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Anni Ottanta: la chimera e la memoria ai tempi della devastazione


 




Anni Ottanta la chimera  memoria
Immagine: Mary Beth Edelson, Burning Bright, 1973. Courtesy of the artist and David Lewis, New York

Partendo da una rilettura del film La chimera di Alice Rohrwacher (2023), Paolo Lago e Gioacchino Toni riflettono sulle trasformazioni avvenute a partire dagli anni Ottanta, periodo in cui, per citare Paolo Virno, è iniziata la «controrivoluzione capitalistica» che cambia la vita comunitaria del paese e inaugura la spettacolarizzazione e l’economizzazione degli individui e degli spazi che li accolgono.

Per approfondire il tema, ricordiamo il libro Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, prima pubblicazione della cartografia dei decenni smarriti, ovvero la rilettura degli anni che fanno dagli Ottanta del Novecento ai Dieci del Duemila, che la redazione di Machina sta portando avanti.

 

 

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Con il film La chimera (2023) si conclude la trilogia, di cui fanno parte anche Le meraviglie (2014) e Lazzaro felice (2018), dedicata dalla regista Alice Rohrwacher al rapporto tra presente e passato. L’episodio conclusivo è ambientato in un importante momento di transizione per l’Italia: l’inizio degli anni Ottanta, un periodo in cui – insieme a un’atmosfera che, soprattutto nelle aree di provincia, ancora risente degli anni Settanta – cominciano ad emergere in maniera evidente le tracce di una devastazione che, gradatamente, si sta estendendo sul Paese e sui suoi abitanti; una «mala-modernizzazione» che ha ridisegnato i territori cancellandone memorie, storie e legami, soffocando ogni altra opzione non allineata.

Sebbene il cambiamento in corso in apertura degli anni Ottanta sia stato un fenomeno internazionale – basti pensare ai risvolti sociali e di immaginario derivati dalla svolta impressa dal thatcherismo britannico e dal reaganismo statunitense –, per quanto riguarda l’Italia, il momento di passaggio fra il «prima» ed il «dopo» può essere indicato in tre eventi che segnano l’apertura del decennio: la marcia antisindacale dei quarantamila a Torino, il tragico terremoto irpino e l’avvento della neotelevisione.

Nell’episodio torinese è possibile scorgere non solo la fine di una stagione di protagonismo delle classi subalterne ma anche lo sgretolamento di un’identità di cui queste erano andate orgogliose, come tratteggiato dalla «trilogia working class» di Alberto Prunetti[1].

L’evento tellurico che ha colpito l’Irpinia nel 1980, invece, si è rivelato non solo un disastro naturale ma un vero e proprio terremoto sociale che ha dilaniato le comunità locali riducendo il dibattito politico e culturale attorno al Meridione italiano a una narrazione costruita ad arte sulle ruberie e sugli sprechi della «ricostruzione». Il romanzo d’esordio di Giovanni Iozzoli – che alla questione della crisi, nelle sue tante  declinazioni, e dello sradicamento che coglie i soggetti del nuovo fenomeno di migrazione interna al Paese degli anni Ottanta, ha dedicato diverse opere –, I Terremotati (2009), ha provveduto a raccontare questi eventi, coniugando sapientemente le piccole storie di altrettanto piccoli personaggi di paese con le grandi trasformazioni che hanno riscritto la vita sociale del Meridione nel ventennio Ottanta-Novanta, di cui il sisma ha fatto da amplificatore, con le sue storie fallimentari e di ennesima emigrazione forzata verso un Settentrione destinato ad essere  raggiunto a sua volta dalla crisi economica e sociale. 

L’avvento di quella che Umberto Eco ha definito «neotelevisione»[2], che si è imposta in Italia con l’arrivo delle emittenti private nei primi anni Ottanta, ha visto il progressivo abbandono, anche da parte delle reti pubbliche, della storica funzione pedagogica in favore di programmazioni facili e disimpegnate, segnate da risate e applausi a comando, interessate esclusivamente ad attrarre audience per vendere spazi pubblicitari. Si pongono qui le basi per quel processo di spettacolarizzazione e mercificazione dell’immaginario che, nel giro di qualche decennio, dal tubo catodico si espanderà all’universo digitale della rete dando luogo ai fenomeni di vetrinizzazione e datificazione che contraddistinguono la contemporaneità.

