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Anatomia di un’omissione


Note su disabilità e salute mentale


Anthea Hamilton, Tate Britain, Londra

Per approfondire la relazione tra disabilità e salute mentale, questione ancora troppo marginale nei disability studies, è necessario pensare la disabilità non come problema medico-psichiatrico ma come fatto politico, sociale; non come un'esperienza solo individuale, ma anche relazionale, che emerge da una serie di fattori sociali. Si tratta di far uso di un «modello sociale della disabilità», secondo cui è la società a disabilitare le persone.

Insieme a questo, si tratta di uscire da una narrazione vittimaria della disabilità, pensata come tragica e commiserevole, partendo dall'esperienza dell'attivismo che osa rivendicare la disabilità in quanto tale, rivendicando contestualmente l'accesso a educazione, sanità, alloggio, trasporti, pari opportunità d’impiego. Cambiare la narrazione della disabilità significa abbandonare stereotipi e pregiudizi che si fondano sull'assenza di ascolto di ciò che le persone disabili hanno da dire di sé.

 

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Nel momento in cui ci si costruisce una certa familiarità con la galassia dei Disability Studies, e lo sguardo si fa sufficientemente ampio, è possibile notare non una vera e propria assenza, ma quantomeno il posizionamento ai bordi di alcuni temi: uno di questi è la relazione tra disabilità e salute mentale. Il nesso tra la sofferenza – in questo caso psichica – e la disabilità può essere (stato) considerato un tema strategicamente rischioso. In primo luogo, tenterò di mappare alcune delle ragioni che hanno contribuito a questa marginalità. In secondo luogo, identificherò come punto di ingresso privilegiato rispetto a questo tema il concetto di disabilismo psico-emotivo, che nasce in seno alle riflessioni del modello sociale della disabilità, in particolare grazie al lavoro delle studiose Carol Thomas e Donna Reeve.

La connessione in oggetto potrebbe essere esplorata da altre prospettive, ugualmente rilevanti e dalle ricadute profonde: per esempio, attraverso la lente della governamentalità, andando per esempio a scoperchiare, dal punto di vista storico e culturale, la connessione tra le istituzioni totali e la disabilità.[1] Oppure, è possibile analizzare il tema da un’angolatura strettamente contemporanea, esplorando l’inaccessibilità della cura della salute mentale per le persone disabili. Il percorso delineato qui, dunque, è solo uno dei tanti possibili.

Né il mondo dell’attivismo, né quello della riflessione teorica attorno alla disabilità sono oggi particolarmente frequentati, ed è quindi necessario fornirne qualche coordinata prima di tematizzare la questione specifica posta dal titolo. Al di là di una rappresentazione esaustiva di questa fase iniziale, impossibile da ripercorrere in questa sede, è significativo richiamare alcuni punti utili alla discussione.

Negli anni Sessanta e Settanta si viene a costituire, parallelamente ad altre forme di lotta in risposta all’oppressione, alla discriminazione e all’ingiustizia sociale, il movimento attivista attorno alla disabilità.[2] Voci di opposizione nei confronti delle forme di esclusione subite dalle persone disabili erano in realtà già state sollevate: pensiamo, per esempio, alle rivendicazioni dei veterani di guerra, ma anche alle associazioni di ex pazienti psichiatrici. È però nella seconda metà del Novecento che è possibile individuare in maniera chiara lo sviluppo di «una coscienza politica comune attorno alla disabilità».[3] Nasce, dunque, quello che possiamo definire un discorso alternativo sull’esperienza delle persone disabili: sui loro corpi, le loro menti, le loro necessità. Alternativo, s’intende, rispetto al discorso invece egemonico: vengono invocate modalità diverse per definire, rappresentare, raccontare tali territori.[4]

Pur nell’eterogeneità delle manifestazioni e delle direttive politiche, questa ondata di attivismo viene intessuta a partire da alcuni punti comuni, ereditati e rielaborati dai Disability Studies. In primo luogo, è già stato accennato, si lotta per modificare la lettura comunemente offerta della disabilità; ma seguendo quali direttive? Su un primo livello, attivismo e Disability Studies sono mossi da richieste simili rispetto a quelle espresse da altre comunità marginalizzate: la necessità di superare discriminazione e stereotipi, uguali opportunità sociali e relazionali, la possibilità di accedere alla dimensione lavorativa, e la ricezione di queste richieste dal punto di vista normativo e delle policy.

