Su Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino di Pierpaolo Ascari
«Se l'impresa della civiltà è stata in gran parte intesa come un'impresa che nasce dalla crosta terrestre e si dirige verso l'alto, una delle lezioni più importanti di Fine di mondo è che ci allena a volgere lo sguardo verso il basso e verso l'interno dello snodo cruciale del persistente governo che l'America esercita sul giardino delle nostre anime».
Riprendiamo la recensione a Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino (MachinaLibro, 2024) di Pierpaolo Ascari pubblicata originariamente in inglese sul sito «Infrapolitical Reflections».
Il libro è disponibile sul sito machinalibro.com
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Nonostante l’obiettivo fosse quello di quello di una puntualizzazione metodologica, Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino di Pierpaolo Ascari, inizia con un consiglio inattuale: la minaccia dello sterminio atomico della vita umana può essere raccontata solamente attraverso l'ironia della cultura consumistica. Indubbiamente, ciò si adatta bene al tema in questione, dal momento che la modernizzazione americana è il focolaio di Hollywood e della bomba atomica, due poli del regime di una vita vicaria che si riflette nella famosa affermazione di Henry Adams secondo cui, nonostante tutto, la passione civilizzatrice dell'America è stata l'ottimismo generalizzato. E non sorprende che Stanley Kubrick, interrogato sulla tesi del Dottor Stranamore (1964), abbia sostenuto che l'unica forma possibile per raccontare la bomba dello sterminio totale fosse quella della black comedy (Ascari, pag. 11). Questo ottimismo autoreferenziale viene messo alla prova proprio da Ascari in Fine di mondo (2024), attraverso la costruzione di un immaginario apocalittico sotterraneo. Infatti, i giardini dei rifugi antiatomici svelano il vero arcano dell'americanismo moderno: un sotterfugio – ma anche il ben visibile comportamento della società civile – posizionato parallelamente all'ascesa del lavoro meccanizzato fordista. Naturalmente, oggi che il nostro addio al fordismo è divenuto senso comune, non è difficile comprendere come i resti di questa storia siano la schizofrenia e il terrore generale che, nel tessuto sociale, dà colore alla melodia dell'apocalittica americana. Il testo di Ascari è un’elaborazione superba di come queste tonalità si articolino e radichino storicamente, senza rinunciare a comprenderne le mutazioni (pseudo)teologiche che sono in corso nel presente.
In superficie, Fine di mondo di Ascari è un breve compendio delle risposte civili e tecniche alla distruzione atomica e volte alla sopravvivenza; ma, in profondità, è anche una storia dell'americanismo come progetto storico del lungo processo di addomesticazione civile, di enclosures e di resistenza per la sopravvivenza. Naturalmente, le sfumature sono importanti per cogliere la sottile ipotesi di lavoro di Ascari, poiché sappiamo che la modernità in generale (considerandone sia la contingenza che la contraddizione quali caratteristiche del suo emergere) è stata anche un processo di gnosi ottimizzata attraverso l'alienazione e le enclosures della proprietà privata, volte a stabilizzare il commercio e la crescita (il nomos). Ma per Ascari la specificità dei nomoi americani, letta attraverso le lenti del rifugio atomico, implica una microphysis; cioè una way of life validata attraverso premesse teologiche che sono articolate nell'organizzazione della deificatio soggettiva (Ascari, pag. 23). Ciò significa che l'apparato apocalittico che guida la filosofia americana della storia non è solo una realizzazione verso l'oggettivazione assoluta del mondo – anche se tale sforzo è necessario e propedeutico – ma, piuttosto, che il riparo e l'addomesticamento che l’esistenza umana si autoimpone si è naturalizzato come soglia delle condizioni di una vita umana finita. Il paradigma del rifugio come unità di sopravvivenza è una forma di autoregolazione della grazia che si trova ad essere coerente con il dispensazionalismo evangelico e l'elezione tecnica, come analizzati nel recente ed importante libro di Monica Ferrando [1].
Gli esempi concreti abbondano nel – breve ma densamente illustrato – libro di Ascari: dal fumetto della Protezione Civile ai dettagli della nascita dei manuali di montaggio «fai da te» (di cui si parla nel carteggio tra Adorno e Sohn-Rethel); da Hulk a Godzilla in un mondo post-atomico; dai discorsi sulla resilienza alla minaccia atomica di JFK, ad uno studio degli anni Cinquanta condotto all'Università di Princeton che rassicurava su come «i padri» potranno meglio conoscere i loro figli in condizioni di totale riparo, anche se ciò si traduce in una «etica della giungla» (Ascari, pag. 34). Sulla scia dell'innovativo The Imaginary War: Civil Defense and American Cold War Culture (1994) di Guy Oakes, ciò che si distilla nel puzzle della cultura pop di Ascari è il panorama della «guerra fredda», non come guerra non combattuta tra due potenze imperiali, ma, piuttosto, quale guerra totale che ha avuto luogo sotto la crosta terrestre (i topoi del rifugiato diventano, dunque, eloquenti) e nella selva dell'esistenza umana: come una gestione psichica della sfera civile. Infatti, la «guerra immaginaria» non è altro che la stazionarietà della vita sociale che non ha ancora cessato di esistere ai nostri giorni (Ascari, pag. 48-49).
