Come è noto, Romano Alquati è stata una figura centrale dell’operaismo politico italiano; meno noto il percorso successivo, negli anni Settanta e poi negli Ottanta e Novanta, in cui continua e approfondisce la sua elaborazione e modellizzazione del capitalismo contemporaneo. Comunque, nonostante la notevole produzione teorica, la centralità politica delle lotte che hanno investito la società nella seconda metà del Novecento e le avanzate analisi sul passaggio dal ciclo produttivo al ciclo riproduttivo, la figura di Alquati sconta a oggi alcuni limiti. La complessità delle sue elaborazioni da una parte e la scarsa diffusione dei suoi scritti dall’altra, lo mantengono confinato entro poche e ristrette cerchie di studiosi e militanti. Ostile se non dichiaratamente nemico tanto dell’attivismo politico in senso volontaristico quanto dell’opinionismo, il suo è un pensiero radicale, difficilmente circoscrivibile a una particolare disciplina.
Combattendo sia il rifiuto della sua complessa ricchezza in nome di un nuovismo superficiale e sradicato, sia la tentazione del culto della marginalità, dell’agiografia o dello specialismo per piccoli circoli, in questo articolo Francesco Bedani e Francesca Ioannilli – militanti delle nuove generazioni – spiegano con chiarezza teorica e politica perché Alquati va conosciuto, studiato e utilizzato.
Per approfondire si veda il volume curato da Bedani e Ioannilli Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati (collana Input di DeriveApprodi, 2020). A giugno DeriveApprodi avvierà la pubblicazione o ripubblicazione dei principali testi alquatiani a partire da un inedito, l’ultimo suo testo: Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L’industrializzazione della soggettività.
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Romano Alquati è una delle figure centrali dell’operaismo politico italiano. Nato a Clana nel 1935, cresciuto a Cremona, dove conduce le sue prime ricerche sulle trasformazioni del mondo agrario, a partire dagli anni Cinquanta si trasferisce prima a Milano e poi a Torino dove si avvicina al gruppo di Panzieri. Partecipa all’esperienza dei «Quaderni rossi» fino alla spaccatura della redazione, avvenuta dopo i fatti di piazza Statuto e che porterà alla nascita di «Classe operaia». Sono riviste che, seppur di vita breve, hanno rappresentato un fondamentale laboratorio di analisi sui processi di trasformazione del neo-capitalismo italiano, il rapporto tra le forze nuove emergenti nelle fabbriche e i sindacati, la critica radicale al marxismo determinista e teleologico rappresentato dall’impostazione storicista del Pci, e soprattutto hanno contribuito all’organizzazione autonoma delle lotte operaie. È questa la fase più nota, quella della conricerca (su cui torneremo), delle categorie di composizione di classe e ricomposizione. Negli anni Settanta si concentra in particolare sull’università, sul suo ruolo nei processi di fabbrichizzazione della società e sulla nuova figura del proletariato intellettuale. Dagli anni Ottanta in poi si confronta con una nuova fase politica e personale che durerà fino alla sua morte. Continua percorsi di ricerca ed elaborazione in piccoli gruppi o in relativo isolamento, rimanendo comunque una figura di riferimento per generazioni di giovani militanti. In questi anni elabora il «modellone», tentativo di interpretare il sistema capitalistico complessivo attraverso un esercizio di astrazione, analizzando le diverse determinazioni del processo di riproduzione del dominio. Mette in luce il rapporto tra i piani alti (il rapporto asimmetrico tra macroparti contrapposte) che sono permanenti, e le trasformazioni nei piani bassi, le ristrutturazioni che permettono, mutando, il riprodursi dei processi di accumulazione e valorizzazione.