La particolarità, e lo scarto più profondo dal punto di vista dell’approccio messo in campo, è quella presa di posizione che, in maniera sintetica, si definisce come critica al «modello medico della disabilità». Si pone infatti la necessità di rielaborare la questione della disabilità da problema medico-psichiatrico a, invece, fatto politico, situato, sociale. A partire da questa critica, vengono proposti inquadramenti più produttivi della disabilità, primo fra tutti quello che viene definito «modello sociale della disabilità»,[5] secondo cui – sommariamente – è la società a disabilitare le persone, ponendo in essere limitazioni ed ostacoli che impediscono alle persone con impairment di partecipare attivamente alla vita sociale, di realizzare le proprie potenzialità, di vedere la propria esistenza rispettata dal punto di vista dei diritti basilari. Si ribadisce, in breve, quanto una sussunzione puramente medica della disabilità sia destinata a fornirne una visione parziale, a non rendere giustizia alla molteplicità di fattori che concorrono a modellarne i contorni, e a non essere, infine, necessariamente utile per le persone disabili.

Una seconda direttiva legata ad una riconcettualizzazione anche sociale, culturale, politica ed economica della disabilità sposta dunque il terreno d’analisi, primariamente, al mondo dell’interrelazionalità e dei rapporti sociali: in quello spazio mobile e caotico in cui i soggetti si incontrano e scontrano con il mondo. La disabilità, dunque, è certamente un’esperienza individuale, ma che viene allo stesso tempo modulata ed esperita in modo prepotentemente relazionale. Come ho già discusso altrove, la disabilità emerge da una serie di fattori: le possibilità economiche, il sostegno del welfare, le narrazioni culturali, la rete amicale e affettiva, l’accessibilità (o meno) degli spazi, l’ideologia che guida una determinata società, la capacità del mondo scientifico e tecnologico di accogliere tanto le necessità quanto ciò che invece non serve alle persone disabili, e così via.[6]

Parallelamente a tali direttive socioculturali, auspicate e proposte con forza tanto dall’attivismo quanto dalla sua controparte accademica, è emersa un’ulteriore spinta: il cambio di paradigma è incarnato anche dal fatto che si osa rivendicare la disabilità. Non ci si limita a chiedere pari opportunità e ad invocare la fine della discriminazione. La costituzione del movimento attorno alla disabilità, con tutte le sue diverse declinazioni, è sostanziato da questo passaggio comune: essa non dev’essere semplicemente tollerata, ma può rappresentare persino un tratto positivo. Su questa forma di orgoglio – similmente, in questo senso al pride della comunità LGBTQIA+, o allo slogan «nero è bello» – si fa leva dal punto di vista politico. In questo solco, viene anche celebrata quella che può essere definita come una forma cultura specifica che caratterizza le soggettività disabili o – seguendo il modello sociale – disabilitate.[7] Rivendicare la disabilità con orgoglio significa condividere una narrazione diversa, in cui l’appartenenza a questa categoria, solitamente subìta, viene invece valorizzata.

L’insistenza sulla possibilità che il posizionamento disabile ispiri amore, cura e orgoglio per ciò che si è, e che questa esperienza di vita possa anche produrre gioia e piacere, è funzionale a distogliere l’attenzione dalle risposte sociali e culturali dominanti. Il ribaltamento della prospettiva, dunque, serve a controbilanciare il peso assunto dalle rappresentazioni di stampo negativo, e non solo nel loro grado più estremo, ossia quando emergono come esplicitamente disumanizzanti e patologizzanti. In generale, si sfida la rigidità con cui le esperienze delle persone disabili vengono incasellate, finendo per rientrare sempre sui binari dell’indesiderabilità e della disperazione: «la disabilità, di per sé, non né tragica né commiserevole».[8] 

La maggior parte delle letture della disabilità, e degli interventi di matrice sociale, politica e religiosa pensati per le persone disabili, si fondano infatti, come rileva Alison Kafer, sulla carità da un lato e sulla tragedia dall’altro.[9] Rispetto ad altre categorie marginalizzate, come le donne e le persone nere, nei confronti di tale minoranza si pone grande enfasi sulla dimensione della pietà.

