Il 21 settembre scorso ci ha lasciati Alberto Magnaghi, esponente di alto rilievo dell’operaismo italiano, segretario di Potere operaio, fondatore e animatore negli anni Settanta del dipartimento di Scienze del territorio presso il Politecnico di Milano e della rivista «Quaderni del territorio», incarcerato e inquisito nel processo «7 aprile», fondatore e animatore della Società dei territorialisti, autore di numerosi saggi e di tante, tante altre cose ancora. Riportiamo la trascrizione, riveduta, di due interventi improvvisati fatti in suo ricordo da Aldo Bonomi e Sergio Bianchi, il giorno successivo alla sua scomparsa, nel contesto del Festival Kritik svoltosi a Bologna: sono due «ritratti» che esprimono bene la poliedricità di Alberto.
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Aldo Bonomi: Bene, grazie dell’invito, mi scuserete, io non sono abituato a leggere, io parlo a braccio. Però, trattandosi di una cosa che mi entra dentro, mi permetterete di leggere quello che ho scritto come preambolo per Alberto, poi vi do la decodifica, dato il quadro. La morte di Alberto è una cosa che mi entra dentro. Ho scritto una sorta di lettera: «Caro Alberto, non ci siamo mai persi dai giorni in cui osammo volgere lo sguardo al cielo per poi riabbassarlo per continuare a voler cambiare, ripartendo dai tuoi “Quaderni del territorio” e dal mio continuare a cercare per continuare a capire». Riparto dai famosi anni Ottanta che Machina staripercorrendo. In quegli anni si andava per comunità montane, cose che oggi sembrano inusuali – oggi si chiamano aree interne e sono diventate molto di moda –, ripartendo dal locale, dagli agenti di sviluppo, fabbrichetta per fabbrichetta, nel post-fordismo della fabbrica diffusa, termine a voi ben noto e chiaro. Lì nasce il percorso: dalle fabbrichette, dalla fabbrica diffusa, sino ad arrivare a confrontarsi con Beccattini, con De Rita, riscoprendo le «comunità concrete» del Vento di Adriano (Olivetti). Abbiamo pubblicato un libro con questo titolo: era un dialogo tra Revelli, Magnaghi e me, e lì riscoprivamo in termini critici sia la dimensione della fabbrica olivettiana – a riguardo rimando ai testi di Alquati che ragionava sulle differenze tra Fiat e Olivetti – sia il rapporto tra la fabbrica e il territorio, e dentro il territorio il concetto appunto di «comunità concrete» di Adriano Olivetti. Ma non eravamo solo fabbrichisti, eravamo «strabici» ovviamente, perché dentro questo discorso di percorso territoriale tenevamo assieme due concetti: la coscienza di classe – la frammentazione della coscienza di classe, la sua scomposizione e ricomposizione sul territorio – e ovviamente la coscienza di luogo. Mettere assieme queste due cose è una tematica direi molto magnaghesca, molto boniomiana, ma credo sulla quale occorrerebbe attualmente interrogarsi. Ed eravamo strabici, o se volete sincretici – coscienza di classe e coscienza di luogo è un sincretismo – eravamo strabici nel sincretismo di uno sguardo che teneva in conto i muretti a secco delle Langhe, e anche della mia Valtellina. Quando dico muretto a secco intendo dire i percorsi di civiltà materiale che avevano scavato nei territori e nei luoghi. Ovviamente non sostengo di rinserrarsi nei muretti a secco, ma di ragionare sulle metamorfosi della città, sull’analisi della «città infinita»; si vedano a riguardo, oltre ai miei, i lavori di Giuseppe Dematteis, un altro sodale di Magnaghi, sulla «metroregione», la metropoli che si mangia la montagna, il concetto eterotopico di «bioregione», che tiene dentro di sé il bios nell’epoca dell’antropocene, dei flussi di cambiamento e della crisi ecologica. Questa era l’operazione culturale della riscoperta del territorio fatta con Alberto, e qui ci aveva aiutato molto Walter Ganapini che aveva anticipato la crisi ecologica che veniva avanti. Per far questo si sperimentavano percorsi di lavoro territoriali, o se volete utilizzare un linguaggio «antico», di inchiesa e conricerca. Abbiamo ragionato sui «patti territoriali», e Alberto ha ragionato sui «contratti di fiume», ipotizzando che fosse possibile, seguendo il venire avanti dei fiumi, un contratto di ecologia e di cambiamento. Si trattava sempre di una ricerca di tracce, di embrioni, di comunità concrete tendenti all’autogoverno. Ma, attenzione, non eravamo alla ricerca