Le pratiche culturali del movimento del ’77 e il paradigma artistico
Riportiamo un ampio stralcio di un articolo di Danilo Mariscalco, pubblicato nel 2012 nella rivista «Enthymema», in cui l’autore affronta il movimento del ’77 non solo nel solco delle esperienze delle avanguardie artistiche del primo Novecento, ma come agente che rielaborò in modo radicalmente nuovo i processi e gli strumenti di produzione e fruizione della cultura, dando vita a un rovesciamento dell’immaginario politico e culturale prodotto dal fordismo. Al centro di questo processo politico-artistico vi era il cosiddetto proletariato giovanile, soggetto sociale incipiente che nella crisi economica e nella ristrutturazione produttiva si autorappresentava.
Sul tema, consigliamo la lettura di La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista «A/traverso» di Luca Chiurchiù (DeriveApprodi 2017) e di Settantasette. La rivoluzione che viene a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti (DeriveApprodi 2004).
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Il movimento nei suoi limiti
Nel variegato insieme delle esperienze politiche radicali in Italia il cosiddetto movimento del ’77 si distingue per un’intenzionale e conseguita trasformazione delle tradizionali forme della rappresentanza e della rappresentazione. Tale specificità differenziale ha favorito un’astrazione di alcune qualità artistiche caratterizzanti le pratiche culturali e comunicative in esso esercitate. Queste riemergono, in particolare, nell’analisi critica di alcuni fatti letterari e figurativi.
La definizione movimento del ’77 apparentemente circoscrive le esperienze antagoniste e autonome italiane concentratesi tra la contestazione studentesca alla circolare del ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti (pubblicata il 3 dicembre 1976) e – secondo Franco Berardi, negli anni Settanta agitatore del collettivo bolognese «A/traverso» – il «Convegno contro le repressioni» inaugurato a Bologna il 23 settembre 1977. Tra questi estremi si collocano, per riportare soltanto alcuni episodi significativi, gli scontri tra studenti e servizio d’ordine del Pci durante il comizio del segretario della Cgil Luciano Lama (Roma, 17 febbraio), l’uccisione del militante Francesco Lorusso (Bologna, 11 marzo) e le conseguenti mobilitazioni nazionali, l’irruzione della polizia nella sede di Radio Alice (Bologna, 12 marzo) e l’interruzione delle sue trasmissioni, l’uccisione della manifestante Giorgiana Masi (Roma, 12 maggio), l’appello degli intellettuali francesi (Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Félix Guattari, Gilles Deleuze, Roland Barthes e altri) contro la repressione subita da operai e studenti in Italia (1 luglio). L’analisi delle pratiche politiche e culturali qualitativamente riconducibili al movimento italiano degli anni Settanta sembra però problematizzare la sovraesposta serie cronologica e suggerisce una lettura irriducibile a una mera descrizione della «successione dei fatti». Il termine autonomia, il cui uso è apparentemente limitato alla definizione di quell’area della sinistra radicale riunitasi il 3 e il 4 marzo 1973 a Bologna durante il «Convegno delle Assemblee, dei Comitati e degli Organismi autonomi di fabbrica e di territorio» – la cosiddetta «Autonomia operaia organizzata» –, inquadra una tendenza, un’accumulazione di pratiche attivate dalle soggettività antagoniste in movimento negli anni Settanta in Italia eccedenti i suddetti limiti storiografici e non riconducibili al movimento operaio ufficiale – orientato verso il «compromesso storico» e la politica dei «sacrifici» – e ai gruppi extra-parlamentari, dei quali si constatava, e si promuoveva, l’esaurimento (Negri, Dall’operaio massa 119-145). Scriveva, nel giugno 1977, il collettivo A/traverso – promotore anche di Radio Alice – nell’omonima rivista:
«A/traverso è una rivista che esce dal maggio 1975 e che si propone come rivista per l’autonomia. Autonomia intesa non come organizzazione, ma come tendenza storica latente concretizzata in uno strato sociale estraneo all’ideologia del lavoro e al rapporto di prestazione, emergente nel processo di formazione del movimento di liberazione dal lavoro». (“Che cos’è”)
Autonomia, si potrebbe aggiungere, come capacità di autorganizzazione e di autorappresentazione esercitata contro le mediazioni istituzionali, politiche e culturali, allora vigenti. In questa prospettiva, le pratiche testuali, figurative e verbali, del movimento antagonista sembrano occupare una posizione privilegiata. In esse, come si cercherà di dimostrare, possono essere rintracciate le specificità differenziali che distinguono l’esperienza approssimativamente detta del ’77 da precedenti e coevi movimenti politici e culturali.