I più diffusi testi socioculturali presentano la disabilità come tragedia, perdita, insieme di limitazioni. L’omogeneità di queste narrazioni viene rifiutata, parallelamente all’insistenza su quanto le singole comunità e la politica in senso largo possano fare per migliorare nettamente le vite delle persone disabili. In questo contesto, dunque, emerge un ventaglio piuttosto limitato di rappresentazioni: per esempio, la storia di chi soccombe alle circostanze, o viceversa quella «di chi drammaticamente vince la propria condizione: l’impavido/a piccolo/a storpio/a che ribalta i pronostici nonostante la propria tragedia personale».[10] Quest’enfasi sulla tragedia pone inoltre la categoria di disabilità su un piano puramente individuale, col rischio di trascurarne la natura sociale e culturale. La vera tragedia, ha osservato l’attivista statunitense Judith Heumann, è piuttosto il fatto che alle persone disabili venga spesso impedito l’accesso a «educazione, sanità, alloggio, trasporti, pari opportunità d’impiego».[11]

Questo quadro, con le direttive che abbiamo delineato, ha prodotto spostamenti metodologici, tematici e politici fondamentali. Il posizionamento della disabilità in un registro sociale, culturale e politico ha però anche avuto un «effetto collaterale», come talvolta registrato proprio dagli stessi Disability Studies: alcuni autori ed alcune autrici hanno infatti tentato di colmare vuoti e ricucire strappi, (ri)saldando in maniera nuova personale e politico. In particolare, si tratta di studiosi e studiose affini alla teoria femminista, influenzati/e inoltre da una prospettiva filosofica (per esempio, fenomenologiche). Jenny Morris, per esempio, scrive:

 

Sfortunatamente, nei nostri tentativi di sfidare i modelli della disabilità come quello medico e quello della tragedia personale, abbiamo a volte avuto la tendenza a negare l’esperienza personale della disabilità. […] Il movimento attivista sulla disabilità deve fare suo il principio femminista secondo cui il personale è politico, e, dando voce alle esperienze soggettive, asserire il valore delle nostre vite.[12]


Kafer, in questo solco, rileva il «fallimento» dei Disability Studies di «interessarsi agli effetti traumatici della disabilità»: «insistiamo che le storie diagnostiche e le terminologie mediche non sono le uniche storie da raccontare né gli unici linguaggi in cui raccontarle», e questo può produrre tale omissione.[13] Il posizionamento extra-individuale dell’attività politica e teorica ha dunque favorito, almeno in parte, la rarità degli accenni alla vita interiore delle persone disabili.

A contribuire a questo dato, inoltre, vi sono le altre direttive menzionate, che possono rendere difficile la tematizzazione della sofferenza: l’enfasi sulla dimensione non (necessariamente) tragica della disabilità, e la risignificazione positiva di tale posizionamento sociale, attraverso parole chiave storicamente frequentate come quella dell’orgoglio.

Porre eccessiva enfasi sull’esperienza personale può apparire una mossa depoliticizzante – dopo che tanto si è fatto per renderla la disabilità, invece, proprio un tema di ordine politico. È propria invece questo aspetto che viene invocato da Reeve: i Disability Studies devono affrontare il tema proprio per non lasciare questa dimensione unicamente al mondo della riabilitazione e della psicologia: in questo si rischierebbe, infatti, di ricadere in quel modello individuale-tragico della disabilità poc’anzi descritto, laddove si tratta invece di una delle tante facce dell’oppressione.[14]

Gli elementi presentati sin qui, dal punto di vista storico e metodologico, hanno dunque contribuito non a rimuovere, ma certamente a marginalizzare, esperienze incentrate sulla perdita, sul dolore, sulle difficoltà. Esse restano invece sempre legittime, specialmente a causa – come evidenzierò a breve – di un contesto sociale abilista e disabilista.[15] 

È possibile, inoltre, porre attenzione su un’ulteriore dimensione che ha possibilmente contribuito alla resistenza qui tematizzata. Il movimento per i diritti delle persone disabili ha affermato come il presunto dolore sperimentano dalle persone disabili sia in molti casi una proiezione, basata sui pregiudizi e gli stereotipi che ammantano l’esperienza della disabilità, e dal fatto che le persone non disabili raramente si pongono in ascolto di ciò che quelle interessate hanno da dire di sé.[16] Questa sofferenza – tanto da un punto di vista fisico, quanto da quello psichico, con la consapevolezza, inoltre, dell’inestricabile intreccio tra i due – è invece stata storicamente impiegata come giustificazione per pratiche violente nei loro confronti: per esempio, nel caso dell’eugenetica o nei casi di legittimazione dell’uccisione delle persone disabili (dall’infanticidio avallato dal filosofo morale Peter Singer agli omicidi da parte di caregivers).

