Intervista a Cristiano Catalbiano
In questa bella intervista il sociologo Cristiano Caltabiano ci racconta le condizioni di vita nello slum di Borgo Mezzanone, insediamento nato illegalmente nei pressi di Foggia, che ospita fino a 5.000 migranti nel periodo di picco della produzione agricola. Attraverso il lavoro di ricerca svolto in loco, Caltabiano ci restituisce la situazione di sfruttamento dei braccianti, i modi in cui lo slum si autorganizza e le prospettive di un luogo che continua a presentarsi come «terra di nessuno».
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Come siete arrivati ad occuparvi di Borgo Mezzanone?
A Borgo Mezzanone ci siamo arrivati perché come IREF (Istituto di ricerca delle Acli) un paio d'anni fa siamo stati contattati dalla «Fondazione socialismo» che aveva ottenuto un finanziamento per analizzare la condizione dei migranti più marginali, sia nelle città che nelle campagne italiane. Il progetto nei centri urbani, rivolto soprattutto ai campi profughi, è stato affidato alla Comunità di Sant'Egidio, mentre lo studio nelle aree rurali è stato assegnato alle Acli, che al loro interno hanno un'organizzazione di rappresentanza dei lavoratori agricoli (Acli Terra), a cui aderiscono principalmente coltivatori diretti e imprese familiari. Il progetto che abbiamo proposto alla Fondazione Socialismo ha previsto una prima fase di ascolto di testimoni privilegiati a livello nazionale, i cosiddetti stakeholder, ovvero portatori di interesse del tavolo nazionale del caporalato: Ministero, Organizzazioni di categoria, Sindacati (Flai Cgil, Cisl, sindacati di base), Organizzazioni del Terzo Settore. Ascoltati gli esperti siamo poi andati sul campo, perché non si possano immaginare delle soluzioni per migliorare la condizione dei lavoratori migranti in agricoltura se non teniamo conto del fattore locale. Mentre l’ultima parte del progetto ha riguardato l'attivazione degli stakeholder affinché venissero formulate proposte di policy a livello locale. Tanto più che nel PNRR è stato approvato un intervento che prevede il superamento di questo campo e lo spostamento dei migranti in borghi rurali: ci sono circa 50 milioni di euro stanziati a questo fine, ma su questo magari torneremo più in avanti.
Come è nato l’insediamento di Borgo Mezzanone?
Si tratta di un insediamento distante 7 km da Foggia e 40 km dal Comune di Manfredonia che ha la potestà amministrativa sulla cosiddetta «pista». Dico pista perché durante la guerra del Kosovo nella stessa area c’era un aeroporto militare, una base d’appoggio dal quale partivano i caccia della NATO. Dopodiché nel 2005 viene impiantato un CARA (Centro Accoglienza per i Richiedenti Asilo) e presto comincia a sorgere nella zona il primo nucleo della baraccopoli: case in lamiera, ex container, senza riscaldamento, una condizione abitativa veramente degradante. Fino al 2015-2016 i migranti presenti nella pista erano relativamente pochi (circa 400-500), perché la maggior parte dei braccianti dimoravano nel Gran ghetto di San Severo, sempre nel foggiano, che il ministro Salvini fece abbattere con le ruspe, provocando di fatto il loro spostamento in massa nell’insediamento di Borgo Mezzanone, che si è allargato a dismisura.
Faccio un inciso, sono piuttosto riluttante ad utilizzare il termine di ghetto, ne capisco l’impiego a fini di denuncia della condizione degradante subita dai braccianti stranieri, ma ritengo sia poco utile dal punto di vista analitico. Perché storicamente il ghetto, da quello di Venezia in poi, indica una politica intenzionale di concentrazione di una minoranza in un determinato territorio. A Borgo Mezzanone invece noi abbiamo, per una serie di fattori e concause, la formazione di un insediamento che non è nato per un’operazione pianificata a tavolino; soprattutto le modalità con cui vengono concepite e attuate le politiche migratorie nello Stato italiano, ma anche le dinamiche del mercato del lavoro nel settore agricolo, contribuiscono a spiegare come si possa creare un insediamento spontaneo di 2.500 migranti stabili e altri 2000-2500 che arrivano durante la stagione dei raccolti nel tavoliere delle Puglie. C'è chi dice che i residenti della pista arrivano a 5000 durante il picco della produzione agricola, ma non c'è un censimento ufficiale degli abitanti o qualche altra forma di registrazione delle persone che vivono nella baraccopoli di Borgo Mezzanone. Non è un luogo dove dovrebbe esserci un insediamento urbano, non ci sono le reti fognarie, i migranti sono allacciati a dei tralicci della luce. L'acqua scarseggia, essendo trasportata con dei container, anche se la fornitura avviene in modo sporadico (i migranti sono costretti a rifornirsi dalle fontane pubbliche nel circondario, riempiendo le taniche). Nella pista vi è una situazione di illegalità diffusa, è un po’ una «terra di nessuno», dove una moltitudine di persone provenienti dall’Africa vivono in una condizione di marginalità estrema.
