Armarsi per salvare il capitalismo finanziario!
- Maurizio Lazzarato
- 6 giorni fa
- Tempo di lettura: 17 min
La lezione di Rosa Luxemburg, Kalecki, Baran e Sweezy

Dopo «Perché la guerra?», «Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale» e «I vicoli ciechi del pensiero critico occidentale» (I) e (II), un nuovo articolo di Maurizio Lazzarato per inquadrare i fenomeni politici contemporanei e capire la natura del riarmo europeo e della guerra.
Secondo l'autore, è in corso, dal punto di vista capitalistico, una lotta feroce tra Trump e le élite sconfitte nelle elezioni presidenziali statunitensi, che hanno ancora forti presenze nei centri di potere, soprattuto in Europa.
Così, la corsa agli armamenti non assume la forma di «keynesismo militare» perché ha una logica differente: garantire surplus finanziari ai fondi di investimento, non adeguatamente rappresentati dal governo del tycoon. Una guerra che è scontro politico, tra diversi fattori soggettivi capitalistici.
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Per quanto grande sia una Nazione, se ama la guerra perirà; per quanto pacifico sia il mondo, se dimentica la guerra sarà in pericolo
dal Wu Zi, antico trattato militare cinese
Quando diciamo sistema di guerra intendiamo un sistema quale è appunto quello vigente che assume la guerra anche solo programmata e non combattuta come fondamento e culmine dell’ordine politico, cioè del rapporto tra i popoli e tra gli uomini. Un sistema dove la guerra non è un evento, ma una istituzione, non è una crisi ma una funzione, non è una rottura ma un cardine del sistema, una guerra sempre deprecata e esorcizzata, ma mai abbandonata come possibilità reale
Claudio Napoleoni, 1986
L’avvento di Trump è apocalittico nel senso letterale del termine: getta via ciò che copre, toglie il velo, disvela. L’agitazione convulsiva del tycoon ha il grande merito di mostrare la natura del capitalismo, il rapporto tra guerra, politica e profitto, tra capitale e Stato – di solito occultato dai meccanismi democratici, dai diritti dell’uomo, dai valori e dalla missione della civilizzazione occidentale.
La stessa ipocrisia è al centro della narrazione costruita per legittimare gli 840 miliardi di euro per il riarmo che l'Unione Europea impone, attraverso il ricorso allo stato di eccezione agli Stati membri. Armarsi non significa, come dice Draghi, difendere «i valori cha hanno fondato la nostra società europea» e hanno «garantito per decenni, ai suoi cittadini la pace, la solidarietà e con l’alleato americano, la sicurezza, la sovranità e l’indipendenza», ma significa salvare il capitalismo finanziario.
Non c’è neanche bisogno di fare grandi discorsi e documentate analisi per mascherare la pochezza di queste narrazioni. È bastato un altro massacro di 400 civili palestinesi per far emergere la verità dell’indecente chiacchiericcio sull’unicità e la supremazia morale e culturale dell’Occidente.
Trump non è un pacifista, si limita a riconosce la sconfitta strategica della Nato nella guerra in Ucraina, mentre le élites europee rifiutano l’evidenza. Per queste ultime, «pace» significa tornare allo stato catastrofico in cui hanno ridotto le loro nazioni. La guerra deve continuare perché per loro, come per i democratici e il deep state Usa, è il mezzo per uscire dalla crisi cominciata nel 2008, in un processo simile alla grande crisi del 1929. Trump pensa di risolvere i problemi privilegiando l’economia senza rinnegare la violenza, il ricatto, l’intimidazione, la guerra. È molto probabile che né gli uni né gli altri riescano nel loro intento perché hanno un problema enorme: il capitalismo, nella sua forma finanziaria, è in profonda crisi e proprio dal suo centro, gli USA, arrivano segnali «drammatici» per le élites che ci governano. I capitali, invece di convergere verso gli Stati Uniti, fuggono verso l’Europa. Grande novità, sintomo di grandi di rotture imprevedibili che rischiano di essere catastrofiche.