Il ruolo della sofferenza psichica nella vita delle persone disabili è invece stato tematizzato dalle autrici già menzionate, Thomas e Reeve, attraverso la cornice concettuale del disabilismo. Il termine «disabilismo» non ha avuto particolarmente fortuna nei Disability Studies e nell’attivismo italiani, ma ha una tradizione piuttosto consolidata nella riflessione legata al modello sociale della disabilità. Questa forma di discriminazione appare come un fenomeno multiforme: Thomas distingue, in particolare, quella strutturale e quella psico-emotiva. Quest’ultima, qui di nostro interesse, rappresenta dunque una faccia della stratificata squalificazione ai danni delle persone disabili. Non si riferisce all’esperienza di malattie psichiche disabilitanti, o genericamente alla sovrapposizione di disabilità e di malessere psicologico, bensì specificamente agli effetti che il disabilismo può avere sulla salute mentale delle persone. Ne possono essere target le persone disabili, quelle che hanno malattie psichiatriche, le persone neurodivergenti, quelle sorde  e così via.

Si riferisce, spiega Thomas, più al mondo dell’essere che a quello del fare, preso invece in carico dalla sua controparte strutturale. In questa forma di discriminazione l’appartenenza all’umanità delle persone disabili vacilla: esse subiscono una forma di «invalidazione ontologica».[17] Del disabilismo psico-emozionale fanno parte esperienze quali l’«essere fissati/e o presi/e in giro, essere trattati/e come bambini/e piuttosto che come adulti», oppure «venire considerati/e esseri inferiori semplicemente a causa della presenza di impairment».[18] Riguarda quindi la dimensione del linguaggio, delle attitudini sociali e delle interazioni che circondano le persone disabili, laddove invece quello strutturale include, per esempio, l’inaccessibilità degli spazi. Il danno derivante dal disabilismo psico-emotivo può essere profondo: non rappresenta solo una forma di oppressione sociale, ma modifica anche la propria voce interiore, producendo bassa autostima e scarsa considerazione di sé. Essere soggetti costantemente discriminati può facilitare il radicarsi di forme di oppressione interiorizzata, producendo «reazioni psichiche» che possono «ferire una seconda volta il proprio sé attraverso l’assimilazione di valori discriminanti».[19] Questa «rottura culturale della psiche» s’invera anche nel disallineamento tra la percezione di sé e quella che, invece, mostrano di avere le altre persone.[20] 

Questa forma di discriminazione può, a catena, anche aumentare il grado di disabilitazione. L’«insicurezza esistenziale» che provoca, infatti, può produrre conseguenze materiali: per esempio, temendo le reazioni altrui alla propria persona, può spingere ad evitare i contesti sociali (anche laddove, magari, non vi sarebbero barriere dal punto di vista pratico), o a non ricercare l’intervento medico laddove necessario.[21] L’inestricabilità e la reciproca influenza tra la dimensione «interna» e quella «esterna» non sfugge a queste autrici: «Dover affrontare gli sguardi e i commenti delle persone estranee può escludere qualcuno da un ambiente con la stessa efficacia di una rampa di scale».[22] A questo riguardo, Bill Hughes e Kevin Paterson scrivono, in continuità con la riflessione fanoniana e con buona parte dell’antropologia medica, come


l’oppressione e il pregiudizio non solo appartengono al corpo politico, ma divengono incarnati come dolore e «sofferenza». Tanto il politico quanto il fisico appartengono al corpo in modo dotato di senso, eppure entrambi appartengono al sociale – inteso sia come discorso che come luogo materiale/spaziale.[23]


Ciò che questo dibattito fa emergere, in sintesi, è l’importanza di tematizzare l’impatto che ha la discriminazione sulle persone disabili – che effettivamente, a livello statistico, sperimentano maggiore disagio psichico.[24] Il contributo dei Disability Studies e dell’attivismo riporta però l’attenzione sull’eziologia anche politica di questa sofferenza, troppo frequentemente saldata, invece, alla presenza della disabilità in sé. Hughes e Paterson rilevano difatti come


le persone disabili effettivamente soffrono. Tuttavia, allo stesso tempo, la sofferenza – impiantata nel concetto di oppressione – viene rimossa dalla sua associazione con una possibile risposta caritatevole alla tragedia. Riformulare la sofferenza come un concetto dialettico tra dolore e oppressione non solo politicizza la dimensione medica, ma espone la base disabilista della disposizione caritatevole.[25]