Tre eventi che, per quanto diversi, hanno dilaniato, ciascuno a modo suo, la vita comunitaria nel Paese inaugurando l’era della spettacolarizzazione e dell’economizzazione delle esistenze degli individui e degli spazi che li accolgono, dell’egoismo, dell’edonismo e del qualunquismo, della riscrittura dei sogni e dei desideri degli italiani e delle italiane in buona parte ad opera delle televisioni private. Con l’avvio di quel decennio si aprono gli anni dell’«Italia da bere», dei politici rampanti sempre più scollati dal tessuto sociale, della desolidarizzazione, del farsi strada di un nuovo tipo di malavita e di infinite colate di calcestruzzo utili a cementare nuovi rapporti di forza.

In questo momento di passaggio fra il «prima» e il «dopo», a mutare è anche il rapporto con la memoria, e di ciò riesce a dare mirabilmente conto il film La chimera. Una sequenza in particolare rappresenta in maniera evidente come si sia fatto oppositivo il rapporto tra passato e presente, tra un passato che vive in profondità, sotto terra, e un presente mortifero di superficie, alla luce del sole: in una costa della Tuscia ormai devastata da discariche e mostruosi impianti industriali, manifestazioni evidenti di quella «mala-modernizzazione» di cui si diceva, il protagonista Arthur (Josh O’Connor), insieme alla banda di tombaroli sottoproletari a cui si aggrega, scopre delle antiche tombe etrusche ancora intatte, con splendidi affreschi che si dileguano, come in Roma (1972) di Federico Fellini, al contatto con l’aria esterna, quasi ad evidenziare un presente incline a cancellare il passato. Se il passato appartiene alla sfera del sacro, il presente è lo spazio della devastazione paesaggistica e culturale: non si esita, infatti, a violare le antiche vestigia in nome del tornaconto economico. I contemporanei (l’Italia figlia della modernizzazione introdotta dal boom economico) hanno devastato con discariche ed imponenti impianti industriali un tratto di spiaggia considerato sacro dagli antichi, un luogo scelto per la sepoltura.

Arthur, come il poeta Andrej Gorčakov (Oleg Jankovskij) in Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, giunge, angosciato da feroci nostalgie e malinconie, in un paesino italiano, intento a ricercare – sembra – unicamente la bellezza estetica del passato (tanto da cogliere prontamente nel profilo di alcune ragazze che incontra in treno un rimando agli antichi affreschi etruschi) fino a configurarsi quasi come un antico cavaliere, protagonista di altrettanto antiche canzoni popolari (di cui, in scorci di metacinema, un menestrello canta in ottava rima le gesta) oppure di una fiaba anacronisticamente ambientata nella contemporaneità. Lo straniero Arthur, apostrofato sbrigativamente dalla popolazione indigena come «inglese», dopo essere uscito di prigione ritorna nella piccola comunità di un paese italiano dove era stato tempo prima ed è considerato come uno «straniero» (nei secoli passati, in Toscana, a lungo si è fatto ricorso all’appellativo «inglese» come sinonimo di «straniero»); la sua diversità emerge anche in un particolare potere che lo caratterizza come personaggio per certi aspetti fantastico: quello, cioè, di riuscire a scoprire i luoghi dove si trovano le tombe antiche grazie ad un suo particolare rituale di rabdomanzia che lo fa sprofondare in un malessere fisico. Come il poeta russo del film di Tarkovskij, Arthur, perduto nella contemplazione del fumo languido di una sigaretta perennemente accesa, è quasi esiliato da sé stesso, preda di una lancinante nostalgia per un passato fatto di bellezza probabilmente pienamente vissuta. Ritornando nei luoghi italiani che conosceva, Arthur appare bloccato nella sua ricerca della bellezza, perché sembra non riuscire a riconoscere quegli spazi ormai definitivamente imbruttiti e deturpati. Sembra inoltre restio a partecipare allo spoglio delle tombe, rifiutando l’approccio economicistico che vige nella piccola comunità di tombaroli e, sulla lussuosa imbarcazione di Spartaco, getterà in mare la preziosa testa di una statua antica per non farla cadere nelle mani dei rampanti speculatori anni Ottanta. Ugualmente, Gorčakov, guidato da Eugenia (Domiziana Giordano), si rifiutava di entrare a vedere la quattrocentesca Madonna del Parto di Piero della Francesca, lasciando entrare solamente la donna nella chiesa dove era custodito il dipinto. L’affascinante affresco rinascimentale e la bellissima testa antica non possono essere guardati, non possono divenire oggetto di spettacolarizzazione ma devono essere oggetti di uno sguardo rispettoso e rituale, sottratti quindi all’occhio devastatore di affaristi e arricchiti. Arthur percorre, come il personaggio del film di Tarkovskij, antichi paesi italiani e antichi paesaggi, intrisi di passato e di bellezza ma anche inesorabilmente deturpati: e di fronte al dolore che lo avvolge non può opporre che un silenzio contornato da un gesto quasi rituale, l’accensione di un povero mozzicone di candela. Se Gorčakov accende e riaccende, compiendo un vero e proprio rito, la candela durante l’attraversamento della piscina termale di Bagno Vignoni svuotata dall’acqua, Arthur la accenderà in una delle ultime sequenze del film, compiendo un gesto molto simile a quello eseguito dal poeta russo, prima di entrare nella cavità sotterranea, uno spazio totalmente altro e sconosciuto, dove troverà forse le radici della sua nostalgia e del suo dolore, un filo rosso che lo lega alla perduta Beniamina (Yile Yara Vianello).