Forse il concetto più adeguato per descrivere un luogo come la baraccopoli di Borgo Mezzanone è quello di slum, per quanto questo termine sia riferito tanto ai quartieri disagiati delle grandi metropoli dei paesi sviluppati, quanto alle periferie delle megalopoli dei paesi in via di sviluppo. Siamo abituati ad utilizzare il concetto di slum per le aree urbane impoverite, mentre a Borgo Mezzanone siamo in piena campagna e non ti aspetteresti di trovare un insediamento del genere. L'altro paradosso della pista è che questo luogo è a 7 km da Foggia, la città più grande, e a 40 km da Manfredonia, comune che dovrebbe amministrare tale porzione di territorio, ma che trovandosi a maggiore distanza dalla baraccopoli, ha minore controllo su quel che accade al suo interno.
Un altro aspetto che andrebbe spiegato ai lettori è che Borgo Mezzanone è in realtà un località rurale vicino alla baraccopoli, nata da una bonifica all'epoca del fascismo, dove vivono attualmente 900 residenti, tra cui alcuni occupanti di case. Italiani prevalentemente, ma non solo, che stavano lì da molto prima della formazione dello slum, i quali certo non vedono di buon occhio la pista. Abbiamo raccontato anche la loro storia nel report di ricerca.
Nel Rapporto scrivi che a Borgo Mezzanone c'è anche un'economia informale e si crea una sorta di vita comunitaria. Ci dici qualcosa in merito?
Il termine slum, nella definizione dell'Agenzia delle Nazioni Unite, indica aree d’illegalità, degrado e così via, ma dove c'è anche una vita comunitaria. Si tratta di piccole cittadelle, insediamenti informali che nascono pur se non hanno le dotazioni necessarie. Il termine ghetto invece dà l'idea di chiusura totale, senza interscambio con l'esterno, cosa che per borgo Mezzanone non è vera. Infatti, al di là delle organizzazioni del terzo settore, del sindacato che offre dei servizi di supporto, ci sono due chiese: una di rito protestante, molto particolare, dove noi abbiamo presentato la ricerca, ed anche una piccola moschea. Ci sono dei bar e dei ristoranti dove le persone possono mangiare a 2,50 euro, ci sono degli spacci dove puoi acquistare del cibo, l’acqua minerale che paghi 20 centesimi (1,5 litri). Insomma, c'è un tessuto comunitario che sembra tenere. E per quanto sia un luogo isolato e deprivato, vi sono forti intrecci con l’ambiente circostante.
Chi porta le merci e i beni alimentari che poi vengono venduti a pochi euro?
Fanno tutto in modo informale, sempre i migranti. Ho intervistato un migrante che è stato tra i primi ad arrivare e ha aperto un bar-ristorante in una baracca, dove prepara anche il cibo. È una situazione dove non c'è lo Stato e quello che noi tra le altre cose abbiamo proposto è di realizzare un censimento socio-legale, nel senso che entrano le forze dell'ordine ma con la mediazione del terzo settore. Antonio Ciniero (un sociologo dell’Università del Salento, che di recente ha scritto un libro sul tema Le politiche dell’esclusione. Centri di accoglienza, ghetti agricoli e campi rom in Italia, Meltemi editore, 2024) ha realizzato uno studio nella pista prima di me, 5-6 anni fa, ed ha intervistato prevalentemente lavoratori comunitari: rumeni, bulgari, polacchi che facevano un lavoro stagionale e, nonostante ci fosse sempre una certa dose di sfruttamento, sicuramente avevano una condizione legale migliore rispetto ad oggi dove nel 99,9% dei casi si tratta di lavoratori africani.