Il paradigma artistico e la teoria delle «due società»
Già alla fine degli anni Settanta alcuni studiosi intercettarono la qualità artistica espressa in alcune emergenze del movimento autonomo. Nell’aprile 1977 Umberto Eco formalizzava alcune considerazioni sull’intercettato incorporamento delle tecniche avanguardistiche di manipolazione eversiva dei linguaggi nelle pratiche comunicative e politiche delle «nuove generazioni» e sull’incapacità, rintracciata in particolare nella «cultura alta», di decodificare i messaggi in tal modo configurati:
Apriamo a caso la radio e ascoltiamo una delle canzoni che i giovani oggi ascoltano […]. La prima reazione è che essa parli un linguaggio dissociato, fatto di allusioni che ci sfuggono: non ci sono «nessi logici», eppure non solo la canzone sta dicendo qualcosa, ma questo qualcosa riesce perfettamente familiare e convincente a un ragazzo di quattordici anni. Dopo un poco si è assaliti da un sospetto: non appariva altrettanto illogica e dissociata agli occhi dei primi lettori sbigottiti una poesia di Eluard? O di Apollinaire? O di Majakovskij? O di Lorca? Una delle cose che maggiormente colpisce il professore (di università o di liceo) che si confronta con un’assemblea di studenti è che le richieste, i temi, le rivendicazioni del lunedì sono diversi da quelli del martedì. Dove il gruppo pare trovare una strana coerenza tra due pacchetti di richieste, la controparte si trova smarrita. […] le nuove generazioni parlano e vivono nella loro pratica quotidiana il linguaggio (ovvero la molteplicità dei linguaggi) dell’avanguardia […]. Il dato più interessante è che questo linguaggio del soggetto diviso, questa proliferazione di messaggi apparentemente senza codice, vengono capiti e praticati alla perfezione da gruppi sino ad oggi estranei alla cultura alta […]. Mentre quella cultura alta che capiva benissimo il linguaggio del soggetto diviso quando era parlato in laboratorio, non lo capisce più quando lo ritrova parlato dalla massa. (64-66)
Maurizio Calvesi, nella sua prospettiva storico-artistica e negli stessi anni, approfondiva, al livello specifico del movimento autonomo, il nesso avanguardia-massa proposto da Eco individuando le condizioni di possibilità di tale incontro nella diffusione sociale della cosiddetta «disoccupazione intellettuale», nel primo Novecento limitata all’artista in quanto «artigiano di lusso nell’età delle macchine», ormai capace «per sua specifica qualificazione e insieme estensione di far da tramite tra la cultura dell’emarginazione eletta e l’area dell’emarginazione “bassa”» (Calvesi 55-56). Il linguaggio del movimento – secondo lo studioso comunicante, in particolare, con «i livelli della scrittura automatica ed onirica dada-surrealista, ed anche delle “parole in libertà” futuriste» (65) – veniva dunque incardinato nel contraddittorio processo di massificazione della cultura, determinante, a un tempo, lo sviluppo dell’antagonismo sociale e del consumo:
«1° febbraio 1977: mentre a Parigi si inaugura il centro Georges Pompidou, alias Beaubourg, «supermarket» dell’avanguardia, in Italia sono registrate le prime avvisaglie del nuovo movimento studentesco […]. Compaiono gli «indiani metropolitani». Ecco due avvenimenti la cui simultaneità potrebb’essere emblematica. Nei mesi seguenti, Beaubourg registra un’affluenza di pubblico senza precedenti […]. La nuova contestazione studentesca, negli stessi mesi, monta tumultuosamente sviluppando una forte capacità provocatoria: proprio quella capacità che l’avanguardia ha perduto. Ma non saranno, Beaubourg e indiani metropolitani, due aspetti complementari della massificazione di una cultura?» (55)