Il capitale finanziario non produce merci ma bolle – che si gonfiano negli Usa e scoppiano tutte a danno del resto del mondo – vere e proprie armi di distruzione di massa. La finanza americana succhia valore (capitali) da tutto il mondo, lo investe in una bolla, che presto o tardi scoppierà, obbligando le popolazioni del pianeta all’austerità, ai sacrifici per ripagare i suoi fallimenti: prima la bolla di internet, poi la bolla dei subprime che ha causato una delle più grandi crisi finanziarie della storia del capitalismo, aprendo le porte alla guerra. Hanno tentato di far gonfiare anche la bolla del capitalismo green – che non è mai decollata – e quella, incomparabilmente più grande, delle imprese high tech. Per tamponare le falle dei disastro dei debiti privati scaricati sui debiti pubblici, la Federal Reserve e la Banca centrale europea hanno inondato i mercati di liquidità, che invece di «sgocciolare» nell’economia reale, è servita proprio ad alimentare la bolla high tech e lo sviluppo dei fondi di investimento, come i cosiddetti «Big Three»: Vanguard, BlackRock e State Street – trio che rappresenta il più grande monopolio della storia del capitalismo, gestendo 50.000 miliardi di dollari, azionista di riferimento in tutte le più importanti imprese quotate in borsa. Ora anche questa bolla si sta sgonfiando.
Neanche dimezzando il valore di capitalizzazione del listino della Borsa di Wall Street ci avvicineremmo al valore reale, infinitamente minore, delle imprese high tech, i cui titoli sono stati gonfiati proprio dai fondi per mantenere alti i dividendi per i loro «risparmiatori» – i democratici, in realtà, contavano anche di sostituire il welfare con la finanza per tutti, come prima avevano delirato sulla casa per tutti gli americani.
Ora la pacchia volge al termine. La bolla ha raggiunto il suo limite e i valori scendono con il rischio concreto di un crollo. Se aggiungiamo l’incertezza che le politiche di Trump, rappresentante di una finanza che non è quella dei fondi di investimento, stanno introducendo in un sistema che i fondi stessi erano riusciti a stabilizzare con il concorso dei democratici, possiamo comprendere le paure dei «mercati». Il capitalismo occidentale ha bisogno di un’altra bolla perché funziona come riproduzione del sempre uguale. Il tentativo trumpiano di ricostruire l’industria manifatturiera negli Usa è destinato a un insuccesso sicuro.
L’identità perfetta di «produzione» e distruzione
L’Europa, che spende molto più della Russia in armi – sono attribuite alla Nato il 55% delle spese in armamenti a livello mondiale, alla Russia «solo» il 5% – ha deciso un grande piano di investimenti di 800 miliardi di euro per aumentare ancora la spesa militare.
In Europa sono ancora attivi reti politiche ed economiche e centri di potere che fanno riferimento alla strategia rappresentata da Biden, uscita sconfitta dall’ultima elezione presidenziale. Per questo motivo l'Europa è lo spazio giusto, affondando sulla guerra, per costruire una bolla fondata sugli armamenti che compensi le crescenti difficoltà dei «mercati» statunitensi. Da dicembre, i titoli delle imprese che producono armi sono già oggetto di speculazione, passando di aumento in aumento e funzionando da rifugio sicuro per i capitali che reputano la situazione statunitense troppo rischiosa. Al centro dell’operazione, i fondi di investimento, tra i maggiori azionisti delle principali compagnie di armamenti. Essi detengono quote significative in Boeing, Lockheed Martin e RTX ed influenzano la gestione e le strategie di queste società. Anche in Europa sono presenti nel complesso militare- industriale: il titolo di Rheinmetall – società tedesca che produce i Leopard e che è il più grande produttore di munizioni d'Europa – è aumentato del 100% negli ultimi mesi, superando, in termini di capitalizzazione, la principale casa automobilistica del continente, Volkswagen, ultimo segno del crescente appetito degli investitori per i titoli legati alla difesa. Ovviamente, Rheinmetall ha come azionisti principali Blackrock, Société Générale, Vanguard ecc.