Arthur, l’inglese, lo straniero non a caso abita sulle mura medievali della città, in uno spazio liminale, né dentro né fuori, palesando anche così la sua alterità, il suo non appartenere fino in fondo né al luogo né alla comunità locale, i cui momenti di festa e di sincera convivialità esercitano su di lui notevole fascino. Come Gorčakov e un altro personaggio di Nostalghia, il «folle» Domenico (Erland Josephson) che vive in una casa senza porte a Bagno Vignoni, in Toscana, anche Arthur è un personaggio liminale, né dentro né fuori la realtà: è perduto nella contemplazione di una bellezza quasi irraggiungibile, incarnata adesso dalla sua fidanzata Beniamina, ormai inesorabilmente perduta, la quale appare in immagini velate di sogno e di immaginazione, simulacro incorporeo che finisce per assomigliare al personaggio di Hari (Natal'ja Bondarčuk) in un altro film di Tarkovskij, Solaris (1972), che tormenta il protagonista Kris Kelvin (Donatas Banionis) sulla stazione orbitante Solaris. «Quello che lui cerca non sono il guadagno, i soldi, l’avventura, ma qualche altra cosa che è difficile da condividere» – afferma Rohrwacher – «Come Orfeo che cerca Euridice, così Arthur sente che scavando può trovare qualcosa che ha perduto, fosse la famosa e tanto cantata “porta dell’aldilà”. E aldilà c’è Beniamina, la donna che ha perso molti anni prima, la sua radice»[3]. L’impossibilità di fare i conti con la perdita della ragazza, ormai ridotta a fantasma amoroso, a filo rosso che lo accompagna costantemente, preclude ad Arthur il possibile amore di Italia (Carol Duarte), una donna che, a dispetto del nome, sembra a sua volta essere stata catapultata in quelle terre dall’altro capo del mondo. Alla perdita di Beniamina non si rassegna nemmeno Flora (Isabella Rossellini), sua madre, che da anni attende invano il ritorno della figlia, così come si ostina a non prendere atto di come la sua signorile abitazione sia ormai fatiscente, a testimonianza di un mondo che, insieme all’amore per la bellezza, sta inesorabilmente scomparendo sotto la spinta della modernità, tanto che le figlie, del tutto insensibili al fascino del luogo segnato dal passare del tempo, vorrebbero al più presto disfarsene. Non a caso prelevano dall’abitazione, un pezzo alla volta, oggetti di cui non colgono il valore memoriale che invece è ancora vivo nella madre. Ben diverso è invece il rapporto con il passato di Italia ed altre donne che decidono di occupare una vecchia stazione abbandonata che, come suggerisce Flora, è al contempo «di tutti e di nessuno», come, del resto dovrebbe essere il passato da cui tanti ormai si vogliono semplicemente sbarazzare, cancellandolo o mercificandolo. Quella che decide di dare nuova vita alla vecchia stazione è una comunità composta da sole donne e bambini, disposta a fare un’eccezione offrendo ospitalità ad Arthur, forse in virtù dell’alterità che in qualche modo rappresenta nel suo essere straniero, personaggio, come detto, liminale che all’incessante erranza orizzontale sulla superficie della terra, dettata da uno schizofrenico impulso a cercare, accompagna movimenti verticali che lo conducono nelle viscere della terra, in luoghi colti nel loro vero valore soltanto da chi sa vedere e rapportarsi con l’aldilà del contingente.