Nell’ipotesi di Calvesi la complementarietà tra consumo e ribellione – già intercettata nelle esperienze culturali del primo Novecento e allora espressione ambigua e contraddittoria di un’arte che, nel modo di produzione capitalistico, riproduceva con l’autodistruzione quei tempi accelerati del ciclo produzione-consumo che, ideologicamente, contestava – in quegli anni stava tendendo a una generalizzazione (55-56) che limitava, di fatto, l’efficacia politica delle più recenti proposte avanguardistiche e, nel caso del movimento del ’77, ridimensionava le pretese «rivoluzionarie» degli autonomi: le pratiche antagoniste erano così ridotte a mera «promiscuità […] ondeggiante e caotica tra temi politici ed esistenziali, tra responsabilità, anche, ed irresponsabilità, consumo ed anti-consumo, “qualità” di vita ed estetismo» (71-72). Le coeve considerazioni di Eco collocavano i fatti, anche culturali, del movimento in un medesimo piano prospettico:
«Se giudico molti dei comportamenti del movimento […] mi sorge il dubbio che esso tenda a trasformare di continuo comportamenti concreti in meri simboli, ovvero enunciazioni fatte, anziché con la penna, con l’azione. Non dico che le enunciazioni siano cose da buttar via. Dico che occorre essere lucidi e riconoscere le enunciazioni come enunciazioni. Un conto è prefigurare in una grande festa simbolica l’assalto al palazzo d’inverno e un conto è prendere effettivamente il palazzo d’inverno. In mezzo ci sta il momento giusto: ovvero il momento in cui alla sceneggiatura della rivoluzione può corrispondere nei fatti, e nella volontà delle masse, la rivoluzione. Senza di questo momento giusto non c’è Lenin; c’è appunto solo Majakovskij che (e bestemmio) senza Lenin sarebbe ricordato oggi come uno dei tanti poeti dei circoli moscoviti». (85)
Il confronto tra le pratiche del movimento autonomo e il Futurismo italiano, eccedente la semplice relazione formale, negli anni Settanta produceva, non solo nella critica culturale, serie teorico-pratiche feconde di ambiguità e facilmente incardinabili nel conflitto egemonico, intensificatosi dopo i fatti di Roma e Bologna, che opponeva gli antagonisti agli apparati istituzionali della sinistra italiana. Calvesi, in Avanguardia di massa, rievocava, per verificarne la validità nel presente, alcune sue previsioni sulla possibile deriva futurista e ‘reazionaria’ del movimento del ’68: «nessuno si meraviglierebbe, in un prossimo futuro, di assistere a nefasti portati politici, ad esempio, dell’attuale contestazione, i cui sfoci sono imprevedibili proprio per quel carattere spontaneistico che è un pregio di questo movimento, come lo fu del Futurismo» (257). Più o meno intenzionalmente il paradigma artistico comunicava con la teoria delle «due società» sistematizzata da Alberto Asor Rosa.
L’incontro tra la teoria artistica e la critica sociale si realizzava al livello, tematizzato e attraversato dal movimento, del «rifiuto del lavoro». Questa pratica, secondo Calvesi, determinava infatti una produzione culturale caratterizzata da una creatività riflessa incapace di risolversi qualitativamente e programmaticamente nel politico: «nello spazio della scollatura possono tornare a premere l’idealismo e la reazione» (Calvesi94). «Rifiuto del lavoro» e della rappresentanza che corrispondevano, per gli «intellettuali organici» del Pci, ad azioni «anticomuniste» e «antidemocratiche».
Renato Zangheri, allora sindaco comunista di Bologna, rispondendo ad alcune domande sugli scontri del 12 marzo chiariva la teoria generale che pretendeva di definire le pratiche del movimento: i gruppi eversivi avevano scelto di agire nel capoluogo emiliano per la centralità che esso occupava nella «vita democratica del paese»; le violenze si configuravano come azioni preordinate e finalizzate allo screditamento della capacità dirigenziale del Pci, amministratore storico di Bologna, vicino all’ingresso al governo; l’omicidio di Lorusso aveva offerto un pretesto agli autonomi per attuare la propria strategia antidemocratica (4-5).