L’Unione europea vuole raccogliere e convogliare il risparmio continentale verso gli armamenti, con delle conseguenze catastrofiche per il proletariato e una ulteriore divisione dell’Unione. La corsa agli armamenti non potrà funzionare da «keynesismo di guerra» perché gli investimenti in armi intervengono in una economia finanziarizzata e non più industriale. Costruita con soldi pubblici, darà profitti a una piccola minoranza di privati, mentre peggiorerà le condizioni della stragrande maggioranza della popolazione.
La bolla degli armamenti non potrà che produrre gli stessi effetti della bolla americana delle imprese high tech. Dopo il 2008, le somme di denaro catturate per essere investite nella bolla delle tecnologie, non sono mai «sgocciolate» verso il proletariato statunitense. Hanno invece prodotto una sempre più intensa deindustrializzazione, posti di lavoro dequalificati e precari, bassi salari, una povertà dilagante, la distruzione del poco di Welfare ereditato dal New Deal e la conseguente privatizzazione di tutti i servizi. È ciò che, senza ombra di dubbio, la bolla finanziaria produrrà in Europa. La finanziarizzazione porterà non solo alla completa distruzione dello Stato sociale e alle definitive privatizzazioni dei servizi, ma anche all' ulteriore frammentazione politica di ciò che resta dell’Unione Europea. I debiti, contratti da ogni Stato separatamente, dovranno essere ripagati e produrranno delle enormi differenze tra gli Stati europei nella capacità di onorarli.
Il vero pericolo non è la Russia ma la Germania. Il riarmo da 500 miliardi – con ulteriori 500 miliardi pronti per le infrastrutture – costituisce un passo determinante nella costruzione della bolla. L’ultima volta che il paese teutonico si è riarmato ha combinato disastri mondiali – pensate ai 25 milioni di morti solo nella Russia sovietica, alla soluzione finale ecc. Da qui la celebre affermazione di François Mauriac: «amo talmente la Germania che ne preferisco due». Aspettando gli ulteriori sviluppi del nazionalismo e dell’estrema destra – già al 21% – che il «Deutschland ist zurück» produrrà inevitabilmente, essa imporrà la solita egemonia imperialista sugli altri paesi Europei. I governanti tedeschi hanno rapidamente abbandonato il credo ordo-liberale, che aveva un fondamento politico, non economico, e hanno abbracciato fino in fondo la finanziarizzazione anglo-americana, ponendosi lo stesso obiettivo: comandare e sfruttare l’Europa. Il Financial Times racconta di una decisione presa da Merz, uomo di Blackrock, e dal ministro del tesoro Kukies, uomo di Goldman Sachs, con l’avvallo dei partiti di «sinistra» SPD e Die Linke, che, come i loro predecessori nel 1914, si assumono un’altra volta la responsabilità di carneficine future.
Solo il piano tedesco sembra avere qualche credibilità nel progetto complessivo europeo. Per quanto riguarda gli altri Stati, vedremo chi avrà il coraggio di tagliare ancora più radicalmente pensioni, sanità, istruzione, ecc, per una minaccia inventata.
Se il precedente imperialismo interno tedesco era fondato sull’austerità, sul mercantilismo delle esportazioni, sul blocco dei salari e sulla distruzione dello Stato sociale, il prossimo sarà fondato sulla gestione di un’economia di guerra europea, gerarchizzata sui differenziali dei tassi di interesse da pagare per rimborsare il debito contratto.
I paesi già pesantemente indebitati – Italia, Francia, ecc. – dovranno trovare gli acquirenti dei titoli emessi per pagare il debito in «un mercato» europeo sempre più concorrenziale. Agli investitori converrà comprare titoli tedeschi – più precisamente quelli emessi dalle imprese di armamenti su cui giocherà la speculazione al rialzo –, e titoli del debito pubblico europeo, sicuramente più sicuri e redditizi di quelli di paesi super indebitati. Il famoso «spread» giocherà ancora un suo ruolo come nel 2011. I miliardi necessari a pagare i mercati non saranno disponibili per lo Stato sociale. L’obiettivo strategico di tutti i governi e di tutte le oligarchie da cinquanta anni a questa parte, ossia la distruzione e la privatizzazione della spesa sociale per la riproduzione del proletariato, sarà raggiunto. Ventisette egoismi nazionali si batteranno tra loro con nessuna posta in gioco, perché la storia – che, secondo alcuni, «siamo gli unici a sapere cosa sia» – ci ha messi un angolo, inutili e irrilevanti dopo secoli di colonialismo, guerre e genocidi.