Nel Rapporto utilizzi il termine profughizzazione, perché?
Di profughizzazione ne parla in particolare Marco Omizzolo (Sfruttamento lavorativo e caporalato in italia: la profughizzazione del lavoro in agricoltura, articolo apparso nel 2020) perché la stragrande maggioranza dei migranti che arrivano dall’Africa (Nigeria, Mali, Ghana) sono persone che richiedono la protezione internazionale o l'asilo politico, ma con le restrizioni che ci sono state dal decreto Salvini al decreto Cutro, restano a lungo in un limbo giuridico, diventando nei fatti degli «invisibili» per il nostro Paese. Ho intervistato persone che stanno in Italia da 10 anni e ancora la loro situazione è in bilico, non hanno i documenti, sono «sans papiers». Molti sono in attesa che la loro domanda di protezione internazionale venga esaminata dalla commissione provinciale e nell'attesa passano gli anni, restano ai margini, senza diritti, e quindi alla mercé degli sfruttatori.
Nel Rapporto un «testimone» intervistato si chiedeva perché i migranti con i documenti di soggiorno continuassero a vivere in un luogo cosi degradato. Secondo te come si spiega ciò?
I motivi sono due. Il primo è di natura economica. Ci sono persone che per ottenere la residenza affittano una stanza per 100 euro in un monolocale a Foggia, ma continuano a vivere nella pista perché la baracca è gratuita, o paghi al massimo 25 - 40 euro al mese, e laggiù la vita è low cost: mangi un pasto con 2,50 euro e stai con gli amici. Certo, c'è ancora la forma più diffusa di caporalato, cioè il pagamento di 5 euro di pedaggio al giorno per andare nei campi, però riesci a risparmiare e a mandare le rimesse in patria. Il secondo aspetto riguarda invece il livello di accettazione. Oggi, in Italia, probabilmente gli africani sono gli stranieri che vengono trattati con maggiore intolleranza mentre nella pista, come dicevamo, c’è una sorta di vita comunitaria. Alcuni di loro, ad esempio, mi hanno raccontato di sentirsi ben accolti e di sostenersi vicendevolmente nei momenti più difficili.
Se uno pensa all’agricoltura foggiana potrebbero venirgli in mente le imprese agricole ma anche lo sfruttamento barbaro, oppure Di Vittorio e la cultura contadina. Da quello che hai avuto modo di vedere è rimasto qualcosa di quella cultura contadina d’un tempo oppure è svanita del tutto?
No, non è svanita. Però, in questo discorso che noi facciamo, manca un fattore di cui non abbiamo parlato sinora. Nella ricerca abbiamo sentito anche le rappresentanze e gli imprenditori agricoli, perché bisogna ragionare sulle filiere agroalimentari. Filiere che hanno caratteristiche diverse da un prodotto all’altro (il pomodoro per i pelati è diverso dagli asparagi, per intenderci) e dove emergono forti asimmetrie di potere tra i produttori e la Grande distribuzione organizzata (Gdo). L'ultimo Censimento Istat è del 2020, e ci dice che il 93% delle aziende agricole sono ditte individuali (ossia coltivatori diretti) o a conduzione familiare. Per capire cosa avviene nella filiera agroalimentare in Italia basta guardare uno studio del 2017 da cui si evince che il fatturato medio di un'azienda agricola è 25.000 euro annui. Di contro hai la grande distribuzione con 3.200.000 di euro di introiti economici medi l’anno, insomma vi sono asimmetrie tra i diversi attori della filiera produttiva. Questo non giustifica le aziende che usano i caporali e fanno figurare meno giornate lavorative di quante non ne prestino realmente i braccianti nei loro campi, però vi è uno squilibrio nei rapporti di forza tra produttori e la Gdo che non può non essere considerato, sia nell’analisi che nell’intervento. L'altro tassello mancante nel quadro che stiamo delineando è l’assenza di una programmazione dei flussi. Cioè, noi abbiamo profughi, ma dovremmo avere probabilmente migranti economici; allo stesso tempo, il lavoro agricolo è per sua natura stagionale, quindi implicherebbe una programmazione dei flussi. Durante la ricerca, a Marzo del 