Critica della violenza e paradigma artistico furono le due tendenze teoriche, sociologicamente supportate dalla teoria delle «due società» e in alcune occasioni intrecciate in uno stesso ordine del discorso, che inquadrarono le prassi autonome esercitate negli anni Settanta in Italia. La prima, indirizzata verso una improbabile ma diffusa «teoria del complotto», ha ignorato o ideologicamente declinato le pratiche culturali antagoniste, rispondendo così, più o meno esplicitamente, all’appello agli «intellettuali» lanciato da Enrico Berlinguer durante il convegno L’intervento della cultura per un progetto di rinnovamento della società italiana (Roma, Teatro Eliseo, 14-15 gennaio 1977):
«Per far fronte alle conseguenze della crisi economica e per ricacciare indietro le conquiste che il potere operaio aveva realizzato nelle fabbriche, il padronato perseguiva una politica di attacco politico ed economico coperta e legittimata dalla proposta di sacrifici per i lavoratori, che il Pci e i sindacati cercavano di imporre al movimento operaio. In questo quadro maturò una cultura statalista che trovò la sua sanzione nel convegno dell’Eliseo. All’Eliseo, nel gennaio del ’77 Enrico Berlinguer chiese sostanzialmente agli intellettuali di compiere una scelta fra due alternative: o accettare il ruolo di funzionari del consenso e amministratori dell’esistente, oppure essere identificati come eversori della democrazia. Si crearono allora le premesse per l’emarginazione di tutte le nuove tendenze della cultura, di tutte quelle esperienze culturali che cercavano di interpretare il bisogno di autonomia e la spinta libertaria che proveniva dai settori in movimento della società italiana (in particolare i giovani scolarizzati disoccupati, i giovani operai ribelli all’ordine di fabbrica)». (Balestrini, Moroni 602-603)
La seconda ha invece intercettato i linguaggi specifici delle esperienze culturali antagoniste ma ne ha tradotto i segni a mezzo di un vocabolario avanguardistico inadeguato alla tematizzazione della loro specificità politica, ovvero delle relazioni che essi intrattenevano con alcuni fenomeni sociali corrispondenti. Si riproduceva, forse, il ‘vizio’ disciplinare che Giovanni Previtali rintracciava anche nella sistematizzazione iconologica di Erwin Panofsky: «Ciò che a Panofsky sfuggiva, è che la connessione non può essere cercata fra le “forme simboliche” e le “epoche” o le “Weltanschauungen”, ma solo fra le opere dell’uomo e l’uomo-artista, tra questi e gli altri uomini, fra di loro solidali o contrapposti» (Previtali XXXI).
Maodadaismo e abolizione dell’arte
La pratica culturale del movimento italiano degli anni Settanta era definita maodadaismo. In essa, in una prospettiva storico-culturale, in vario modo emergevano – insieme agli espliciti omaggi al movimento di Tristan Tzara, al Futurismo russo e alla riproposizione, in particolare nei testi dei cosiddetti indiani metropolitani, di certe soluzioni formali marinettiane – frammenti di alcuni paradigmi culturali emersi o riattivati nel Novecento: il desiderio, l’uso del falso, del détournement, il superamento dell’arte, il general intellect.