La corsa agli armamenti è accompagnata da una martellante giustificazione della guerra contro tutti – cioè Russia, Cina, Corea del Nord, Iran, Brics – che non può essere abbandonata e che rischia di realizzarsi perché questo delirante quantitativo di armi deve comunque «essere consumato».
La lezione di Rosa Luxemburg, Kalecki, Baran e Sweezy
Solo gli sprovveduti possono dirsi stupefatti da quello che sta succedendo. Tutto si sta invece ripetendo in un contesto differente, un capitalismo finanziario e non più industriale come nel XX secolo.
La guerra e gli armamenti sono al centro dell’economia e della politica da quando il capitalismo è diventato imperialista. E sono anche il cuore del processo di riproduzione del capitale e del proletariato, in feroce concorrenza tra loro. Ricostruiamo rapidamente il quadro teorico fornito da Rosa Luxemburg, Kalecki, Baran e Sweezy, saldamente piantato, a differenza delle inutili teorie critiche contemporanee, sulle categorie di imperialismo, monopolio e guerra, che ci offre uno specchio della situazione contemporanea.
Partiamo dalla crisi del 1929, che affonda le sue radici nella Prima guerra mondiale e nel tentativo di uscirne attraverso l’attivazione della spesa pubblica tramite l’intervento dello Stato. Secondo Baran e Sweezy (d’ora in poi B&S) negli anni Trenta il problema era costituito dal volume della spesa pubblica, incapace di contrastare le forze depressive dell’economia privata monopolistica:
Considerato come operazione di salvataggio dell’economia degli Usa nel suo complesso, il New Deal fu quindi un palese fallimento. Anche Galbraith, il profeta della prosperità senza commesse belliche, ha riconosciuto che nel decennio 1930 - 1940, «la grande crisi» non terminava mai.
Se ne uscirà solo con la Seconda guerra mondiale: «Poi sopraggiunse la guerra, e con la guerra la salvezza [...] la spesa militare fece ciò che la spesa sociale non era riuscita a compiere» perché la spesa pubblica passò da 17,5 a 103,1 miliardi di dollari.
B&S dimostrano che la spesa pubblica non riuscì a portare agli stessi risultati di quella militare perché fu limitata da un problema politico che è ancora il nostro. Perché il New Deal, e la conseguente spesa pubblica, non riuscirono a raggiungere un obiettivo che «era a portata di mano, come poi dimostrò la guerra»? Perché sulla natura e sulla composizione della spesa pubblica, cioè della riproduzione del sistema e del proletariato, si scatenò la lotta di classe.
Data la struttura di potere del capitalismo monopolistico degli Usa, l’aumento di spesa civile aveva quasi raggiunto i suoi limiti estremi. Le forze che si opponevano alla ulteriore espansione erano troppo potenti per essere vinte.
Le spese sociali entravano in concorrenza o arrecavano danno alle imprese e alle oligarchie, sottraendo loro potere economico e politico.
Poiché gli interessi privati controllano il potere politico i limiti della spesa pubblica sono rigidamente fissati senza alcuna preoccupazione dei bisogni sociali, per quanto possano essere vergognosamente evidenti.
E questi limiti valevano anche per spese, sanità e istruzione, che all’epoca, a differenza di oggi, non erano direttamente in concorrenza con gli interessi privati delle oligarchie.
La corsa agli armamenti permette l’aumento della spesa pubblica da parte dello Stato, senza che questa si trasformi in aumento dei salari e del consumo del proletariato. Quindi, come investire denaro pubblico, per evitare la depressione economica che il monopolio porta con sé, evitando il rafforzamento del proletariato? Spendendo «per armamenti, per più armamenti, per sempre più armamenti».
Michael Kalecki, lavorando sullo stesso periodo, ma concentrandosi sulla Germania nazista, riesce a delucidare altri aspetti del problema. Contro ogni economicismo – che minaccia sempre la comprensione del capitalismo da parte delle teorie critiche, anche quelle marxiste –, egli mette in evidenza la natura politica del ciclo del capitale:
La disciplina nelle fabbriche e la stabilità politica sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti.