di margherite, eravamo sempre attenti alla scomposizione e alla ricomposizione dei lavori. Seguivamo i ragionamenti di Sergio Bologna sul lavoro autonomo di prima, seconda e terza generazione, che era intrecciato al percorso dei territori. Non era solo un problema di ecologia della terra, ma di ecologia della mente e di ecologia delle forme dei lavori. Poi Alberto ci chiamava con confidenza al confronto della sua piccola comunità che si era fatta Società dei territorialisti. Qui emerge l’ultimo libro di Alquati pubblicato da DeriveApprodi sui giovani studenti nell’università. Alberto, a differenza di Alquati, è stato in università più «baronale» (anche se si incazzerebbe a sentirselo dire), infatti ha costruito una sua «lobby» non da poco, la Società dei territorialisti, che ha coltivato una visione critica dell’urbanistica che ha contaminato l’accademia. Ci chiamava ai suoi convegni nelle Langhe, in Puglia, a Castel dell’Ovo, a Firenze, a Venezia, insieme ai suoi studenti, ai suoi ricercatori. E lì ci si sentiva a casa, non come «cani in chiesa», come avrebbe detto Alquati, ci si sentiva a casa perché si era dentro quel processo di riflessione che riguardava l’iperindustrializzazione del territorio, dei lavori, del cambiamento, perché la questione ecologica è anche iperindustrializzazione. Alberto su questi temi è stato maestro fino all’ultimo, con il suo librone titolato Ecoterritorialismo, un titolo che è una parola d’ordine, un’attenzione ai grandi processi di civilizzazione, perché l’eterotopia di Alberto era la democrazia dei luoghi, azioni e forme di autogoverno comunitario. Mi mancherà molto Alberto, mi rompeva le palle ogni quindici giorni seguendomi microcosmo per microcosmo, e ogni volta che il microcosmo parlava più delle imprese che del sociale lui diceva: «Eh, Bonomi, hai parlato più delle imprese che del sociale». Poi mi rimbrottava perché a volte nei miei lavori non c’era una bibliografia di riferimento: «Ah, Bonomi, ma non c’è la bibliografia…». Vi ringrazio di avermi forzato a questo ricordo di Alberto, non solo individuale ma anche collettivo.
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Sergio Bianchi: Non ho preparato questo intervento, per cui lo farò un po’così, improvvisando, anche perché sono ancora segnato dalla scomparsa di Alberto che è stato una persona importante per la mia formazione, per quello che ho vissuto e fatto fin qui. Da quando l’ho conosciuto ho avuto con lui una frequentazione non quotidiana, ma intensa dal punto di vista affettivo e culturale. Prima di tutto ringrazio ancora Aldo, e ricordo che io, lui e Alberto siamo tutti e tre prealpini, montanari, frequentatori dei «muretti a secco». Alberto era insediato nelle Langhe dove ha fatto molta sperimentazione ed esperienza pratica di costruzione di una sua comunità, amava tantissimo quel territorio. Io mi sono insediato, diciamo come seconda abitazione, in Val D’Ossola, mentre Aldo è originario della Valtellina. Siamo montanari che si sono sempre occupati di città e di metropoli, e questo è un po’ paradossale. Voglio ricordare alcuni tratti particolari di Alberto. Intanto non è secondario il fatto che suo padre è stato un grandissimo geografo italiano. Poi un’altra cosa curiosa è che era un raffinato suonatore di armonica a bocca e con un quartetto nel ’59 ha vinto addirittura il campionato mondiale. Quindi era un personaggio piuttosto curioso, per via di queste sue passioni.
Alberto è stato dal ’63 al ’69 segretario della sezione universitaria del Partito comunista a Torino. Ma nello stesso periodo aveva stretto relazioni con l’area dei «Quaderni rossi» prima e di «Classe operaia» poi. Nel ’69 aveva aderito a Potere operaio e tra il ’70 e ’71 di quell’organizzazione è divenuto segretario nazionale. Ha ricoperto quella carica così impegnativa in un momento delicato in cui Potere operaio ha tentato una fusione con il gruppo de «il manifesto», operazione che poi non andò in porto. Dopo di che si è dimesso da quella carica e ha seguito le vicende dell’organizzazione fino alle sue scissioni e poi scioglimento con uno spirito critico e autocritico, quindi con un certo disincanto. All’interno di Potere operaio Alberto aveva portato un sapere singolare e prezioso relativo all’analisi della «città fabbrica», un concetto che aveva elaborato Romano Alquati.