La tematizzazione del desiderio – in particolare della tesi secondo la quale «la produzione sociale è unicamente la produzione desiderante stessa in condizioni determinate» e della concezione del desiderio come «macchina desiderante» potenzialmente rivoluzionaria (Deleuze, Guattari 31, 337) – era mutuata dalle ipotesi «schizoanalitiche» de L’anti-Edipo (1972) di Deleuze e Guattari, pubblicato in Italia nel 1975 e più volte menzionato nei testi antagonisti: «Non parliamo più di desideri, desideriamo: siamo macchine desideranti, macchine da guerra»; «Il desiderio si fa / qui movimento / per questo siamo già oltre / al ’68. Non vedi / qui gli studenti ma vedi / il soggetto che passa / attraverso ordini dati / e separati: fabbrica scuola linguaggio»; «Il problema della “voce”, dei mezzi di comunicazione, degli strumenti per l’enunciazione dei desideri di (in movimento), diviene pressante» (Collettivo A/traverso, Alice 56, 48, 99). Il riferimento al libro dei due francesi, in altri scritti, è ancora più preciso:
«La critica della psicoanalisi come naturalizzazione della rimozione storicamente determinata del desiderio e la ricerca di una macchina di riemergenza ed espressione dei flussi desideranti – la pratica della scrittura e della comunicazione trasversale come forma emergente di questa collettivizzazione del rimosso; questi i temi che A/traverso ha introdotto nel movimento, e in particolare nel proletariato giovanile». (Collettivo A/traverso, “Che cos’è”)
Le pratiche culturali del movimento si proponevano così come articolazioni, eccedenti la «rimozione reale», di un desiderio trasformatore. In esse erano centrali le tecniche del falso e del détournement, attivate, per citare un primo esempio, nella diffusione della notizia relativa allo svelamento delle intenzioni avanguardistiche agenti nell’incontro tra papa Paolo VI e il critico d’arte, allora sindaco del Pci a Roma, Giulio Carlo Argan, ‘dadaisticamente’ inveratosi il giorno 8 dicembre 1976 e anticipato da una precedente occasione di comune denuncia del compromesso storico (Echaurren 21), così come nella lettura maodadaista del comizio di Lama presso l’Ateneo romano pubblicata nel marzo ’77 in «Finalmente il cielo è caduto sulla terra. La Rivoluzione è a metà» (Echaurren 30).
Ne «Il complotto (di Zurigo)» (marzo 1977) un articolo riconfigurante il comune ordine spazio-temporale annunciava la recente chiusura del Cabaret Voltaire e il conseguente arresto degli esponenti del Dadaismo svizzero, secondo le autorità responsabili, come gli autonomi italiani degli anni Settanta, di un complotto internazionale (cfr. Salaris 56-57). A Bologna già nel settembre 1976 veniva distribuito un ‘falso’ numero de «il Resto del Carlino» nel quale si leggeva: «Assassinate 4000 persone sul lavoro nel ’76. La carne aumenta / Agnelli con polenta. Inchiesta: Il 90% dei bolognesi si pazza il culo col Carlino ma “Alice è il diavolo” è in libreria» (cfr. Collettivo A/traverso, Alice 15).
L’uso del falso era supportato dall’enunciazione teorica. Nell’articolo Informazioni false che producano eventi veri (febbraio 1977) il collettivo A/traverso tematizzava il superamento della «controinformazione», ovvero di quell’attività finalizzata all’affermazione della «verità» attraverso lo svelamento delle «informazioni false», deformate dallo «specchio» del potere. A essa, corrispondente a uno statico rispecchiamento del «discorso» del potere, bisognava opporre una prassi che, denunciando il vero del linguaggio dominante e appropriandosi delle stesse forme espressive in questo proposte, producesse informazioni antagoniste e rivolte sociali. I segni in tal modo configurati erano formalmente falsi ma aderenti alla concretezza delle intenzioni istituzionali e a una realtà sociale che, svincolata dalla deformazione di ogni «schermo linguistico», poteva essere trasformata.
Un esempio di emissione di segni «con la voce e il tono del potere» era offerto da Radio Alice con un falso appello del ministro degli Interni alla cittadinanza finalizzato a un’auspicata denuncia pubblica dei covi eversivi in Italia. Per favorirne l’individuazione lo pseudo Cossiga indicava alcune loro caratteristiche distintive, fra le quali emergeva la presenza «criminale» di testi del Dadaismo tedesco:
«In questi ultimi tempi numerosi episodi di trasgressione delle fondamentali norme della convivenza civile si sono verificati dovunque con allarmante frequenza […]. Nella città saccheggi e vandalismi di numerose bande di sbandati, giunti al punto di lordare i muri della città con scritte del tipo «sono al cinema, se vuoi raggiungimi là». Nelle fabbriche lavoratori devianti, incuranti del tragico stato in cui vena il paese si ribellano contro le recenti misure rivolte a stabilire, nell’interesse di tutta la società, la giusta remunerazione degli investimenti e a ridurre gli sprechi soprattutto lo spreco di tempo, cioè di vita, cioè di valore, cioè di capitale. Tutto questo, secondo il Ministero, è certamente fomentato e provocato da una piccola minoranza che cova da qualche parte. Perciò questo Ministero decide di colpire alla radice. Chiudere il luogo in cui si diffondono idee contrarie all’interesse pubblico, in cui si praticano forme di esistenza illecita e lesiva della pubblica morale e produttività, in cui si creano le condizioni per un assenteismo che sottrae energie preziose all’economia. […] non si può tollerare più a lungo che qualcuno covi. Pertanto, vista l’insufficienza della Legge Reale, […] proponiamo di chiudere i covi. Data però la ben nota difficoltà di definire con esattezza le caratteristiche di un covo e la straordinaria capacità dei criminali di travestirsi da persone umane; questo Ministero propone le seguenti caratteristiche: È da ritenersi covo un luogo in cui: 1) Siano rintracciabili letti sfatti oltre le 10 del mattino; 2) si trovino libri del dadaismo tedesco; 3) siano gettate per terra lattine di birra (vuote); 4) si trovino cartine, bilance, cucchiai e tabacco tipo «assenteismo probabile il giorno dopo»; 5) non si sia pagata la bolletta del gas del mese di giugno; 6) sia sorpreso qualcuno a dormire o ad ascoltare i Rolling Stones in orario lavorativo. Per il momento ci limitiamo a questo, ma speriamo che tutti i cittadini vogliano collaborare a scoprire i luoghi in cui . si . cova. Intanto ricordiamo che il reato di cospirazione contro lo stato si compie in ogni luogo in cui si rompa l’ordine del lavoro, della famiglia, della televisione, della parola: Cospirare vuol dire respirare insieme. F.to Francesco Cossiga. La Questura di Bologna comunica che gruppi di provocatori hanno deciso di portare oggi, alle 18 tutti i covi in Piazza Verdi. Sono viste scritte annunciare: Non siamo qui non siamo là, il nostro covo è tutta la città». (Collettivo A/traverso, Alice 103-104)
In «Zut» (1977) l’uso del falso, e in generale, di un linguaggio ironico, veniva esplicitamente ricondotto al détournement nella sua accezione di rovesciamento: «Il gioco del rovesciamento sta appassionando il movimento romano; scoperto il trucco il gioco è facile. “Sacrificarsi non basta bisogna immolarsi”. Il trucco è vecchio, in Francia ha una espressione linguistica precisa: “détournement”». Locandine e manifesti antagonisti oggettivavano medesime pratiche di détournement, per mezzo delle quali ogni frammento culturale, discorsivo, politico e quotidiano, veniva catturato e rovesciato. Un esempio è costituito dal manifesto promozionale di Radio Alice (febbraio 1976), nel quale il Bozzetto per la tribuna di Lenin di El Lissitskij (1920 ca.) è accompagnato dal titolo dell’ultimo poema, incompiuto, di Majakovskij (A piena voce, 1930), da un disegno raffigurante un gruppo di musicisti «psichedelici» e dalla riproduzione incompleta della scritta murale Potere operaio. In un’altra locandina della radio bolognese, sopra una foto dei redattori armati di antenna e dominanti l’immagine della città, «parole in libertà» radiotrasmesse occupano il cielo; nella loro ricomposizione razionale esse affermano: «10.000 anni sono troppo lunghi. Non sarà la paura della follia a costringerci a lasciare a mezzasta la bandiera dell’immaginazione». Quando comparve in un muro di Bologna un insulto diretto a Radio Alice, il manifesto venne modificato e ristampato: «Sui muri di Bologna qualcuno ha scritto “Radio Alice figli di puttana”. Costruire il movimento di liberazione dal lavoro».