Per Ascari ciò implica un'interiorizzazione del «sublime» nella reificazione del tessuto sociale, che non può essere disgiunta dalla soggettività lobotomizzata della crisi dell'«uomo sociale», che Gianni Carchia ha individuato come progetto del negazionismo romantico post-illuminista. Nei torbidi rifugi del self-made man incontriamo la liquidazione di tutto ciò che è vivente e la proiezione di una morte fittizia che si aggrappa alla «salvezza» nonostante la distruzione assoluta; perché, in fondo, chi sopravvive alla distruzione totale è lì solo per confermare la grandezza soteriologica del destino americano (Ascari, pag. 78-79). La profonda dimensione «Ubu» del potere politico-psichico americano mostra sicuramente questa convinzione, ben sedimentata di soggettività sacrificale. Chi non ricorda i gloriosi canti di resilienza e isolamento delle élite politiche americane durante l'apice della gestione della crisi da COVID19? Se non ha sorpreso nessuno che una grande maggioranza di americani abbia accettato le regole arbitrarie della pandemia (monetizzate quando necessario, va da sé), è perché la soggettività americana si è adattata da tempo alla continua separazione tra rifugiato e domestico. Dopo aver letto Ascari, infatti, viene da chiedersi se le politiche di emergenza non siano state solo un altro episodio della storia del rifugiarsi in America, ormai espansa su scala planetaria.
C'è un'altra idiosincrasia dell'apocalittica americana di cui bisogna rendere conto. E questa viene introdotta nel finale di Fine di mondo (2024), quando Ascari cita Ernesto De Martino a proposito della guerra nucleare; in particolare, quando si tratta di annientamento atomico non c'è più il processo simbolico mitico-ritualistico della reintegrazione, ma piuttosto la mera tecnicizzazione della mano che raccoglie il sapere scientifico in convergenza con la pulsione di morte (Ascari, pag. 81). In altre parole, questo tecnicismo-apocalittico porta all'unità assoluta la risposta originaria della specie umana (il movimento della mano) attraverso l'organizzazione della razionalità scientifica che, come ha intuito Günther Anders, non porta ad alcuna risimbolizzazione del principio di realtà, ma, piuttosto, si limita a riaffermarne la stratificazione al fine di governarlo (Ascari, pag.85). In un certo senso, se l'essenza dell'apocalittica americana è istituita come se fosse al di là del tempo, poiché la sopportazione di un «tempo della fine» implica come la morte trionfante (e i morti che alimentano la demagogia del suo processo) precluda una simbolizzazione senza uscita. Infatti, un'apocalisse senza regno redentore [2]. Per Ascari l'unica anticipazione – il meccanismo primordiale della capacità antropologica – è quella del «denaro», e quindi il dominio del principio di equivalenza generale che comporta la conquista dell'illusione temporale che ci sia una qualche distanza dalla produzione di morte che è in corso. Ma è evidente a chiunque, come fu detto non molto tempo fa, che i veri morti sono i piccoli borghesi che vivono nelle periferie americane [3]. E quest’ultimi continuano a viverci, mentre le braci della loro felicità domestica cercano di spegnere ferocemente la latenza di un dolore lancinante.
Sì, la natura dell'apocalittica permanente conferma che il vero e ultimo oggetto della forza tecno-capitalista è sempre stata una possibilità di mondi vitali multipli. E la sua erosione implica la possibilità infinita di ordinare la vita della città, come Elon Musk ha detto solo un paio di settimane fa all'ex presidente del Partito Repubblicano: «Hiroshima e Nagasaki sono state bombardate e ora sono di nuovo città piene. Sì, non è così spaventoso come la gente pensa» [4]. Se l'impresa della civiltà è stata in gran parte intesa come un'impresa che nasce dalla crosta terrestre e si dirige verso l'alto, una delle lezioni più importanti di Fine di mondo è che ci allena a volgere lo sguardo verso il basso e verso l'interno dello snodo cruciale del persistente governo che l'America esercita sul giardino delle nostre anime.
Note
[1]Disponibile qui.
[2]Disponibile qui.
[3]Disponibile qui.
[4]Disponibile qui.
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Gerardo Muñoz è professore aggiunto di Lingue e letterature moderne presso la Lehigh University in Pennsylvania, Stati Uniti. I suoi interessi di ricerca includono la teologia politica, il pensiero italiano, la teoria costituzionale e il dibattito post-egemonico.
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