Ci sono parole che prima di altre perdono le proprie radici: una è senz’altro «Comune», l’obliterazione del cui senso aggettivale è coincisa con l’ascesa devastante di una politica che non conosce la negoziazione e la cooperazione; un’altra è «cultura», di cui non molti ormai ricordano il rapporto originario con «coltivare». Nella sua natura verbale, operativa (quindi così lontana dalla nostra idea museografica di cultura come polveroso sedimento di azioni trascorse), «coltivare» esprime una delle due declinazioni possibili dell’abitare – l’altra essendo «occupare»: si tratta, nel primo caso, di una relazione biunivoca fra uomini e luoghi, di un patto di mutua solidarietà che viene stipulato, modificato, ricontrattato, a volte spezzato e ricostruito altrove, a seconda della convenienza dei contraenti, che vi figurano entrambi come soggetti a pari titolo; nel secondo, di un’azione trasformativa unidirezionale e irreversibile compiuta da un soggetto su di un oggetto passivo, la cui unica opzione consiste nell’aderirvi più o meno docilmente.
I modelli abitativi sottesi a ciascuna accezione sono opposti e complementari: la relazione paritaria vive tipicamente in campagna, dove gli umani interagiscono in continuità con altri organismi viventi dando vita ad un metaorganismo ecosistemico capace di crescere, riprodursi ed evolvere; l’azione perentoria ha invece come suo simbolo la metropoli, conglomerato potenzialmente sterminato di macchine e cose morte in cui uomini e donne si muovono come in un campo da gioco, uno spazio vuoto già conosciuto una volta per tutte e che consacra la vittoria finale di una specie sulle sue stesse determinanti organiche. Là dove il coltivare crea cooperazione, soccorso, unione, l’occupare vede competizione, dominio, separazione – e diventa nel caso estremo (purtroppo non solo idealtipico) occupare militarmente; due ipostatizzazioni opposte vi si fronteggiano, l’Uomo e l’Ambiente, ciascuna con la sua storia e la sua geografia, tra cui piuttosto che patti durevoli si stipulano semmai armistizi temporanei, volti a ridurre al minimo le interferenze reciproche e a garantire la sovranità di ciascuno.
Ho parlato di complementarietà, non di interdipendenza. Se infatti è vero che i due modi (con varie gradazioni) interagiscono sistematicamente e, insieme, coprono l’intero campo dell’abitare, è vero anche che il loro rapporto di dipendenza reciproca è fortemente asimmetrico: una volta dato il via alla reazione a catena della coevoluzione locale, il coltivare – in linea di principio – non ha più bisogno dell’occupare di quanto un villico abbia bisogno del curioso diversivo dato dall’arrivo di un forestiero; in linea di fatto, invece, senza il coltivare l’occupare muore, di fame se non di altro: in tempo di guerra, carestia o (come ora sappiamo fin troppo bene) pestilenza, sono i cittadini urbanizzati che si rifugiano in campagna, non il contrario. È solo grazie alla persistenza autonoma del coltivare che l’occupare può dimenticarsene: di quella persistenza si trova ormai solo una traccia, obnubilata e neutralizzata, nel vuoto mito di una Natura primigenia e indipendente dalla nostra volontà, un «totalmente altro» (Horkheimer) che, stia bene o male, sta bene comunque dove sta.
L’occupare, però, tende per sua natura a dilatarsi: una volta stabilite con successo le condizioni di dominazione, non c’è ragione per non estenderle a sempre nuovi contesti spaziali (ma anche sociali, economici, culturali, in una parola territoriali); e una volta rese accidentali le «condizioni al contorno», non c’è ragione per non considerarsene affrancati una volta per tutte, riproducendo in serie forme di insediamento modulari e aggressive che, mentre rendono il territorio sottostante poco più che «il foglio bianco dell’ex tempore» (Magnaghi), allargano i domini dell’occupare riducendo proporzionalmente quelli del coltivare. Questo naturalmente salvo poi, all’improvviso, accorgersi che la tendenziale estinzione del coltivare sta lasciando senza radici e senza cibo gli stessi occupanti; e quindi intervenire – tardivamente – con filosofie di retroguardia troppo generali e azioni di mitigazione troppo circoscritte per poter funzionare: tendendo così la mano all’avversario giusto perché si rialzi quel tanto che basta per poter riprendere, in tutta coscienza, a bastonarlo.
È questo il concetto di sostenibilità che l’abitare come occupazione dello spazio porta con sé: la carrying capacity, ovvero l’interessata preoccupazione di quanto carico riuscirà a sopportare un asino prima che, ammalandosi o morendo, ci alieni definitivamente i suoi servigi. È una sostenibilità che, benché si rivesta di tinte morali, rimane esclusivamente fisica e tutta a carico del destinatario, la carità pelosa con cui teniamo temporaneamente in vita un questuante importuno per quanto utile: il suo obiettivo è non distruggere valore più del necessario, in modo che la nostra posizione di dominio perduri il più a lungo possibile. Creare valore, valore durevole e condiviso, è invece il contenuto dell’altro tipo di sostenibilità, quello che lavora per «coltivare» sinergie coevolutive fra abitanti e ambiente; entità che qui tornano a essere concettualizzazioni puramente strumentali, nomi provvisori dati alle parti di un unico organismo vivente di ordine superiore: la Gaia di Lovelock e Margulis, o l’altrettanto celebre astronave, in corsa perenne nello spazio, che non può mai fermarsi a vuotare le stive o a fare rifornimento.
Credo che oggi, quando tanto spesso (e spesso a sproposito) si parla di «cultura del territorio», sia nostro dovere tornare al senso originario della parola ‘cultura’ e al suo legame strutturale – non solo etimologico, dunque – con il verbo che abbiamo visto esprimere il significato positivo, creativo, vivo del nostro stare a questo mondo. Un reset terminologico che ne richiama subito un altro epistemologico, quindi uno politico, che sappiamo nostro malgrado essere sempre più urgenti; una mossa retroversa, un becattiniano «reculer pour mieux sauter» che, liberandoci dalla trappola della sostenibilità come emergenza, ce ne restituisca intatto il senso di alternativa progettuale comune. Comune.
Immagine: Christopher Wood
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