per la gestione dei dati, che vengono prodotti dall’utilizzo delle nuove tecnologie e trasmessi dalle reti digitali, ma questi dati andrebbero anche gestiti e organizzati[19], volendone sfruttare al meglio il potenziale economico. In entrambi i paesi non sembra che si vada oltre la creazione di banche-dati (o piattaforme) e la diffusione di tecnologie digitali in grado di aumentare la quantità di dati prodotta.

Stiamo parlando, cioè, delle fasi di sviluppo e archiviazione dei dati. La differenza, però, la fa la condivisione, cioè la capacità di creare dei veri e propri «ecosistemi» di dati, reti di luoghi virtuali all’interno delle quali le istituzioni e le imprese possano muoversi autonomamente per reperire risorse utili alle proprie attività. Questi luoghi vengono chiamati data rooms. Ne esistono sporadicamente già anche in Italia, sotto forma di servizi alle imprese offerti da aziende private (generalmente estere)[20]. Un vero e proprio ecosistema di data rooms, però, può nascere oggi solo da un’interazione continuativa fra Stato e imprese, orchestrata secondo un piano ben congeniato, dotato di un adeguato livello di risorse economiche.

Al contrario, la semplice uniformazione dei linguaggi informatici e dei database fra le istituzioni pubbliche italiane, prevista dal Pnrr, non è sufficiente per competere ad armi pari nella filiera del digitale[21]. Servono altri livelli affinché l’economia dei dati possa essere realmente redditizia e consentire di massimizzare i profitti: la Confindustria tedesca ha stimato in 425 miliardi di € il potenziale di creazione di valore al 2025[22]. Certo, la realizzazione di un simile fatturato potrà avvenire soltanto a patto di «liberalizzare» l’utilizzo dei set di dati (anche se pubblici) da parte degli imprenditori, «dando il la» a una società del controllo a uso e consumo di questi:

«[Bisogna] superare i fallimenti del mercato, gli ostacoli all’innovazione e gli ostacoli amministrativi che finora hanno ostacolato la cooperazione sui dati tra attori statali e commerciali. Finora tali collaborazioni sui dati non sono quasi esistite, sebbene lo Stato disponga di set di dati che potrebbero costituire la base per innovazioni economiche. Allo stesso tempo, i dati aziendali potrebbero aiutare lo Stato a garantire il proprio mandato di fornitura, i servizi pubblici e la protezione dei beni pubblici. Finora è mancata la fiducia reciproca tra le parti interessate, anche per quanto riguarda il trattamento dei dati conforme alla protezione dei dati e la concessione dei diritti di accesso[23]».

Per quanto la creazione di una società digitale del controllo appaia tuttora, almeno in parte, come un’ipotesi futuristica, la realtà dei fatti è che (purtroppo) ci stiamo avvicinando con estrema celerità a questo modello. Il Pnrr tedesco dichiara l’obiettivo di sviluppare processori con una velocità di calcolo al livello delle prestazioni exascale[24] (più di un miliardo di calcoli al secondo) e, in effetti, l’EuroHPC (impresa comunitaria per lo sviluppo dell’High Performance Computing) ha individuato nella Germania il paese adatto a ospitare il primo sistema per prestazioni exascale («a esascala», in italiano) in Europa[25]. Dal canto proprio, l’Italia risponde con un progetto di ricerca sul super-calcolo condiviso con la Francia[26]. Questa, a propria volta, sebbene possa vantare solo casi sporadici di uso e condivisione di dati fra le imprese[27] possiede un settore della connettività digitale molto più sviluppato di quello nostrano, al punto da mirare dichiaratamente a un riposizionamento (upgrading) nel mercato specifico, che a sua volta potrebbe portare «a sostanziali guadagni di competitività in settori chiave per l'economia francese (automotive, aeronautica, sanità, industria 4.0, agricoltura, cultura e media, istruzione, ricerca, sicurezza e difesa, ecc.)»[28].