Io ho avuto modo di conoscerlo nel ’77 perché è stato tra i miei professori al Politecnico di Milano. Una parte rilevante di studenti militanti dell’area varesina, e nello specifico tradatese, nella seconda metà degli anni ’70 si era iscritta appunto al Politecnico di Milano scegliendo i piani di studio del dipartimento di Scienze del territorio che era stato creato da Alberto. Attorno a sé aveva creato un’area di bravi docenti e ricercatori e a supporto di quel dipartimento ha fondato una rivista straordinaria e importantissima per quegli anni: «Quaderni del territorio». I numeri di quella rivista sono consultabili nella loro interezza sulla rivista «Machina». Quel che si studiava con una certa sistematicità, e mettendo a frutto gli insegnamenti della conricerca di Romano Alquati, era il fenomeno indotto dalla ristrutturazione produttiva in corso negli apparati industriali dei territori: il decentramento produttivo e la cosiddetta fabbrica diffusa. Mi ricordo un convegno straordinario sull’«occupazione giovanile» organizzato proprio da «Quaderni del territorio» con altre riviste tra le quali «Primo maggio», «aut aut» e «Marxiana» proprio al Politecnico.
Quella è stata la genesi, diciamo, del mio rapporto con Alberto che è stato quindi un rapporto di studio, di analisi di conoscenza di quello che stava accadendo di rilevante, soprattutto nei territori che abitavamo. È ovvio che l’area militante trovava in quegli strumenti un sapere prezioso che poi utilizzava nella progettualità e nella pratica politica. Tutte quelle vicende si sono poi risolte nella repressione di fine anni Settanta. Infatti una parte di quegli studenti, e lui, il massimo esponente del dipartimento di Scienze del territorio, sono finiti in galera, tant’è che ho avuto modo di rivedere Alberto nei cortili del carcere di San Vittore a Milano. Però sembrava che alcune delle sue passioni non fossero cambiate molto. Oltre all’armonica aveva iniziato a suonare il flauto, e poi accroccava degli aereoplanini con della balsa che durante le «ore d’aria» lanciava nei cortili. Il più delle volte andavano dall’altra parte del muro, allora ne costruiva altri. Però, oltre a quelle occupazioni, non aveva smesso di lavorare, di studiare. In quel periodo, all’interno di quel carcere si conducevano dei seminari su temi vari, anche i suoi, ai quali partecipavano alcuni prigionieri politici, ma anche «comuni». Inoltre Alberto rimarcava fortemente l’importanza dei rapporti che aveva costruito, prima della carcerazione, nella sua comunità nelle Langhe. Da quei racconti emergeva la sua personalità ironica, gentile, attentissima agli aspetti relazionali, affettivi, alle cose ultime, e penultime.
Poi siamo stati tutti sballati in altre carceri. Io nello speciale di Trani, lui a Rebibbia, a Roma dove sono erano stati concentrati la maggior parte degli imputati del suo processo, che era quello del cosiddetto «7 aprile». In seguito a quella separazione il nostro rapporto è proseguito attraverso la corrispondenza, sotto censura, che abbiamo tenuto per parecchio tempo. Io ero molto giovane, l’ho conosciuto come mio professore ed è poi diventato non solo un mio compagno ma anche un amico, un fratello. Un rapporto che è rimasto, anche se non intensamente coltivato nel corso di tutti i decenni successivi, tant’è che come casa editrice DeriveApprodi sono stati pubblicati tre dei suoi molti libri, uno l’ha ricordato Aldo, Vento di Adriano (scritto con Aldo stesso e Marco Revelli); il secondo è sull’esperienza dei «Quaderni del territorio», una riflessione sul passaggio «dalla città fabbrica alla città digitale», con una serie di interventi di ex redattori della rivista; il terzo è Un’idea di libertà, che è il suo diario dal carcere. Lui era stato incarcerato nella seconda ondata degli arresti del «7 aprile» che è avvenuta il 21 dicembre del ’79. Ha scontato quasi tre anni di carcerazione preventiva, poi è stato condannato, a conclusione del primo processo nell’84, a 7 anni, condanna in seguito annullata nel processo di appello nell’87 dove è stato assolto, quindi ha scontato quasi tre anni di carcere gratis. Uscito dal carcere gli hanno diagnosticato un tumore. Eravamo molto preoccupati della cosa, però fortunatamente Alberto è riuscito a vivere fino a ieri, è riuscito a combattere il male ed andare avanti con il suo lavoro, fino alla fine, come hanno fatto tutti gli altri nostri vecchi compagni che ci hanno lasciato. A conclusione vorrei aggiungere un paio di cose relative ad Alberto. Si tratta di alcune sue narrazioni rilasciate in occasione di una intervista, nel 2002, che compare nella pubblicazione di un libro edito da DeriveApprodi, Futuro anteriore, a Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, poi ripresa nella pubblicazione del libro anch’esso edito da DeriveApprodi Gli operaisti. In quella occasione Alberto è ritornato su alcune questioni che già dopo il suo arresto ribadiva all’interno del carcere, nelle conversazioni, nelle discussioni e a volte nei litigi che avvenivano nelle celle, nei cortili, in occasione dei cicli seminariali ai quali ho accennato ecc. La sua visione era singolare, era particolarmente critica e autocritica rispetto al percorso che era stato fatto precedentemente e di cui lui era stato tra i massimi protagonisti nell’area operaista e in specifico in Potere operaio. Per rendere conto di ciò la cosa più semplice è leggere questi passaggi perché Alberto ha sempre avuto il pregio di parlare e scrivere in maniera limpida.