Le stesse ambientazioni e gli stessi luoghi, indefiniti e tratteggiati in modo fantastico, sembrano del resto rimandare ad una fiaba cinematografica: il rituale paesano dei «befani», certi momenti di festa comunitaria ancora non imbruttita dallo stucchevole quanto falso spettacolo per turisti, spazi marginali e baraccopoli tratteggiate come regge, ville semiabbandonate e stupende intrise di oggetti desueti e lontani, comunità femminili che vivono come in un incanto, fuori dalla brutale società patriarcale italiana. È uno spazio indefinito e fiabesco ma pur sempre intriso fin nel profondo della realtà di quegli anni: Arthur percorre strade deserte e periferiche sulle quali si stagliano i cartelloni pubblicitari dell’industria (la stessa delle raffinerie e delle discariche) che sembra monopolizzare la zona anche sponsorizzando sagre popolari e concerti mentre, alla fine del film, le baraccopoli vengono demolite sotto il controllo dei vigili urbani. Le casette di lamiera vengono abbattute perché sta iniziando il tempo della «normalizzazione» degli spazi, che, «andando al massimo», come suggeriscono le note della celebre canzone di Vasco Rossi, uscita proprio in quel periodo, proseguirà per tutti gli anni Ottanta e Novanta per portare, nel nuovo millennio, a quella nuova forma di controllo urbano chiamata grottescamente «smart city»; le «terre di nessuno» e gli spazi liminali spariscono per fare posto a veri e propri «non luoghi» sottoposti al controllo tecnologico. Sembra che stia iniziando anche il processo di gentrificazione dei piccoli paesi italiani, che verranno trasformati in veri e propri musei a cielo aperto, imbottiti esclusivamente di bed and breakfast, ristoranti e negozi di souvenir. Non c’è più posto, perciò, per uno «straniero» come Arthur, che vive in una dimensione liminale e non definita. Spariscono vecchi parcheggi abbandonati e sterrati, luoghi coperti di vegetazione negli interstizi urbani, zone di passaggio che sembravano ancora appartenere ad un’Italia postbellica: è lo stesso processo di distruzione e cementificazione cantato da Pier Paolo Pasolini già negli anni Cinquanta nella sua poesia Il pianto della scavatrice, appartenente alla raccolta Le ceneri di Gramsci (1957). Alla fine degli anni Cinquanta le borgate e i borghetti romani sono stati abbattuti per costruire i palazzoni di periferia; per tutti gli anni Ottanta viene abbattuto tutto ciò che restava di un passato sentito come ingombrante dalle nuove classi dirigenti, tutto quello che apparteneva ancora ad un paese povero come l’Italia postbellica. Perciò, gli spazi dove abitavano e si fermavano tutti i marginali, i nomadi, i freaks lontani da un canone di riconoscibilità sociale all’interno del tessuto urbano, devono essere cancellati, preda di una crudele damnatio memoriae. Non esistono nemmeno più gli spazi periferici dove sostavano periodicamente i circhi e i luna park, aree sterrate che si trasformavano per un breve periodo di tempo in spazi magici e incantati; adesso vengono cementificati o «normalizzati» in luoghi dell’unico divertimento consentito nella attuale società del lavoro imposta dal capitalismo digitale: enormi centri commerciali dotati di spazi di intrattenimento e di squallidi bar che affacciano su ordinati parcheggi e su prefabbricati, il tutto sottomesso all’occhio vigile delle telecamere. E oggi non potrebbero nemmeno esistere la villa decadente o la stazione abbandonata che vediamo nel film: sarebbero stati trasformati in luoghi ripuliti e ordinati, asettici e controllati da sguardi digitali. Federico Fellini, in Ginger e Fred (1986), aveva raccontato «in diretta» la trasformazione dello spazio e della società italiana negli anni Ottanta: la pubblicità e lo spettacolo si insinuavano persino negli ultimi lembi di periferia fatiscenti e desertici che sopravvivevano. Se nel film di Fellini, tutto è sponsorizzato dall’industriale Fulvio Lombardoni (evidente allusione a Berlusconi)[4], a capo di un’azienda di salumi, in La chimera è – come già accennato – la fabbrica a sponsorizzare perfino il tempo del divertimento, della festa popolare che si svolge non solo sotto le mostruose strutture di ferro e cemento che deturpano un bellissimo lembo di costa italiana, patrimonio archeologico e culturale, ma anche sotto il suo sponsor economico.