Ora, è un fatto che il calcolo exascale abbia il potenziale per implementare seriamente la produttività industriale e l’efficacia degli investimenti (oltre che i proventi finanziari). Ciò però potrà avvenire dopo lo sviluppo dei codici e degli algoritmi necessari e soltanto a seguito dell’aumento della capacità di trasmissione dati: l’iniziativa europea Connecting Europe Facility 2 Digital serve proprio a questo. Tuttavia, considerando la questione da un punto di vista più generale, l’applicazione larga e diffusa dell’Intelligenza artificiale nella nostra società sembra già essere alle porte: l’Artificial Intelligence Act, prima legge al mondo per la regolamentazione complessiva delle nuove tecnologie, è stata promulgata dalla Commissione Europea il 13 marzo scorso. Poco centrata – e non per caso – sulle applicazioni dell’IA sui posti di lavoro, la norma comunitaria esplora i rischi legati all’aspetto del controllo sulla popolazione tramite queste nuove risorse digitali. Il testo, purtroppo, ha subito messo in chiaro che i limiti per le imprese saranno pochi: solo le tecnologie adoperate in maniera «altamente rischiosa» saranno soggette ad alcune limitazioni, consistenti semplicemente nell’adozione di un protocollo di conformità che comporta l’acquisizione di certificazioni e il rispetto di standard europei di controllo e tracciamento dei dati. Queste certificazioni, se da un lato saranno relativamente costose per le aziende (specie quelle di minori dimensioni), non saranno assolutamente in grado di proteggere la società civile da eventuali nuove «strette» in termini di controllo e sorveglianza. Per un approfondimento sulla questione dell’Act si veda l’articolo citato nella nota[29].



V. La filiera logistica

Se non è un rito, poco ci manca. Da tempo, verso la fine di ogni anno, sui maggiori quotidiani italiani compaiono articoli in cui si sottolineano i ritardi del nostro paese sul versante delle infrastrutture e dei trasporti. In uno di questi, pubblicato su il Corriere della Sera il 16 dicembre 2022, si richiamano i danni economici di quello che, per un paese appartenente al G7, è un imbarazzante fattore di arretratezza: «Il ritardo infrastrutturale dell’Italia è costato nel 2022 oltre 77 miliardi di euro di mancate esportazioni, pari al 15% del valore complessivo dell’export nazionale, colpendo tutti i settori più importanti del Made in Italy»[30].

Per la precisione, lo scritto prende le mosse da un Rapporto del Centro Studi Divulga[31], una realtà che si dedica «all’analisi delle dinamiche di produzione e consumo, trend economici e politici, orientamenti sociali e culturali per contribuire a disegnare le strategie di azioni di imprese, filiere, istituzioni, associazioni e policy maker»[32]. Ma passiamo ai settori più colpiti dal ritardo infrastrutturale. Tra questi, troviamo la moda (-8,22 miliardi) e l’agroalimentare (-7,8 miliardi), ovvero gli ambiti produttivi che, forse più di tutti, simboleggiano il Made in Italy. Tuttavia, vistosi sono anche i danni arrecati a settori «come quello delle macchine e degli apparecchi meccanici (-20 miliardi di euro), prodotti chimici e materie plastiche (-13 miliardi) e metalli (-9,26 miliardi)». Del resto, parliamo di un paese in cui ancora fortemente inadeguata è la rete ferroviaria, tanto che i doppi binari sono presenti solo nel 46% delle linee. E in effetti il trasporto merci su rotaia si ferma al 12%, attestandosi al di sotto della media europea (17%). Laddove il trasporto su gomma, riguardando l’87% delle merci movimentate, risulta sopra la media europea (77%) di ben 10 punti percentuali[33].