Eppure, nonostante la notevole produzione teorica, la centralità politica delle lotte che hanno investito la società durante tutta la seconda metà del Novecento e le sue avanzate analisi sul passaggio dal ciclo produttivo al ciclo riproduttivo, la figura di Romano Alquati sconta a oggi alcuni limiti. La complessità delle sue elaborazioni da una parte e la scarsa diffusione dei suoi scritti dall’altra, lo mantengono confinato entro poche e ristrette cerchie di studiosi e militanti. Per usare il lessico attuale, Alquati è fuori moda, oggi come ieri, non commercialmente attrattivo, finanche negli ambienti più critici o alternativi (definizione di cui, peraltro, sottolineava l’inconsistenza), ostile se non dichiaratamente nemico tanto dell’attivismo politico in senso volontaristico, quanto dell’opinionismo. Il suo è un pensiero radicale, difficilmente circoscrivibile a una particolare disciplina. Questo è sicuramente un bene, in quanto rivendica un punto di vista di parte e costruisce la sua analisi collocandosi in una parzialità. Lui stesso ammetteva di non scrivere per tutti, allergico alla nozione di «interesse generale», si serviva di strumenti e discipline differenti curvandole sempre a un dichiarato macro-fine: la fuoriuscita dal sistema capitalistico. Ma parzialità politica non deve necessariamente essere sinonimo di marginalità.
Si diceva, infatti, che questa specificità si dimostra un problema, o comunque non all’altezza della sua ricchezza e dei suoi propositi, qualora si trasformi in specialismo, o meglio specializzazione, cosa per pochi. La potenza e la pregnanza del suo pensiero – le ipotesi, le intuizioni, la sua capacità di anticipazione – è anzitutto potenziale da ri-mettere in moto e in circolo. È, per noi, fondamentale patrimonio di formazione politica. Allo stesso tempo, però, risulta limitato nel caso non si tenti di problematizzarlo, con la consapevolezza che le sue macchinette (così definiva i suoi libri) sono innanzitutto strumenti dichiaratamente incompleti. Alquati è allora utile ma non sufficiente, naturalmente esposto al rischio di rimanere prigioniero di quei problemi aperti che lui stesso evidenziava.
È dunque necessario evitare tanto una lettura agiografica, mitizzante e dogmatica, quanto il rifiuto della sua ricchezza in nome di un nuovismo superficiale e sradicato. Alquati ci insegna proprio – e ci pare fondamentale – la capacità di leggere le continuità nelle discontinuità e le discontinuità nelle continuità, una postura in grado di non cedere ad abbagli e di indirizzare lo sguardo e la prassi politica sul lungo periodo.
Sapere e contro-lettura
In che senso allora intendiamo Alquati strumento di formazione? E perché pensiamo che continui a parlare anche – e soprattutto – alle generazioni più giovani? Nei suoi interventi a essere costante è la provocazione, il rilancio continuo al ragionamento, l’elemento dinamico. La conoscenza è volta al tentativo di mettere in crisi l’esistente per aprire spazi di intervento politico. È solo così che si produce sapere critico: non si tratta di una forma di critica del sapere, sempre più di moda, sempre più fine a se stessa. È un processo di produzione di conoscenza nuova, fatto di tappe e momenti più o meno necessari.
Si tende generalmente a paragonare o porre in contrapposizione un sapere detto nozionistico a quello critico. Rifuggiamo dal primo, banalizzato e banalizzante nel senso di impoverente, e protendiamo verso il secondo. Quest’ultimo però non può esistere senza il primo. Un sapere critico che non abbia studiato ciò contro cui si vuole contrapporre è semplicemente alternativo, ossia un pensiero debole che sceglie di non misurarsi con la realtà e si accontenta di commentarla, osservarla e consumarla. Allora il senso del critico sta proprio nell’essere antagonistico e «contro».