Il ciclo politico del capitale che ormai può essere garantito solo dall’intervento dello Stato, deve ricorrere alla spesa in armamenti e al fascismo. Anche per Kalecki, il problema politico si manifesta nella «direzione e nei fini della spesa pubblica». L’avversione alla «sovvenzione dei consumi di massa» è motivata dalla distruzione che determina «delle basi dell’etica capitalista “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a meno che tu non viva dei redditi del capitale)».
Come fare perché la spesa pubblica non tramuti in aumento di occupazione, consumo e salari e quindi in forza politica del proletariato? Le oligarchie risolvono l’inconveniente col fascismo. Così facendo, la macchina statale è sotto controllo del grande capitale e dei vertici fascisti e «la concentrazione delle spese statali negli armamenti», mentre la «disciplina di fabbrica e la stabilità politica è assicurata dallo scioglimento dei sindacati e dai campi di concentramento. La pressione politica sostituisce qui la pressione economica della disoccupazione».
Da qui l’immenso successo dei nazisti presso la maggior parte dei liberali, sia inglesi che americani.
La guerra e la spesa per armamenti sono centrali per la politica americana anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, perché è inconcepibile una struttura politica senza una forza armata, senza cioè un monopolio del suo esercizio. Il volume dell’apparato militare di una nazione dipende dalla posizione occupata nella gerarchia mondiale dello sfruttamento.
Le nazioni più importanti avranno sempre bisogno del massimo e l’entità del loro fabbisogno (di forza armata) varierà a seconda che sia o no in corso tra loro una lotta vivace per il primo posto.
Le spese militari continuano dunque a crescere nel centro dell’imperialismo:
Naturalmente la maggior parte dell’espansione della spesa pubblica ha avuto luogo nel settore militare che è passata da meno dell’1 a più del 10% del PNL, e che rappresentato circa i due terzi dell’aumento complessivo di spesa pubblica a partire dal 1920. Questo massiccio assorbimento del surplus in preparativi militari è stato il fatto centrale della storia americana del dopoguerra.
Kalecki fa notare che nel 1966 «oltre la metà dell’accrescimento del reddito nazionale si risolve nell’accrescimento delle spese militari».
Ora, nel dopoguerra, il capitalismo non può più contare sul fascismo per controllare la spesa sociale. L’economista polacco, «allievo» di Rosa Luxemburg, fa notare:
Una della funzioni fondamentali dell’hitlerismo fu di vincere l’avversione del grande capitale alla politica anticongiunturale su larga scala. La grande borghesia aveva dato il suo assenso all’abbandono del laisser-faire e all’accrescimento radicale del ruolo dello stato nell’economia nazionale, alla condizione che l’apparato statale si trovasse sotto controllo diretto della sua alleanza con il vertice fascista
e che la destinazione e il contenuto della spesa pubblica fosse determinata dagli armamenti. Nei trenta gloriosi, dovendo abbandonare il fascismo che assicurava la direzione della spesa pubblica, gli Stati e i capitalisti sono costretti a un compromesso politico. Rapporti di forza determinati dal secolo delle rivoluzioni, obbligano lo Stato e i capitalisti a concessioni che sono comunque compatibili con i profitti che raggiungono tassi di crescita prima sconosciuti. Ma anche questo compromesso è di troppo perché, malgrado i grandi profitti, «i lavoratori diventano in tale situazione “recalcitranti” e i “capitani di industria” diventano ansiosi di “dar loro una lezione”».
La contro-rivoluzione, dispiegatasi a partire dalla fine degli anni Sessanta, avrà al suo centro la distruzione della spesa sociale e la feroce volontà di orientare la spesa pubblica verso i soli e esclusivi interessi delle oligarchie. Il problema, a partire dalla Repubblica di Weimar, non è mai stato quello di un generico intervento dello Stato in economia: la questione è di come lo stesso Stato fosse stato investito dalla lotta di classe e costretto a cedere alle richieste delle lotte operaie e proletarie.