2023, Coldiretti sosteneva che in Italia mancavano 100.000 braccianti agricoli in vista della stagione dei raccolti, ed oggi abbiamo i trattori in piazza che si lamentano della politica agricola. Io non credo ci sia intenzionalità nel generare una situazione asimmetrica, quindi critica, nel settore agricolo. Ma questo dislivello di potere troppo spesso si traduce nella penalizzazione dei lavoratori agricoli. I produttori vedono livellare in basso i prezzi di vendita dei generi agricoli e pagano sempre meno i braccianti, senza fargli il contratto o facendo figurare meno giornate lavorative. Si pensi a quanto è accaduto a Latina, a giugno del 2024, mentre questa intervista stava per essere data alle stampe. Satnam Singh, il bracciante indiano lasciato ai margini di una strada a dissanguarsi, senza che la moglie potesse chiamare i soccorsi, in quanto il datore di lavoro aveva requisito il suo cellulare e quello di suo marito. È una storia che si ripete, la disumanità e il cinismo che colpiscono le persone più vulnerabili, che creano indignazione, ma poi tutto ritorna come prima, nell’ordinaria indifferenza verso l’assenza di diritti di questi lavoratori e la violenza che la accompagna. Ovviamente non tutte le aziende agricole prendono i braccianti in nero o li trattano in modo indecente. Più in generale, vi è probabilmente un misto di fattori, di inadempienze, di ritardi delle politiche pubbliche e di connivenze fra imprenditori privi di scrupolo, organizzazioni criminali e il sistema del caporalato (sempre più articolato al suo interno, dal semplice caposquadra che preleva la tassa occulta ai propri connazionali mentre li accompagna al lavoro, a reti di intermediari dove operano anche i colletti bianchi che favoriscono la catena dello sfruttamento, chiudendo ad esempio un occhio sulle «buste paga truccate»). Ma ci sono anche degli esempi positivi. Nella pista c'è l'Associazione «No cap» che fa un servizio di trasporto gratuito, affinché i lavoratori non debbano pagare l'obolo di 5 euro al giorno al caposquadra o al caporale di turno. Tramite No cap sono riuscito a entrare in contatto anche con aziende virtuose, una di queste fa produzioni biologiche, lavora il pomodoro per le passate e rispetta tutti gli standard contrattuali ed etici del lavoro agricolo. Stiamo dunque parlando di produttori che vogliono investire nella legalità, ma costoro affrontano anche dei problemi stringenti, come hanno sostenuto nelle interviste: «ho un costo di 15 euro al chilo per la raccolta del pomodoro da pelati e sono costretta a vendere la merce a 12 euro. Come riesco a compensare questa perdita? Diversifico, però funziona fino a un certo punto». Nel Sud d’Italia c'è una forte debolezza delle organizzazioni dei produttori, i quali non riescono a fare massa critica per avere più voce in capitolo nella contrattazione con la Gdo.
Non so se ho risposto alla domanda ma sono questioni complesse. Sicuramente, è una situazione nella quale lo sfruttamento dei braccianti è funzionale al mercato del lavoro agricolo, un mercato del lavoro dove vi è una vasta «zona grigia», come dimostrano le inchieste giudiziarie e le ricerche più documentate al riguardo: giornate che non vengono fatte figurare, buste paga fittizie (ossia intestate a prestanomi che hanno il permesso di soggiorno e che ricevono il pagamento, girandolo poi al bracciante che lavora in nero non avendo il permesso di soggiorno) e altri stratagemmi di varia natura. L’ispettorato del lavoro non riesce a fare le ispezioni ovunque e le reti informali di intermediazione del lavoro occulto si riproducono velocemente, anche quando subiscono delle battute d’arresto, grazie alle operazioni delle forze dell’ordine. Per capire poi come queste reti funzionino oggi bisognerebbe fare uno studio etnografico, seguendo da vicino gli sfruttatori (datori di lavoro conniventi, caporali, caposquadra, colletti bianchi, altri intermediari). Ma condurre tali ricerche è estremamente complicato.