Un quadro siffatto, che stride fortemente con le pubbliche retoriche sulla mobilità e la logistica sostenibili, non poteva essere sottovalutato in sede di stesura del Pnrr. In effetti, le questioni poc'anzi accennate vengono in particolar modo affrontate nella Missione 3: Infrastrutture per una mobilità sostenibile. Nella quale esse sono viste sotto diversi aspetti. Per dire, il trasporto delle merci su gomma viene anche considerato come fonte di congestioni del traffico e di problemi di sicurezza lungo le arterie autostradali. E non solo ci si pone nell’ottica di aumentare la capacità della rete ferroviaria, ma si persegue pure l’obiettivo di inserirla maggiormente in una rete di trasporti intermodali, migliorando dunque i suoi collegamenti con porti e aeroporti. In più, ci si allinea alle indicazioni europee circa la necessità di ridurre l'impatto sull'ambiente della mobilità. A tal fine, ci si riferisce tra l'altro alla Commissione Europea e alle sue Raccomandazioni Specifiche per Paese (CSR) 2020 e 2019: «Investire nel trasporto e nelle infrastrutture è anche un modo per affrontare le sfide ambientali. Occorrono investimenti consistenti per conseguire gli ambiziosi obiettivi dell'UE in materia di energia e clima». In più, per meglio inquadrare i caratteri della Missione si parte dall'individuazione dei problemi concreti, tra i quali gli squilibri territoriali del sistema dei trasporti, peraltro non circoscritti alle ben note differenze tra nord e sud. Infatti, l'isolamento di molte comunità locali si registra anche nelle aree interne e rurali, meno provviste di collegamenti rispetto a quelle urbane. Per dare il senso delle problematicità della situazione, si sottolinea che «il 90% del traffico di passeggeri in Italia avviene su strada (…) mentre sulle ferrovie viaggia solo il 6% dei passeggeri (rispetto al 7,9% in Europa)». Ciò ha notevoli implicazioni di ordine ambientale: con queste caratteristiche, in Italia «il settore del trasporto risulta tra quelli maggiormente responsabili delle emissioni climalteranti, con un contributo pari al 23,3% delle emissioni totali di gas serra».

Certo, alcune questioni l'Italia se le porterà appresso anche con un'attuazione piena del Pnrr. Per dire, il 9 dicembre 2020 l'Ue ha pubblicato una Strategia per una mobilità intelligente e sostenibile delineata dalla Commissione. In essa sono indicati obiettivi forse lontani dalla portata del nostro paese, come il seguente: «entro il 2030 il trasporto intermodale su rotaia e su vie navigabili interne dovrà essere in grado di competere in condizioni di parità con il trasporto esclusivamente su strada». Di più: occorre «aumentare il traffico merci su rotaia del 50% entro il 2030 e (…) raddoppiarlo entro il 2050». Ora, non sappiamo cosa potrà accadere di qui al 2050, ma l'obiettivo intermedio, essendo fissato al vicino 2030, non appare facile da raggiungere. Ovviamente, nella redazione del Piano non sono comprese esplicite valutazioni su quanto siano conseguibili gli obiettivi, che risultano ambiziosi e a tutto campo. Ad esempio, il superamento dei divari prima accennati è volto a favorire «la coesione sociale e la convergenza economica fra le aree del paese, uniformando la qualità dei servizi di trasporto in tutto il territorio nazionale».