«L’operaismo italiano di cui ho fatto parte non ha mai messo in discussione le teorie tradizionali dello sviluppo. I temi centrali erano la redistribuzione del reddito prodotto e la classe operaia come motore dello sviluppo: ma quale sviluppo? Quello dato!». E continuava: «Un limite di quell’epoca, di questo nostro ragionamento intorno al conflitto di classe come motore dello sviluppo, il rifiuto del lavoro e via dicendo, è che non veniva messo in discussione poi il tipo, la qualità, il modello dello sviluppo: quindi, c’era un discorso puramente riappropriativo e redistributivo della ricchezza tra le classi. Questo forse anche perché allora effettivamente pensare che quell’operaio astratto, così lontano dai fini della produzione, potesse occuparsi di ecologia, di ambiente, di qualità della produzione e legare la propria lotta a uno sviluppo diverso, era forse anche impossibile data la natura del lavoro. Voglio dire che c’è anche una difficoltà oggettiva a pensare all’operaio Fiat (per fare un esempio di una figura espropriata di sapere tecnico, espropriata dell’orto, espropriata del sapersi farsi una casa, espropriata di tutto, ridotta a pura forza-lavoro astratta in una metropoli) come soggetto di un altro sviluppo. Probabilmente l’orizzonte era quello di smantellare questo tipo di organizzazione sociale con la quale era impossibile pensare a uno sviluppo diverso, più attento all’ambiente, più equilibrato ai valori dell’alimentazione, di cosa pensiamo oggi della vita, della qualità della vita, della lentezza nel tempo. Tutto ciò è più pensabile in una società dove i produttori hanno la possibilità di produrre territorio, qualità territoriale, qualità ambientale, di produrre merci sane, cosa che allora era probabilmente irrealizzabile dentro una società che andava da tutt’altra parte, cioè industria di massa, consumo di massa, trasporti di massa, quartieri di massa, cibi di massa, vacanze di massa, ospedali di massa, era tutto di massa e quindi non c’era il campo per pensare a un modello di vita diverso. Con questo non voglio però giustificare l’assenza totale di barlumi di consapevolezza rispetto a ciò. È per questo che io chiamo il movimento del ’68 l’ultimo della società industriale e il primo della società postindustriale, perché presenta aspetti intrecciati al culmine dell’operaizzazione della società, ma gli studenti portano anche le prime problematiche di fuoriuscita dalla società di massa industriale».