Il capitale, finita la grande abbuffata degli anni Sessanta del boom economico, mostra il suo turpe volto, quello più vero, fatto di industrie che devastano e inquinano gli spazi naturali. La devastazione del paese si sta allargando a macchia d’olio, una devastazione che non conosce alcun rispetto per la natura, il paesaggio, i beni culturali, il proprio passato; tutto ciò è visto esclusivamente come intralcio alla modernità che avanza di cui occorre disfarsi al più presto. L’immagine di un cartello indicante la presenza di un sito archeologico arrugginito e caduto al suolo tra sterpaglie e rifiuti racconta meglio di ogni altra cosa lo stato di abbandono a cui sono condannate le testimonianze dell’antico passato; un’incuria e un’indifferenza che, a ben guardare, non sono poi così dissimili dalle gesta dei tombaroli sottoproletari che non esitano a staccare a martellate la testa di una statua al solo fine di poterla trasportare meglio e venderla a colti e facoltosi collezionisti attraverso la mediazione di un ricettatore privo di scrupoli, il misterioso Spartaco che, sorprendentemente, si manifesterà ai loro occhi come un’elegante e raffinata donna tedesca (Alba Rohrwacher) soltanto sul finale del film, a bordo di una lussuosa imbarcazione da cui tratta la vendita del bottino dei saccheggi commissionati.

Che si tratti di irrispettosa profanazione delle antiche vestigia legate al sacro da parte della «mala-modernizzazione» del «nuovo che avanza», sotto forma di impianti industriali e discariche a cielo aperto, o da parte di tombaroli privi di scrupoli, interessati esclusivamente a ricavare qualche soldo, o, ancora, a soddisfare il vezzo di possedere reperti antichi riducendoli a decontestualizzati soprammobili per facoltosi altolocati, tutto e tutti, in questi primi anni Ottanta, concorrono all’azzeramento del passato.

Come sottolinea la regista, «coloro che decidono di diventare “tombaroli”, di varcare quel tacito confine tra il sacro e il violabile, lo fanno per dare una svolta al passato, per divenire nuovi, altro. Sono indiscussamente uomini, forzuti, giovani, maledetti. Loro non appartengono al passato, non sono figli dei loro padri che sono cresciuti vicino a quelle tombe antiche senza mai violarle. Loro sono figli di sé stessi. Il mondo gli appartiene: possono entrare in luoghi considerati tabù, possono spezzare i vasi, arraffare offerte votive, commercializzarli. Per loro sono solo anticaglie, cose vecchie. Non sono più cose sacre. L’ingenuità di chi ha seppellito quelle cose li fa ridere»[5]. Nonostante vadano fieri delle loro devastatrici avventure notturne nel sottosuolo, vissute come azzardo che potrebbe, da un momento all’altro, portare un’inaspettata ricchezza, questi tombaroli non sono che pedine e vittime al tempo stesso di una macchina molto più grande di loro, quella di un mercato dell’arte – che nel film assume le sembianze della lussuosa imbarcazione in cui opera Spartaco – che non esita a sfruttare manodopera a bassissimo costo e ricavare denaro cancellando storia e cultura.

Eppure, ed è questa una delle grandezze del film, non tutto appare perduto in questa distruzione perché sembrano ancora esistere sentimenti autentici, rapporti interpersonali ancora basati sulla fiducia reciproca. Molto intensi sono i momenti, già ricordati, in cui un poeta menestrello (Valentino Santagati), accompagnandosi con la chitarra, canta in ottava rima le avventure di Arthur, rivisitate e proiettate in una dimensione mitica e fiabesca. In questi attimi, la combriccola di amici pare unita da sentimenti autentici e genuini, ancora lontani dall’abbrutimento offerto dagli spettacoli televisivi e dal rampantismo della «Milano da bere».