Scendendo più nel concreto, va detto che la Missione 3 si articola in 2 componenti. La prima (Investimenti nella rete ferroviaria) rimanda allo sforzo di sviluppare il sistema ferroviario nostrano. La seconda (Intermodalità e logistica integrata) mira alla digitalizzazione dell'intero settore logistico. Gli investimenti della Componente 1 sono legati alle già citate Raccomandazioni Specifiche per l'Italia 2020 e 2019. Nel presentarli, se ne evidenziano le conseguenze positive sul piano della sostenibilità. Ad esempio: «si stima che un aumento dei passeggeri che utilizzano le ferrovie dal 6% al 10% comporterà un risparmio annuo di Co2 pari a 2,3 milioni di tonnellate». Non meno rilevante di questo discorso è quello che concerne lo spostamento delle merci. Sono infatti previsti interventi di «Incremento della capacità dei trasporti ferroviari per le merci, lungo gli assi prioritari del paese Nord-Sud ed Est-Ovest, per favorire (…) il trasferimento del traffico da gomma a ferro sulle lunghe percorrenze». Vi è poi il discorso sull'Alta Velocità al Sud «con la conclusione della direttrice Napoli-Bari, l'avanzamento ulteriore della Palermo-Catania-Messina e la realizzazione dei primi lotti funzionali delle direttrici Salerno-Reggio Calabria e Taranto-Potenza-Battipaglia».