Queste sono affermazioni, molto profonde e chiare, allora non erano prese in giusta considerazione, probabilmente perché entravano in contraddizione con l’agire politico delle organizzazioni, non solo di area operaista ma di tutto il movimento rivoluzionario, e infatti chiude dicendo: «Se si rileggono “Quaderni rossi”, “classe operaia”, “Potere operaio”, si nota che non c’è questa tematica della trasformazione del modello di sviluppo come guida poi di un discorso di militanza politica. Mentre nel movimento queste istanze cominciano a nascere fin da allora e poi si svilupperanno pesantemente negli anni Novanta e fino a oggi, fase in cui sono alla base di tutti i movimenti antiglobalizzazione, di tutti i movimenti propositivi di iniziativa di base, ma anche del dibattito istituzionale». Io credo che queste sue convinzioni, maturate già prima di entrare in carcere, siano state alla base di quello che ha poi fatto, diciamo, nella seconda parte del suo impegno. All’epoca queste sue posizioni a molti risultavano sgradite perché sembravano rinnegare un percorso politico, sembravano una forma di disimpegno. In realtà lui voleva che fosse fatta un’operazione di cambio di visuale, di prospettiva, spostando l’attenzione sulle espressioni concrete dei movimenti post ’68 e soprattutto nel movimento prodotto dalla crisi dei gruppi extraparlamentari, quello del ’77, del quale i suoi ceti politici non avevano capito la sostanza. Tanto è vero che dice: «I movimenti di Potere operaio, di Lotta continua, dell’Autonomia non sono stati molto chiari in mezzo a [quel] casino. Io ricordo nel marzo ’77 la situazione molto confusa a Bologna in quelle grandi manifestazioni: 100.000 persone in piazza che esprimevano una nuova progettualità, gli infermieri di Napoli che discutevano di come trattare i malati, le donne, le cooperative, i Centri sociali ecc. A Milano in quel periodo abbiamo censito circa 200 Centri sociali che non facevano solo attività di militanza, facevano musica, artigianato, cultura, cioè erano centri propulsivi di una nuova società che si andava costruendo. A Bologna allora c’erano 100.000 persone, come le 300.000 di Genova del 2001: erano una società civile che portava progettualità, che praticava progettualità in microimprese, nel no profit, nel terzo settore, nella nuova cooperazione; rifiorivano cooperative nelle campagne, agricoltori biologici, artigiani, cultura alternativa. Esisteva una società in nuce, come quella che si sta esprimendo oggi con il movimento antiglobal, che ha tante facce (produttive sociali, culturali, sindacali ecc.). A fronte di questa società civile che esprimeva una domanda di gestione politica c’erano, asserragliati nel palazzetto dello sport di Bologna, 5000 militanti che aspiravano a essere il ceto politico di questa nuova società: c’erano i discendenti di Lotta continua, i gruppi dell’Autonomia, vari altri gruppetti, che discutevano dell’egemonia del processo di militarizzazione, della lotta armata da contendere alle Br. Quindi, uno stacco a mio parere totale tra questa generazione politica di militanti e questa formazione sociale, che delusa e abbandonata dalla sinistra istituzionale, chiedeva costruzione politica in forme nuove, sperimentazioni di nuove forme di organizzazione del lavoro sociale, il governo del processo di radicamento istituzionale dell’innovazione sociale (io avevo scritto un lungo diario su questa divaricazione fra società civile e ceto politico, l’avevo scritto a Bologna seguendo quelle giornate e annotando questi commenti: mi è stato sottratto quando mi hanno arrestato per il processo 7 aprile, me l’hanno fatto sparire e non me l’hanno mai restituito, perché era una prova a mio discarico di cosa pensassi allora del processo di militarizzazione). Dunque, c’è stato questo aspetto negativo del non aver saputo inventare, partendo da questa grossa mobilitazione, nuove forme di organizzazione non dico partitica ma di aggregazione, di guida del processo insomma».
Anche questa è una critica, condivisibile o meno, molto radicale di quello che è accaduto in quel frangente, che effettivamente ha poi determinato la cosiddetta militarizzazione del movimento del ’77 e il passaggio alla pratica della lotta armata diffusa, e quel che ne è seguito come carcerizzazione di massa e distruzione di tutto quel progetto, non solo di quello politico militante, che aveva optato per questa scelta, ma anche di tutti gli altri aspetti che lui ribadiva come ricchezza espressa dentro il movimento del ’77. Ecco questi sono questioni molto discusse allora, e anche contestate e intese come cose un po’ «di destra», perché dentro la sua militanza politica, e soprattutto in Potere operaio, Alberto era considerato quello un po’ «di destra» perché diceva queste cose, che oggi invece suonano, secondo me, come molto «di sinistra».
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Aldo Bonomi fondatore e coordinatore del Consorzio Aaster, ha pubblicato negli ultimi trent’anni numerosi testi sul cambiamento dei territori italiani nella loro dimensione produttiva, sociale e antropologica. Tra questi Il trionfo della moltitudine (1996), Il capitalismo molecolare (1997), Il distretto del piacere (2000), Il rancore (2008) e Il capitalismo in-finito (2013). Ha diretto la rivista «Communitas» e dirige la collana «comunità concrete» di DeriveApprodi, con la quale ha pubblicato (insieme a Marco Revelli e Alberto Magnaghi) Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora (2015). Dal 2004 cura la rubrica Microcosmi sul quotidiano «Il Sole 24 Ore».
Sergio Bianchi ha lavorato per il cinema e la televisione. È stato tra i fondatori della rivista e poi della casa editrice DeriveApprodi, di cui è stato amministratore e direttore editoriale per 25 anni. Ha curato diversi saggi sui movimenti politici degli anni Settanta
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