Miscelando al 35 mm, utile alla regista per riprendere le grandi pagine illustrate dei libri di fiabe,  sequenze girate in super16 mm ed in 16 mm, equivalenti rispettivamente ad una sorta di scrittura magica ed a piccole annotazioni, a rallentamenti, accelerazioni, dialoghi e canti, superficie alla luce del sole e buie viscere della terra, vitale mondo dei morti e mortifero mondo dei vivi, sorrisi e tragedie, la regista tesse una tela di suoni e immagini al fine di «rintracciare nella storia di un uomo la storia degli uomini» consentendo di chiedersi attorno ad un film «che cosa disgraziata e buffa, che cosa commovente e violenta sia l’umanità»[6] e di quali brutture e sopraffazioni sia capace quando si affida al cinismo economicista.

Rohrwacher ci proietta in una fiaba capace di mostrare anche il volo degli uccelli come un evento magico e misterioso scrutato con gli occhi antichi degli aruspici richiamante diverse sequenze di Uccellacci e uccellini (1963) di Pier Paolo Pasolini. Al di fuori della fiaba c’è però la realtà e, in quei primi anni Ottanta, la devastazione e la distruzione del Paese non hanno davvero conosciuto nessun momento magico o incantato.



Note

[1]    La cosiddetta «trilogia working class» di Alberto Prunetti è composta dai romanzi: Amianto. Una storia operaia, Agenzia X, Milano 2012 – Alegre, Roma 2014; 108 metri. The Working Class Hero, Laterza, Roma 2018; Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia, Laterza, Roma 2020.

[2]    Cfr. Umberto Eco, Tv: la trasparenza perduta, in «L’Espresso», 1983, ora in: Umberto Eco, Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983, pp. 163-179.

[4]     Cfr. Alessia Ricciardi, After “La Dolce Vita”. A Cultural Prehistory of Berlusconi’s Italy, Stanford University Press, Stanford 2012, p. 61.

[5]    Pressbook del film La chimera (2023) di Alice Rohrwacher, cit.

[6]    Ibid.

 

 

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Paolo Lago è dottore di ricerca in Letterature e Scienze della Letteratura all’Università di Verona e in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie presso l’Università di Padova. Si occupa principalmente di teoria della letteratura e di critica tematica nella letteratura e nel cinema. Fra le monografie prodotte: La natura ostile. Visioni e prospettive nella narrativa contemporanea (Terracqua 2023), Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini, Edipo re, Teorema, Porcile, Medea (Mimesis 2020), Il vampiro, il mostro il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij (Clinamen 2019), La nave, lo spazio e l’Altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (Mimesis 2016). Coautore di Spazi contesi. Cinema e banlieue. L’Odio, I Miserabili, Athena (Milieu 2024), Salvatrici del mondo. Personaggi femminili nella fantascienza italiana contemporanea (Giorgio Pozzi Editore 2024), Alle radici di un nuovo immaginario. Alien, Blade Runner, La Cosa, Videodrome (Rogas 2023), ha pubblicato un suo saggio nel volume L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura (Mimesis 2023). Docente di materie letterarie è redattore della rivista «Carmilla online» e collaboratore di altre testate.

 

Gioacchino Toni è studioso dei fenomeni artistici e audiovisivi contemporanei, oltre che di Storia dello sport. Autore di Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale (Il Galeone 2022) e coautore dei volumi: Spazi contesi. Cinema e banlieue. L’Odio, I Miserabili, Athena (Milieu 2024), I migranti del pallone. I calciatori stranieri in Italia. Un secolo di storia (Le Monnier 2023), Alle radici di un nuovo immaginario. Alien, Blade Runner, La Cosa, Videodrome (Rogas 2023), Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978 (Mimesis 2018), Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell'immaginario (Mimesis 2018), Guida agli stili nell’arte e nel costume (L’età moderna, Odoya 2019 e L’età contemporanea, Odoya 2020). Suoi saggi sono stati pubblicati nei volumi L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura (Mimesis 2023), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto (Il Galeone 2020) e Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio (Il Galeone 2021). Docente di Storia dell’arte è redattore della rivista «Carmilla online» e collaboratore di altre testate.



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