Per quanto concerne le ferrovie regionali, si punta in particolare a modernizzare quelle del Mezzogiorno, sì da «omogeneizzare ed elevare gli standard prestazionali delle strutture esistenti sia per il traffico viaggiatori che per quello merci». In varie parti d'Italia, diverse linee regionali dovranno essere adeguate al livello infrastrutturale e tecnologico della rete nazionale, con conseguenze anche sulla sicurezza del servizio. Di più, si mira a una maggiore integrazione tra ferrovie regionali e nazionali, in un quadro caratterizzato da nuovi collegamenti con porti e aeroporti, tanto per i passeggeri quanto per le merci. Ma passiamo all'Investimento 1.1 (Collegamenti Ferroviari ad Alta velocità verso il Sud per passeggeri e merci). Esso ha una consistenza di 4,4 miliardi di € e prevede interventi «integrati con i sistemi di trasporto regionali, che svolgono un ruolo primario nel sostenere la domanda di mobilità locale». In particolare, si persegue l'aumento della capacità e la riduzione dei tempi di percorrenza di diverse tratte. Riferendosi alla Napoli-Bari, si parla di una percorribilità in due ore, in luogo delle tre e mezzo attuali. In più, «ci sarà un aumento della capacità da 4 a 10 treni/ora sulle sezioni a doppio binario, e un adeguamento delle prestazioni per consentire il traffico dei treni merci fino a 750 metri di lunghezza». Per capire quanto sia importante questa innovazione, bisogna partire da un dato, citato nel sito della Multi Level Consulting: di norma i treni italiani sono lunghi 550 metri, contro i 750 degli altri paesi europei.  In virtù di ciò, «Le economie di scala si riducono per ampie percentuali, attorno al 30%»[34].Nel caso della Salerno-Reggio Calabria lo stesso discorso si pone a livelli iniziali, nel senso che oltre a perseguire una riduzione del tempo di percorrenza si consentirà il transito dei treni merci, in particolare in direzione del Porto di Gioia Tauro. Dunque, a un tempo si confermano il carattere ambizioso della Componente 1, concepito secondo un'ottica chiaramente intermodale, e l'arretratezza della situazione di partenza. L'Investimento 1.2 (Linee ad Alta Velocità nel Nord che collegano all'Europa) ha una certa consistenza: 8,57 miliardi di euro. Una cifra che dovrebbe consentire di «potenziare i servizi di trasporto su ferro, secondo una logica intermodale e stabilendo per le merci connessioni efficaci con il sistema dei porti esistenti». In sostanza, si vuole rafforzare il commercio transfrontaliero, assumendo sul serio il tema accennato all'inizio: i danni che l'export nostrano subisce a causa di un sistema dei trasporti inadeguato. Vi è poi un dato a monte: sul piano economico-produttivo, il Nord Italia – area del paese con il maggior numero di imprese – è già integrato con il resto d’Europa; dunque, rafforzare i collegamenti risulta oltremodo necessario.  Facendo un esempio, relativo all'Investimento in questione e alle sue conseguenze: al completamento del progetto Liguria-Alpi si avranno «tempi di percorrenza (…) quasi dimezzati sia sulla tratta Genova-Milano che sulla tratta Genova-Torino». Inoltre, la capacità sarà aumentata da 10 a 24 treni/ora «sulle tratte soggette a quadruplicamento in prossimità del nodo di Milano (Rho-Parabiago e Pavia-Milano-Rogoredo)». E pure qui sarà possibile il transito di treni merci con una lunghezza superiore a 750 metri. Vi è poi il Finanziamento 1.3 (Connessioni Diagonali, entità 1,58 miliardi) che riguarda il centro-sud del paese e che mira a «ridurre i tempi di percorrenza per i passeggeri e di trasporto delle merci dall'Adriatico e dallo Ionio al Tirreno, attraverso il miglioramento della velocità, della frequenza e della capacità delle linee ferroviarie diagonali esistenti». Varie le tratte interessate: Roma-Pescara, Orte-Falconara, Taranto-Metaponto-Potenza-Battipaglia. In tutti i casi citati, si parla di «adeguamento delle prestazioni» per consentire il traffico merci (il che, di nuovo, legittima le nostre perplessità circa il raggiungimento degli obiettivi proposti dall'Ue). L'Investimento 1.6 (0,90 miliardi di euro) concerne il Potenziamento delle linee regionali. Per rafforzare le linee regionali si pensa alla loro integrazione con la rete ad Alta Velocità, soprattutto nel Sud. Ovviamente, si punta anche ad aumentare il numero dei passeggeri, nonché le velocità di percorrenza. Ciò, intervenendo sull'infrastruttura e acquistando nuovi treni. Con l'introduzione di appositi sistemi tecnologici, poi, si vogliono misurare le condizioni di sicurezza. Tutti propositi largamente condivisibili ma che forse, stante l'odierna situazione dei sistemi di trasporto regionali, ci sembra richiedano ben altri investimenti. Del resto, in un recente rapporto di Legambiente (Pendolaria 2024), ovviamente calibrato pure sugli obiettivi della sostenibilità, si parla della necessità di provvedere, di qui al 2030, a «nuovi finanziamenti pari a 500 milioni l'anno per rafforzare il servizio regionale con acquisto e revamping dei treni»[35]. Non privo di rilievo è l'Investimento 1.7: Potenziamento, elettrificazione e aumento della resilienza delle ferrovie del sud (consistenza: 2,40 miliardi di euro). Esso s'intreccia, tematicamente, con l'Investimento precedente, ma affronta altri nodi. Il suo punto di partenza è un problema serio: lo stato di molte linee ferroviarie del meridione, lontane dagli odierni criteri di qualità. E si articola in «interventi specifici per potenziare la rete ferroviaria in diversi punti critici del sud Italia (ad esempio, in Molise e Basilicata ecc.), per realizzare gli interventi di ultimo miglio ferroviario per le connessioni di porti (Taranto e Augusta) e aeroporti (Salerno, Olbia, Alghero, Trapani e Brindisi), per aumentare la competitività e la connettività del sistema logistico intermodale e per migliorare l'accessibilità ferroviaria di diverse aree urbane del Mezzogiorno». Anche in questo caso si parla di un'impresa rilievo, seppur non titanica. Le risorse messe a disposizione, pur non risolutive, potrebbero portare a interventi incisivi.