Nei tempi di «pace» della guerra fredda, senza l’ausilio del fascismo, l’esplosione delle spese militari necessita di una legittimazione, assicurata da una propaganda capace di evocare continuamente la minaccia di una guerra incombente, di un nemico alle porte pronto a distruggere i valori occidentali: «I creatori ufficiosi e ufficiali della pubblica opinione hanno pronta la risposta: gli Stati Uniti devono difendere il mondo libero dalla minaccia dell’aggressione sovietica (o cinese)».
Kalecki, per lo stesso periodo specifica: «I giornali, il cinema, le stazioni radiofoniche e televisive cha lavorano sotto l’egida della classe dominante, creano un’atmosfera che favorisce la militarizzazione dell’economia».
La spesa per armamenti non ha solo una funzione economica, ma anche di produzione di soggettività assoggettate. La guerra esaltando la subordinazione e il comando «contribuisce a creare una mentalità conservatrice».
Mentre la massiccia spesa pubblica per l’istruzione e il benessere tende a minare la posizione di privilegio dell’oligarchia, la spesa militare fa il contrario. La militarizzazione favorisce tutte le forze reazionarie (...) si determina un rispetto cieco per l’autorità; si insegna e si impone una condotta di conformismo e di sottomissione; e l’opinione contraria si considera come un fatto anti patriottico o addirittura un tradimento.
Il capitalismo produce un soggetto che, proprio per la forma politica del suo ciclo, è seminatore di morte e distruzione, piuttosto che un promotore del progresso. Ce lo dice Richard B. Russel, senatore conservatore del Sud degli USA già negli anni Sessanta, citato da B&S:
C’è qualcosa nei preparativi di distruzione che induce gli uomini a spendere denaro più spensieratamente che se si trattasse di scopi costruttivi. Perché succede questo non lo so; ma da trent’anni circa che sono al Senato ho capito che nell’acquistare armi per uccidere, distruggere, cancellare città dalla faccia della terra ed eliminare grandi sistemi di trasporto c’è qualcosa che spinge gli uomini a non calcolare la spesa con la stessa attenzione impiegata quando si tratta di pensare ad alloggio decenti e a cure sanitarie per gli esseri umani.
La riproduzione del capitale e del proletariato si è politicizzata grazie alle rivoluzioni del XX secolo. La lotta di classe investendo anche questa realtà ha fatto emergere une opposizione radicale tra la riproduzione della vita e la riproduzione della sua distruzione che, dagli anni Trenta, non ha fatto altro che approfondirsi.
Come funziona il capitalismo?
La guerra e gli armamenti, esclusi praticamente dall’insieme delle teorie critiche del capitalismo, funzionano da discriminanti nell’analisi del capitale e dello Stato.
È molto difficile definire il capitalismo semplicemente come «modo di produzione», come faceva Marx: economia, guerra, politica, Stato, tecnologia sono, infatti, elementi strettamente intrecciati e inseparabili. La «critica dell’economia» non basta per produrre una teoria rivoluzionaria. Già con l’avvento dell’imperialismo, un cambiamento radicale nel funzionamento del capitalismo e dello Stato era stato introdotto, reso evidente in maniera cristallina da Rosa Luxemburg. Secondo quest'ultima, l'accumulazione ha due aspetti: il primo «riguarda la produzione del plus-valore – nella fabbrica, nella miniera, nello sfruttamento agricolo – e la circolazione delle merci nel mercato. Considerata da questo punto di vista, l’accumulazione è un processo economico la cui fase più importante è una transazione tra il capitalista e il salariato». Il secondo aspetto ha il mondo intero come teatro, una dimensione mondiale irriducibile al concetto di «mercato» e alle sue leggi economiche.
Qui i metodi impiegati sono la politica coloniale, il sistema dei prestiti internazionali, la politica delle sfere di interesse, la guerra. La violenza, la truffa, l’oppressione, la predazione si sviluppano apertamente, senza maschera, ed è difficile riconoscervi le leggi rigorose del processo economico nell’intrecciarsi di violenze economiche e brutalità politiche.