Giocando con i suoi concetti, potremmo dire che ci sono almeno tre modi (o percorsi) per tentare di studiare e valorizzare la sua produzione teorico-politica – ma questo è valido per qualsiasi importante pensatore di cui valga la pena studiarne gli scritti. Il primo è quello che appartiene all’attore: imparare ciò che serve per un fine utile (come valore d’uso). Diventa in questo senso libro-merce, o in altre parole cultura libresca, neutralizzazione di qualsiasi valenza politica, feticismo. Il secondo appartiene alla persona: saccheggiarlo appropriandosi dei concetti più preziosi all’interno dell’ambivalenza tra potenziamento personale e arricchimento soggettivo. Il terzo appartiene al soggetto (o al contro-lettore, come Alquati definiva i militanti che leggono): studiarlo, non solo per conoscerlo, ma per interrogarsi a propria volta. Apprezzarne i momenti di rottura, gli scarti, i salti in avanti, l’importanza sostanziale del metodo. Studiarlo per utilizzarlo nell’oggi. Potremmo aggiungere che il terzo supera ed esclude il primo, però va raggiunto, perché non è dato a priori. La contro-lettura o lettura militante «sta e si sviluppa come attività selettiva e critica permanente dentro una conricerca permanente».
Insomma non basta comprenderlo, non lo studio per lo studio, ma l’appropriazione di un metodo e la sua applicazione, la messa a verifica delle sue ipotesi nella realtà sociale, sul terreno della pratica politica per i militanti, ma soprattutto il tentativo di rielaborarne le ipotesi. Qui sta per noi l’importanza e l’utilità politica che continuiamo a conricercare in Romano Alquati. È il tentativo di ridefinire le caratteristiche di una prassi politica efficace. Cosa intendiamo con efficace? Fondamentalmente costruire la capacità di saper cogliere i nodi giusti, saper scommettere sui soggetti potenzialmente baricentrali, ridefinire (o meglio ricomporre) un campo di forze, mettere in discussione e colpire i piani alti. Su questo Alquati si interroga e ci interroga. Questo è ciò che va ricercato, con la consapevolezza che le risposte andranno trovate sempre fuori da quelle pagine, là non ci sono ricette. Piuttosto ci viene suggerita una posta in gioco. Parliamo allora di collocazione, di metodo, potremmo dire di postura. Di come fare piuttosto che di cosa fare.
Si diceva preliminarmente il problema della diffusione. Ci chiediamo perché Alquati non è letto, non è studiato e non è nemmeno conosciuto. O perlomeno non lo è al pari di altre figure dell’operaismo politico italiano. Oltre al motivo ormai noto di essere una figura scomoda, non accomodante o compiacente, particolarmente ostica, si accennava alle questioni della diffusione e della scrittura. Non è faccenda di ordine squisitamente tecnico. Oltre all’irreperibilità dei suoi testi, specialmente la produzione che va dagli anni Ottanta in poi, finora in buona parte inedita [1], si rende evidente un secondo motivo non appena ci si approcci ai suoi scritti, densi e duri, come lui stesso ammetteva. Le reazioni di fronte a tale complessità sono almeno due: rifiuto e fascinazione. La prima rischia di non comprendere la tensione espositiva di ipotesi aperte, di una costruzione a spirale che continuamente ritorna e aggiunge, di un ragionamento sempre in divenire, teso allo sviluppo di contro-percorsi e quindi irriducibile a semplici enunciati. La seconda, la fascinazione, espone invece al pericolo di mitizzare tale complessità espositiva, innamorandosene a discapito della necessaria traduzione e semplificazione dall’alto al basso, della scommessa politica da mettere in pratica.
Ribaltiamo allora la domanda e arriviamo al sodo: perché secondo noi Alquati va conosciuto, studiato, utilizzato? Non certo per riprodurre una scuola separata, ma per formare e formarci a un metodo. In altre parole, partire da Alquati per andare oltre Alquati stesso, interrogandoci e soffermandoci attivamente a nostra volta sui problemi aperti.