È giunto il momento di passare alla Componente 2 (Intermodalità e logistica integrata, consistenza complessiva: 0,63 miliardi di euro). Con essa si vuol rendere più competitivo, nonché maggiormente connesso con i traffici oceanici e inter-mediterranei, il nostro sistema portuale. Si mira poi a un aumento del numero dei passeggeri «e del volume delle merci (479 milioni di tonnellate nel 2019)»: un obiettivo strettamente connesso alla riduzione del traffico stradale, con tutti i problemi a esso connessi (emissioni di gas serra in primo luogo). A un obiettivo tipico del cosiddetto capitalismo green fa riferimento l'Investimento 1.1: Interventi per la sostenibilità dei Porti (Green Ports). Esso concerne il centro-nord, coinvolgendo nell'attuazione le 9 Autorità di Sistema Portuale in esso presenti[36]. Tra gli obiettivi perseguiti, vi sono la riduzione dei consumi energetici della struttura e delle attività portuali, nonché la preservazione del patrimonio naturalistico e della biodiversità nelle aree di riferimento del porto. L'elemento di maggior interesse è che, rispetto alle sue conseguenze, si entra nel merito più che in altri luoghi del Pnrr. Infatti, si fa esplicito riferimento a una riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030. Dal canto suo, la Componente 2 mira anche alla digitalizzazione dei sistemi logistici, quelli aeroportuali inclusi. Il punto è che «le infrastrutture logistiche» vanno concepite «come un unicum di nodi e reti, adeguatamente interconnesse», sì da consentire «una movimentazione dei carichi quanto più possibile fluida e priva di “colli di bottiglia”». Ciò è possibile solo se il sistema risulta digitalizzato. Solo allora «la catena di trasporto tra aeroporti, porti marittimi, dry ports» può essere industrializzata. A tal fine è necessario «portare banda larga e 5g nei principali nodi della catena logistica». La componente che stiamo illustrando è dunque fortemente connessa con la Missione Digitalizzazione M1C2 (Digitalizzazione, Innovazione e Competitività nel Sistema Produttivo). Tra gli investimenti previsti vi è il 2.1 (Digitalizzazione della catena logistica), che rimanda a diversi scopi. Tra questi, la riduzione della burocrazia nelle procedure, nelle quali sin troppo pesano la documentazione cartacea e la riduzione dei tempi di attesa per il carico e lo scarico delle merci, nel pieno allineamento con i parametri degli altri paesi europei. Non solo, sarà realizzato un sistema digitale «interoperabile tra attori pubblici e privati per il trasporto merci e la logistica». E verrà favorita la transizione digitale delle imprese del settore. Insomma, come in altri luoghi del Pnrr, non solo si tende all'ammodernamento del sistema produttivo italiano ma, nei limiti del possibile, ci si fa carico degli elementi di arretratezza del panorama imprenditoriale nostrano.



Note

[2]Come, ad esempio, quello delle tecnologie satellitari, così importanti anzitutto in ambito militare. Nel testo del Pnrr si riconosce l’utilità economica di queste tecnologie, che possono aiutare a prevedere per tempo gli imprevisti climatici e a sviluppare nuove attività di business, ma non si accenna mai a quei controversi utilizzi militari o civili (nel senso del controllo della popolazione) che se ne potrebbero fare.

[3]Ibidem, p. 88.

[4] A titolo d’esempio: «processori e moduli di memoria, componenti per il controllo e l'elaborazione dei dati, componenti di trasmissione e ricezione per la trasmissione di dati in rete (espansione della banda larga in fibra ottica) o fuori rete (ricezione di telefoni cellulari), nonché componenti per l'autodiagnosi, la difesa dagli attacchi, l'intelligenza artificiale (AI) e anche hardware HPC (…). Senza una fornitura completa della microelettronica richiesta, i componenti non dispongono della necessaria base tecnica hardware». In Darp (Deutscheraufbau und resilienzplan), p. 331 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).

[6] Già nella prima parte di questo lavoro avevamo detto che «Nel ventennio 1999-2019 gli investimenti totali in Italia sono cresciuti del 66 per cento a fronte del 118 per cento nella zona euro». In «PNRR #NextGenerationItalia, p. 3».

[7] Lavoro nero e grigio, contratti precari in generale, operazioni lavorative non pagate, operazioni lavorative esterne alla mansione, tempo extra non pagato e via dicendo.

[8]PNRR #NextGenerationItalia, p. 80. Tale disposizione rientra nel corpus normativo delle «leggi annuali per il mercato e la concorrenza», previste dalla L. 99/2009 ed effettivamente promulgate solo a partire dal 2017 (L. 124/2017).