La guerra non è la continuazione della politica ma coesiste, da sempre, con essa, e questo è palese se guardiamo al funzionamento del mercato mondiale. Qui, dove guerra, truffa e predazione convivono con l’economia, la legge del valore non ha mai veramente funzionato. Il mercato mondiale sembra molto differente da quello tratteggiato da Marx. Le sue considerazioni sembrano non valere più. O meglio, vanno specificate: solo nel mercato mondiale il denaro e il lavoro diventerebbero adeguati al loro concetto, portando a compimento la loro astrazione e la loro universalità. Al contrario, ciò che possiamo constatare è che il denaro, la forma più astratta e universale del capitale, è sempre la moneta di uno Stato. Il dollaro è la moneta degli Stati uniti e regna solo in quanto tale. L’astrazione della moneta e la sua universalità (e i suoi automatismi) sono appropriate da una «forza soggettiva» e vengono gestite secondo una strategia che non è contenuta nella moneta.
Anche la finanza, come la tecnologia, sembra essere oggetto di appropriazione da parte di forze soggettive «nazionali», molto poco universali. Nel mercato mondiale anche il lavoro astratto non trionfa in quanto tale, ma incontrando invece altre tipologie di lavoro, radicalmente diverse (lavoro servile, lavoro schiavistico ecc.) .
L’azione di Trump, lasciato cadere il velo ipocrita del capitalismo democratico, ci svela il segreto dell’economia: essa può funzionare solo a partire da una divisione internazionale della produzione e della riproduzione definite e imposte politicamente, cioè con l’uso della forza che implica anche la guerra.
La volontà di sfruttamento e di dominio, gestendo contemporaneamente rapporti politici, economici e militari, costruisce una totalità, che non può mai chiudersi su se stessa, ma resta sempre aperta, scissa da conflitti, guerre, predazioni. In questa totalità scissa convergono e si governano l’insieme dei rapporti di potere. Trump interviene su vari aspetti della vita politica e quotidiana statunitense nello stesso momento in cui vorrebbe imporre una nuova collocazione mondiale, sia politica che economica, agli USA. Agisce dal micro al macro: azione politica che i movimenti contemporanei non hanno proprio negli orizzonti dei pensieri.
La costruzione della bolla finanziaria, processo che possiamo seguire passo dopo passo, avviene allo stesso modo. Gli attori che concorrono alla sua produzione sono molteplici: l’Unione Europea, gli Stati che devono indebitarsi, la Banca europea, la Banca degli investimenti europei, i partiti politici, i media e l’opinione pubblica, i grandi fondi di investimento (tutti statunitensi) che organizzano il traghettamento di capitali da una borsa all’altra, le grandi imprese. La bolla economica e i suoi automatismi potranno funzionare solo quando lo scontro/cooperazione tra questi centri di potere avrà emesso il suo verdetto. L'ideologia sul «funzionamento automatico» di questo processo è da sfatare. Il «pilota automatico», soprattutto a livello finanziario, esiste e funziona solo dopo che è stato istituito politicamente: non c'era nei Trenta gloriosi perché si era deciso politicamente in tal senso; funziona dalla fine degli anni Settanta, per esplicita volontà politica.
La molteplicità di attori che si agita da mesi è tenuta insieme da una strategia. Ci sono due elementi soggettivi che intervengono in maniera fondamentale. Dal punto di vista capitalistico, è in corso una lotta feroce tra il «fattore soggettivo» Trump e il «fattore soggettivo» delle élite sconfitte nelle elezioni presidenziali, che hanno ancora forti presenze nei centri di potere negli Usa e in Europa.
Ma affinché il capitalismo funzioni, dobbiamo prendere in considerazione anche un fattore soggettivo proletario. Esso gioca un ruolo decisivo: o si farà il portatore passivo del nuovo processo di produzione/riproduzione del capitale o tenderà a rifiutarlo e a distruggerlo. Constatata l’incapacità del proletariato contemporaneo, il più debole, il più disorientato, il meno autonomo e indipendente della storia del capitalismo, la prima opzione sembra la più probabile. Ma se non riuscirà a opporre una sua strategia alle continue innovazioni strategiche del nemico, capace di rinnovarsi continuamente, cadremo dentro una asimmetria di rapporti di potere che ci riporterà ad una situazione antecedente alla rivoluzione francese, in un nuovo/già visto «ancien régime».
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Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato(2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024).
Per approfondire:
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