Il contro-percorso come problema
Ecco che allora Alquati si presenta innanzitutto come problema. O meglio, è un problema nel momento in cui si immagini e si venda come soluzione. Da una parte il problema ci è posto da Alquati stesso, è il motivo per cui scrive, per cui pensa e vive: la costruzione del contro-percorso. Per contro-percorso intendiamo il processo di trasformazione della soggettività che attraverso la contrapposizione ai macro-fini del percorso ufficiale (quello capitalistico) individua macro-fini differenti e contrapposti, capaci di rompere quel rapporto asimmetrico che struttura la società complessiva. In altre parole la sottrazione al ruolo di attore, il divenire contro-soggetto. A questo problema non ci restituisce risposte, ne fa cenno, lo lascia in sospeso. Ma qui il problema aperto non è problema in sé, in quanto si propone come campo di tensione, di ricerca e sperimentazione. Il problema allora si concretizza quando viene risolto con Alquati stesso, in una sorta di trasfigurazione tra significato e significante – se ci è permesso di prendere in prestito un lessico non esattamente suo. In quel preciso istante si recide la dinamica processuale del suo metodo e della sua impostazione politica. Il problema si fa risposta, si autoregge, le ipotesi si chiudono su loro stesse e iniziano a girare a vuoto. Insomma, il sistema aperto e ipotetico basta a se stesso, si autogiustifica. Chiariamoci, è lo stesso rischio che corriamo scrivendo questo articolo, o più in generale quando un pensiero politico rimane su carta.
Facciamo un altro passaggio. C’è un soggetto principale in questo ragionamento, quello che Alquati definisce «militante intermedista». È colui che dovrebbe agire il contro-percorso, attivare processi di contro-soggettivazione sapendosi collocare, sapendo cogliere le linee di forza, i comportamenti ambivalenti, le politicità intrinseche. Colui che spezza e ricompone la separatezza tra piani alti e piani bassi, tra teoria e pratica. Non è solo esercizio di pensiero, sforzo definitorio, è il tentativo di dargli forma concreta attraverso la critica tanto a una teoria che viaggia slegata dal piano materiale, quanto al compiacimento di una pratica senza elaborazione teorica. Ciononostante si riproduce il problema nel momento in cui il militante diventi autodefinizione di sé. È lo stesso problema di prima, che Alquati risolve, forse, con la conricerca come carattere peculiare della militanza. In un certo senso il problema che rimane aperto – come costruire il contro-percorso da contrapporre al percorso ufficiale descritto dal «modellone» – viene infine chiuso guardando l’esperienza militante della stagione della Fiat, le lotte autonome nella fabbrica, la formazione della controsoggettività operaia. La domanda diventa dunque come portare l’inattualità del pensiero operaista nell’attualità? Come ripensare l’organizzazione autonoma nella nostra epoca? La risposta rimane aperta, come il problema che ne è sotteso. O ancora, qui ci avviciniamo forse al punto: come costruire un contro-percorso nel superamento della fabbrica (la produzione con la p minuscola) e il passaggio alla riproduzione-allargata?
Un passo indietro
È attraverso il suo sguardo militante che Alquati arriva a costruire, dagli anni Ottanta in poi, una mappa funzionale del sistema complessivo. Il «modellone» è un tentativo di interpretare e sistematizzare la realtà capitalistica, un’astrazione della società in cui viviamo. Dall’asimmetria specifica tra macroparte capitalistica e macroparte proletaria che struttura dal vertice alla base il sistema complessivo, si muove sui differenti livelli di realtà per descrivere e analizzare il funzionamento dei processi che consentono accumulazione e valorizzazione; per semplificare, la riproduzione del dominio e lo sfruttamento. Il nucleo del «modellone» è l’attività, potremmo dire la posta in palio, continuamente lavorizzata attraverso la sistematica espropriazione e mezzificazione delle capacità degli agenti. Il punto di vista da cui prende le mosse questa analisi è chiaramente quello del capitalista, attraverso tale sguardo compone la struttura gerarchica della società. Ma il sistema descritto da Alquati è un sistema aperto, è una teoria della latenza perché soprattutto ricerca le possibilità della costruzione di un contro-percorso, la sottrazione dal dominio capitalistico e il ribaltamento soggettivo dei macro-fini. In questo senso in Alquati, nonostante il «modellone» – o meglio, proprio a partire da esso – non c’è determinismo. Tale esercizio di astrazione è una griglia di interpretazione, non una gabbia. E se il «modellone» può essere inteso come il risultato teorico del lavoro di Alquati, la critica al determinismo e all’oggettivismo tanto del discorso del capitale, quanto del marxismo italiano e delle istituzioni operaie, è la cifra della sua collocazione politica.