Analizzare criticamente la possibile connessione tra la disabilità e la sperimentazione di disagio psichico è dunque fondamentale: sia perché può rendere giustizia alla dimensione situazionale e politica di entrambe le esperienze, a maggior ragione nel loro intrecciarsi, sia per lo sviluppo di «antidoti» da mettere in campo dal punto di vista culturale, discorsivo, sociale, medico.

Se non vengono posti in connessione i punti evidenziati sin qui, non avremo difatti gli strumenti per disvelare come alcuni processi sociali possano mettere a rischio la vita delle persone disabili. Per esempio, se disabilità, da un lato, e sofferenza e tragedia, dall’altro, vengono considerati processi necessariamente coestensivi, il desiderio di una persona disabile di richiedere il suicidio assistito viene valutato come praticamente autoevidente. Se, rimanendo nel contesto di questo esempio, il disagio psichico delle persone disabili non viene politicizzato, mancando dunque di rilevarne quantomeno il possibile legame con le direttive sociali dell’oppressione e della marginalizzazione, ancora una volta è difficile immaginare un esito diverso. Diverse associazioni e persone attiviste evidenziano come la salute mentale delle persone disabili venga presa in carico in maniera più superficiale: non viene considerato particolarmente sfidante, dal punto di vista etico, che una di loro possa desiderare la morte, laddove invece nel caso di persone non disabili emerge un tipo di sforzo socioculturale diverso.[26] L’oppressione può insomma rivestire tenacemente la vita interiore delle persone disabili, contraendone le possibilità.[27]




Note

[1] Vedi il lavoro di buona parte dei Disability Studies italiani su questo, in particolare che ruota attorno al Centre for Governamentality and Disability Studies «Robert Castel» – Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, e alla rivista «Minority Reports. Cultural Disability Studies».

[2] Cfr. S. Burch, ed., Encyclopedia of American Disability History, New York, Infobase e D.A. Nepveux, «Activism», in R. Adams et al., eds., Keywords for Disability Studies, New York, New York University Press, 2015, pp. 73-83.

[3] Nepveux, op. cit., p. 75.

[4] Cfr. T. Blackmore ‒ S.L. Hodgkins, Discourses of Disabled Peoples’ Organisations: Foucault, Bourdieu and Future Perspectives, in D. Goodley et al., eds., Disability and Social Theory. New Developments and Directions,  Palgrave Macmillan, London, 2012.

[5] Cfr. Union Of the Physically Impaired Against Segregation (UPIAS) and The Disability Alliance (DA), Fundamental Principles of Disability, 1997, pp. 2-23; M.J. Oliver, The Politics of Disablement, New York, Palgrave Macmillan, 1990, trad. it. di E. Valtellina, Le politiche della disabilitazione. Il modello sociale della disabilità, ombre corte, Verona 2023 e, per uno sguardo d’insieme sull’area di ricerca, D. Goodley, Disability Studies. An Interdisciplinary Introduction, SAGE, London 2011.

[6] Cfr. C. Montalti, Assemblare la disabilità, «ALEA», 2022, https://www.aleamag.com/assemblare-la-disabilita.

[7] Cfr. C. Barnes ‒ G. Mercer, Disability Culture. Assimilation or Inclusion?, in G.L. Albrecht et al., Handbook of Disability Studies, Thousand Oaks: SAGE, 2001, pp. 515-534; E. Barnes, The Minority Body. A Theory of Disability, Oxford University Press, Oxford 2016.

[8] J. Shapiro, No Pity: People with Disabilities Forging a New Civil Rights Movement, Times Books, New York, p. 20. Cfr. E. Barnes, op. cit.

[9] Cfr. A. Kafer, Feminist, Queer, Crip, Bloomington, Indiana University Press, 2013.

[10] E. Barnes, op. cit, p. 168.

[11] Disability in the Mainstream: Bank Appoints Prominent New Disability Adviser, «DevNews Media Center», 3/06/2002.

[12] J. Morris, Personal and Political: A Feminist Perspective on Researching Physical Disability, «Disability, Handicap & Society», 7, 2, pp. 157-166, p. 164, corsivo mio.