[9]PRTR (Plan de Recuperación, Transformación y Resiliencia), p. 63. Traduzione effettuata tramite applicazione informatica. Il citato rapporto del 2018 è il seguente: «International Telecommunication Union, Katz, Callorda».

[10]PRTR (Plan de Recuperación, Transformación y Resiliencia), Componente 16, p. 3.

[11]Ci si riferisce con la parola «flusso» allo svolgersi del processo lavorativo e, con «teso», all’assenza di sprechi di tempo, errori, guasti o inefficienze: «L’obiettivo della produzione a flusso continuo di unità discrete di prodotto è di fatto quello di realizzare una situazione in cui i materiali continuano a muoversi ininterrottamente, in modo analogo a quanto avviene negli impianti di processo». In E. Maraschi, Material Handling. Immagazzinamento e trasporti interni, Consulman, Torino 2011, p. 49”. Secondo le previsioni dei governanti spagnoli, «entro il 2035, con un investimento continuo nell’Intelligenza artificiale, la produttività del lavoro potrebbe aumentare di un 11% (rispetto a uno scenario senza investimenti) e il tasso di crescita annuale potrebbe essere del 2,5%, anziché dell’1,7% previsto senza investimenti». In PRTR (Plan de Recuperación, Transformación y Resiliencia), Componente 16, pp. 6 e 7.

[12]D. Fontana, Digitalizzazione industriale. Un'inchiesta sulle condizioni di lavoro e salute, FrancoAngeli, Milano 2021, p. 186.

[13]Ibidem.

[14]Ivi, p. 184.

[15] In particolare, ci preoccupano le seguenti: «Dispositivi per l'interazione uomo macchina (…); banchi e postazioni di lavoro dotati di soluzioni ergonomiche (…); sistemi per il sollevamento/traslazione di parti pesanti o oggetti esposti ad alte temperature (…); dispositivi wearable, apparecchiature di comunicazione tra operatore/operatori e sistema produttivo, dispositivi di realtà aumentata e virtual reality; interfacce uomo-macchina (HMI) intelligenti (…)» (L. 232/2016, Allegato “A”).

[16] Principali riferimenti normativi: D.M. 11 Maggio 2011; D.M. 14 Febbraio 2014; D.L. 115/2022.

[17] Legge istitutiva: L. 394/1981.

[18] D.L. 59/2021, art. 1, c. 13, lett. «f», nn. 2 e 3.

[19] «Il funzionamento di questa piattaforma europea comune di dati dipenderà dalla capacità della Ue di investire in tecnologie e infrastrutture di nuova generazione (Big Data analytics, machine learning), come pure nelle competenze digitali relazionate coi dati». In PRTR (Plan de Recuperación, Transformación y Resiliencia), Componente 12, p. 22.

[20] Si veda, ad esempio, il sito datarooms.

[21] Basti pensare che il Pnrr tedesco orchestra un intero settore amministrativo deputato al controllo e allo sviluppo dell’economia dei dati, alla cui testa troviamo il German National Research Data Infrastructure (NFDI), ma che si declina all’interno di ogni Ministero federale con laboratori di dati interni.

[22]Darp (Deutscheraufbau und resilienzplan), p. 340 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).

[23] Ivi, p. 342.

[24] Ivi, p. 343.

[25]Commissione Europea, L'UE aggiudica un appalto per JUPITER ExascaleSupercomputer per soluzioni pionieristiche per accelerare lo sviluppo di farmaci, la risposta alle emergenze e l'azione per il clima. Comunicato stampa, 3 Ottobre 2023.

[26]Protocollo d’intesa Italia-Francia ‘High Performance Computing’. Vogliamo denunciare l’impegno dell’azienda bellica Leonardo nel progetto.

[27]Pnrr (Plan National de Relance et de Résilience), p. 356 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).