Il contro-percorso, già si diceva, nonostante si presenti come «soluzione», nel passaggio alla fase iperindustriale rimane in realtà il grande problema aperto. Viene accennato ma non risolto. La risposta è, di nuovo, da costruire nella militanza politica.
È noto il suo fastidio quando gli veniva attribuita l’invenzione della conricerca. La conricerca, diceva, la fanno tutti i militanti, o meglio l’hanno sempre fatta. Potremmo forse aggiungere che è la condizione d’esistenza di un militante, ciò che lo differenzia tanto da un attivista quanto da un intellettuale. Il militante è allora quella figura che si colloca e sa muoversi su differenti livelli di realtà, dall’alto al basso e viceversa, ritraducendoli tra loro. La capacità di ricomporre la separatezza tra conoscenza e organizzazione, o ancora la rottura della dicotomia tra spontaneismo e organizzazione, l’organizzazione della spontaneità. Da questa angolatura il metodo – che è metodo di formazione di un pensiero rivoluzionario, capacità di osservazione, di valutazione, di individuazione di possibili spazi di conflitto, di costruzione – non è semplicemente una lista di norme a cui conformarsi, ma innanzitutto un bagaglio di saperi e conoscenze che si forma all’interno della conricerca stessa e nella costruzione di processi di contrapposizione. In Per fare conricerca chiarisce: «Il metodo è meglio vederlo man mano che la pratica di ricercare va avanti e non solo come pistolotto separato. Evitiamo di predicare prima nel vuoto la metodologia, e poi fare la ricerca, perché avendo già assimilato poco nessuno poi si ricorda il come-fare. Il metodo deve essere tutto applicato e allora meglio parlarne applicandolo».
Torniamo al problema posto in partenza
Ci sembra evidente che a partire dagli anni Ottanta Alquati si confrontasse innanzitutto con un salto di paradigma tanto estrattivo quanto di soggettività. Dal punto di vista del capitale lo ha descritto come passaggio all’iperindustria, l’intensificazione e il dispiegamento della lavorizzazione della capacità che sempre più iniziava a puntare sul nodo della riproduzione, scomponendo e frammentando le capacità stesse. Dall’altra parte si trovava a fare i conti con una crisi del pensiero militante, non più in grado di cogliere i nodi giusti, disorientato sul mutamento di fase, sulla ricerca dei soggetti, sulla trasformazione delle forme del lavoro. Per questo ci sembra che Alquati si sia impegnato così a fondo nell’individuare il rapporto tra permanenza dei livelli gerarchicamente strategici che compongono il dominio e il mutamento dei livelli più bassi che si esprimono nei fenomeni. Qui sta il senso politico del «modellone».
Per semplificare, allora, la questione va riposta forse all’interno della crisi delle forze antagoniste di quegli anni. In questo senso il suo essere «cane in chiesa», per quanto elemento di irrinunciabile impegno politico, è anche sintomo di ciò che non andava all’interno del panorama movimentista. La conricerca rimaneva e rimane così un metodo che non è più riuscito a esprimere con costanza e direzione strategica la sua utilità politica, mancando innanzitutto i soggetti che la praticassero. Di conseguenza il contro-percorso rimane problema aperto, che non può essere Alquati a risolverci, in quanto pienamente interno al problema stesso. Il problema assume connotati diversi, di natura collettiva. Parla alla progettualità politica, alla crisi delle forme della militanza, innanzitutto al vuoto nella dimensione formativa. Nella stessa differenza che passa tra critica del sapere e sapere critico, contro-lettura.
Note * Una versione più lunga di questo articolo uscirà per il volume di F. Di Blasio, a cura di, Quaderni di «Potere e sapere». Dall’operaismo a Marx, Pellino, Palermo 2021. [1] Nel momento in cui scriviamo la casa editrice DeriveApprodi ha in progetto la pubblicazione di alcuni inediti, a partire dal suo ultimo inedito, Sulla riproduzione della capacità umana vivente.
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