[13] A. Kafer, Un/safe Disclosures. Scenes of Disability and Trauma, «Journal of Literary & Cultural Disability Studies», 10 (2016) 1, pp. 4, 6. Nello specifico, Kafer insiste non solo sugli effetti, ma anche sulle genealogie: ossia il fatto che determinate disabilità, come nel suo caso, siano acquisite attraverso esperienze traumatiche (di ordine individuale o invece collettivo, come accade nella guerra, e di ordine localizzato, come può essere un incidente, oppure temporalmente dilatato). Questo aspetto non è approfondito in questo contributo, ma resta nondimeno importante.

[14] Cfr. D. Reeve, Psycho-emotional Disablism in the Lives of People Experiencing Mental Distress, in H. Spandler et al, eds., Madness, Distress and the Politics of Disablement, Policy, Bristol 2015, pp. 99-112.

[15] Cfr. R. Mallett, K. Runswick-Cole, Approaching Disability. Critical Issues and Perspectives, Routledge, New York 2014.

[16] Cfr. J. Marsh, What’s Wrong With «You Say You’re Happy, But…» Reasoning?, in A. Cureton, D. Wasserman, eds., Oxford Handbook of Philosophy and Disability, Oxford University Press, New York 2020, pp. 310-325.

[17] B. Hughes, Civilising Modernity and the Ontological Invalidation of Disabled People, in D. Goodley et al., eds., Disability and Social Theory: New Developments and Directions, London, Palgrave Macmillan, 2012, pp. 17-32.

[18] Cfr. C. Thomas, Female Forms: Experiencing and Understanding Disability, Philadelphia, Open University Press, 1999, ed Ead., Sociologies of Disability and Illness. Contested Ideas in Disability Studies and Medical Sociology, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007; D. Reeve, op. cit. ed Ead., Psycho-emotional Disablism: The Missing Link?, in N. Watson et al., eds., Routledge Handbook of Disability Studies, New York, Routledge 2012, pp. 78-92; D. Goodley, Social Psychoanalytic Disability Studies, “Disability & Society”, 26 (2011) 6, pp. 715-728.

[19] Goodley, op. cit., 2011, p. 718.

[20] Id., The Dis/ability Complex, “DiGeSt. Journal of Diversity and Gender Studies”, 5 (2018) 1, pp. 5-22, p. 12.

[21] Reeve, op. cit., 2012, p. 80.

[22] Ivi, p. 101.

[23] B. Hughes ‒ K. Paterson, The Social Model Of Disability And The Disappearing Body: Towards A Sociology Of Impairment, «Disability & Society», 12 (1997) 3, pp. 325-340, p. 366. Non si sottovaluta, inoltre, la complessità che caratterizza l’eziologia del disagio psichico. Può essere infatti difficile separare nettamente tutti i fattori che concorrono alla sua evoluzione, o possono esacerbarlo: esso può infatti derivare, nella singola esperienza, tanto da episodi disabilisti quanto da – per esempio – esperienze infantili negative e conseguente sedimentazione del trauma, componenti genetiche, altre aree della vita che procurano sofferenza. Cfr. J. Tew, Towards A Socially Situated Model Of Mental Distress, in H. Spandler et al., op. cit., p. 72.

[24] Reeve, op. cit., 2015.

[25] Hughes e Paterson, op. cit., p. 336.

[26] Cfr. https://notdeadyet.org/; L. Carr, Better Off Dead, BCC, 2024; J.M. Reynold, C. Wieseler, eds., The Disability Bioethics Reader, New York and London, Routledge, 2022, passim.

[27] Ciò che si sostiene in quest’ultimo passaggio non è affatto l’illegittimità dell’eutanasia, su cui per esempio il contesto italiano è tragicamente arretrato. Si evidenzia piuttosto come la scelta possa in alcuni casi essere condizionata dalla mancanza di opportunità e dall’effetto del disabilismo sul deterioramento del benessere mentale.


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Chiara Montalti si è formata tra l'Università di Bologna e l'Università di Firenze ed è attualmente assegnista di ricerca in Filosofia Morale all'Università di Bologna. Si occupa prevalentemente di disability studies. Si interessa in particolare delle rappresentazioni culturali e di fiction della disabilità, del rapporto tra persone disabili e tecnoscienza e della relazione tra disabilità e futuro. 

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