[28]Ivi, p. 351 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).

[29] Per un approfondimento si veda E. Gentili ‒ F. Giusti, Artificial Intelligence Act, approvato il 13 marzo 2024, https://cub.it/artificial-intelligence-act-approvato-il-13-marzo-2024/.

[30] Redazione Corriere della Sera, Economia, Infrastrutture, il ritardo dell’Italia costa al commercio 77 miliardi all’anno, «ilCorrieredellaSera», 16 dicembre 2022.

[31] F. Adinolfi – R. Fargione – G. Peleggi – D. Vivani, Logistica e Competitività. Il gap logistico dell'Italia tra guerra e pandemia, Centro Studi Divulga, 10 Gennaio 2023.

[32] Introduzione a Divulga.

[33] In relazione al trasporto merci su gomma circolano diverse percentuali, ma tutte si attestano al di sopra dell'80%. Il recente libro verde di Aspi (Autostrade per l'Italia) e Sole24Ore fa riferimento a un dato del 2019 (84,4%), che si ritiene ancora valido. Il già citato rapporto di Divulga indica una percentuale ancor più alta: 87,7%. Si vedano, dunque: M. Frontera, Trasporto merci, la prevalenza della gomma è un fatto (ed è difficile da modificare), «ilSole24Ore», 7 Marzo 2024; F. Adinolfi – R. Fargione – C. Riccio – D. Vivani – Y. Vecchio, Infrastrutture, intermodalità e innovazione.

[34] Ciò perché in Italia si preferisce il trasporto su gomma rispetto ai treni merci. La citazione è tratta dal sito www.multilevelconsulting.eu. La Multi Level Consulting si descrive come «una giovane e dinamica azienda logistica e di direzione a più livelli, nata nel 2011 (…) e maturata dalle sempre più incalzanti e continuative richieste di un mercato in atipica evoluzione».

[35] L. Martinelli, Treni regionali vecchi e sempre di meno, soprattutto al sud, «il manifesto», 15 Febbraio 2024.

[36] Così il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti definisce le autorità di sistema portuale: «L'autorità di sistema portuale è un ente pubblico di personalità giuridica avente, tra gli scopi istituzionali, la gestione e l'organizzazione di beni e servizi nel rispettivo ambito portuale. Il 15 settembre 2016 è entrato in vigore il decreto legislativo n. 169 del 2016 (GU 31 agosto 2016), di riordino delle Autorità portuali, che vede la creazione di 15 nuove Autorità di sistema portuale (AdSP) in luogo delle attuali. Il nuovo sistema di governance prevede che i 58 porti di rilievo nazionale saranno coordinati da 15 Autorità di sistema portuale, cui viene affidato un ruolo strategico di indirizzo, programmazione e coordinamento del sistema dei porti della propria area. Le Regioni possono chiedere l'inserimento nelle Autorità di Sistema di ulteriori porti di rilevanza regionale. Per garantire la coerenza con la strategia nazionale si prevede l'istituzione di una Conferenza nazionale di coordinamento delle AdSP». Consulta i dati.


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Emiliano Gentili è docente alle scuole medie. Ricercatore politico-sociale (e attivista), esperto di musica e disabilità. I suoi studi attuali si concentrano principalmente attorno al tema dell’evoluzione contemporanea dell’organizzazione del lavoro, nel tentativo di individuare problematiche trasversali ai diversi settori lavorativi.


Federico Giusti è operaio e delegato sindacale della cub. Collabora a varie riviste e blog su tematiche sociali, del lavoro e di carattere internazionale. Corrispondente di RadioGrad.


Stefano Macera svolge la professione di guida turistica. Collabora con varie riviste, applicandosi a 2 campi di ricerca. In ambito socio-politico, si occupa delle nuove forme assunte dal conflitto capitale-lavoro. In ambito socio-culturale, si interessa alle produzioni artistiche e cinematografiche estranee alle logiche di mercato.

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