Nelle summenzionate occasioni, e in altre pratiche culturali riconducibili al movimento italiano – i testi trasmessi da Radio Alice, i fumetti proposti nella rivista «Cannibale» (fondata nel 1977 da Stefano Tamburini e Massimo Mattioli) –, l’uso del détournement corrispondeva, nelle sue intenzioni critiche, all’omonima tecnica situazionista, qualitativamente differente da precedenti e formalmente analoghe soluzioni avanguardistiche, come afferma Mario Perniola:
«Si tratta in fondo di una pratica già frequente nell’attività dell’avanguardia artistica: il collage e il ready-made rappresentano appunto l’attribuzione di un nuovo valore ad elementi preesistenti. La differenza tra i détournement artistici e quelli situazionisti consiste nel fatto che mentre il punto di arrivo dei primi è un’opera che ha un valore autonomo ancora artistico, il punto di arrivo dei secondi è un prodotto che, pur potendosi valere di mezzi artistici e addirittura di opere d’arte, si rivela immediatamente come la negazione dell’arte, soprattutto per il carattere di comunicazione immediata che contiene […]. L’importanza di questo procedimento consiste nel fatto che per mezzo di esso oggetti e immagini strettamente connessi alla società borghese […] vengono sottratti alla loro destinazione e posti in un contesto qualitativamente diverso, in una prospettiva rivoluzionaria: segno che le cose più eccelse come quelle più banali possono essere l’oggetto di una appropriazione molto più profonda della loro semplice fruizione passiva o possesso economico». (22)
Tale corrispondenza problematizza le serie culturali proposte nel «paradigma artistico» e favorisce l’individuazione della sostanza critica che definisce la relazione intercorrente tra il movimento italiano e le avanguardie. Maodadaismo era, nella teoria e nella pratica antagoniste, abolizione della separazione tra segno ed esperienza vivente a/traverso la politicizzazione di massa delle attività relazionali e culturali. La separazione tra arte e vita, sopravvissuta all’azione intellettuale delle avanguardie storiche, si ricomponeva nel movimento autonomo.
Il proletariato giovanile in movimento
Il soggetto sociale e politico agente nel movimento del ’77 era il cosiddetto proletariato giovanile. L’individuazione di questo «strato sociale» emergeva da un’analisi delle trasformazioni del capitalismo industriale e delle corrispondenti riconfigurazioni delle soggettività antagoniste che si avvaleva del concetto di general intellect, proposto da Marx nei Grundrisse (1857-1858) e riscoperto, in Italia, nel paradigma operaista, ovvero nelle esperienze marxiste radicali che già negli anni Cinquanta avevano tracciato e attraversato percorsi alternativi a quelli indicati dalle formazioni della sinistra istituzionale (cfr. Borio, Pozzi, Roggero) e che confluiranno, in parte, nel successivo movimento autonomo. General intellect è il sapere sociale che, diffondendosi, diviene «forza produttiva», negli anni Settanta incarnatanel proletariato giovanile e antagonista ai rapporti di produzione fordisti e successivamente sussunta, secondo le ipotesi post-operaiste sul capitalismo cognitivo, dalle riconfigurate leggi di accumulazione del capitale (cfr. Roggero). L’affermazione del carattere produttivo della conoscenza, corrispondente ai fenomeni, allora espansivi, di massificazione dell’istruzione e di sviluppo tecnologico, si inverava nell’uso proletario e sovversivo del sapere e dei relativi strumenti di elaborazione-fruizione (stampa, radio ma anche cinema, come nel caso di Alberto Grifi). Nello sviluppo del sapere sociale e dei mezzi tecnici di comunicazione emergevano le pratiche culturali di un proletariato giovanile che negli anni Settanta intercettava, insieme alle proposte dell’operaismo italiano e del post-strutturalismo francese, anche alcune intenzioni avanguardistiche, ma che, persino nelle sue forme organizzative riconducibili al gruppo o al collettivo, non si presentava, come afferma lo stesso A/traverso, «con i […] connotati dell’avanguardia» (Alice 99). In questa prospettiva il movimento autonomo può essere conciliato con le precedenti avanguardie e con le coeve controculture internazionali soltanto escludendo, nel confronto fra le diverse esperienze, le caratterizzanti qualità politiche delle pratiche in esso esercitate. Affermava Franco Berardi:
«l’Italia […] è il punto avanzato della lotta di classe in Europa. […] nella primavera ’77 non ci sono state lotte di studenti e disoccupati […] ma lotte dello strato sociale proletario che rappresenta la concrezione sociale massiccia del tempo di vita liberato dal lavoro, e dunque il punto di massiccia espressione della contraddizione fra sistema del capitale e movimento comunista post-industriale». (Primavera ’77 24)
In quella fase, parzialmente esposta, di «proletarizzazione del lavoro intellettuale», di generalizzazione delle pratiche culturali e del know-how tecnologico, dada, e in generale l’aspirazione irrisolta delle avanguardie storiche, poteva inscriversi, ed esaurirsi, nel movimento antagonista.
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