In modo schematico noi tendiamo a pensare che, in Emilia Romagna o genericamente nel Centro Nord, c’è uno spirito cooperativistico derivato dalla storia e tradizioni di quelle regioni; mentre nel Sud, soprattutto in agricoltura, c’è individualismo a causa della recente storia clientelare di quelle regioni. Nel tuo lavoro ed a partire dalle tue conoscenze dei territori hai ritrovato queste dimensioni?
Io devo precisare che non abbiamo avuto difficoltà a intervistare gli imprenditori agricoli. Prendiamo il settore del pomodoro per distinguere le singole filiere. Questo consorzio si chiama Rosso Gargano e, per la prima volta in un’area tradizionalmente dipendente dai trasformatori del Sarno (negli anni ʼ80 ci fu una epidemia sulla pianta del pomodoro che li spinse a trasferire le colture nel foggiano), questo imprenditore ha creato insieme ad altri produttori un circuito di produzione, raccolta e trasformazione del pomodoro per i pelati. Al di là di questo caso, l'impressione che ho avuto è che le organizzazioni dei produttori sono molto deboli, quindi nella filiera hanno una potere di interposizione molto debole, soprattutto rispetto alla grande distribuzione. Contano poco anche nei confronti dei grossisti e questo genera una pressione verso il contenimento dei costi di produzione. Il che, ripeto, non giustifica lo sfruttamento dei lavoratori. Però è anche un fattore sistemico che non favorisce la loro integrazione nella società italiana.
Nel vostro Rapporto sono evidenti più facce dello sfruttamento: del lavoro, ma anche della prostituzione. Scrivete anche che c’è consumo di stupefacenti. Vuoi dire qualcosa in merito a questi aspetti?
Ho intervistato 10 lavoratori, 18 testimoni privilegiati e sono stato 5 pomeriggi dentro la pista, 5 con gli operatori della Flai Cgil. È un luogo dove quasi nulla avviene visibilmente; inoltre, questi braccianti sono intimoriti quando si esprimono sulle loro condizioni di lavoro e di vita, si sentono ricattati e quindi è difficile tirare fuori le informazioni per un ricercatore. Detto ciò, se si guardano i dati emersi nelle inchieste giudiziarie e negli studi più attendibili, per quel che riguarda la paga oraria siamo intorno ai 5-7 euro l’ora. Non c'è più il pagamento di 2 euro l'ora. C'è però il fenomeno del grigio, ossia fare figurare meno giornate di quelle effettivamente svolte. Anche se i lavoratori sono in regola, si segnano meno giornate e così i diretti interessati non raggiungono quel livello contributivo che gli darebbe poi diritto a una serie di prestazioni nel lungo medio periodo, tra cui l’indennità di disoccupazione; la situazione si aggrava soprattutto per i lavoratore che si ammalano per via di condizioni lavorative troppo spesso insalubri nelle campagne del foggiano. La zona d’ombra tende insomma ad estendersi a macchia d’olio in un Paese come il nostro. Nell’ultimo Rapporto a cura della Flai Cgil e dell'Osservatorio Placido Rizzotto è stata formulata una stima di circa 235.000 lavoratori impiegati in modo irregolare («in grigio») nell’agricoltura. Questo è il sintomo che la legge 199 del 2016, la legge di contrasto al caporalato, ha in qualche misura funzionato. Perché ha consentito di sanzionare non solo il caporale ma anche il datore di lavoro. Oggi come oggi gli agricoltori nella stragrande maggioranza dei casi non vogliono problemi, evitano di assumere lavoratori al nero, si limitano a risparmiare sui contributi facendo figurare meno giornate del dovuto in busta paga. E qui torniamo al discorso dell'asimmetria economica perché, se hai pressione cerchi di risparmiare anche in forme illecite. E ciò genera un terreno fertile per lo sfruttamento. Ad esempio, numerosi testimoni privilegiati coinvolti nella ricerca hanno sostenuto che probabilmente ci sono una decina di caporali che operano all'interno della pista, lucrando non solo sui trasporti verso i campi, ma anche attraverso i pasti serviti ai braccianti.
Altro problema è la criminalità. È ben difficile che possano avvenire dei fenomeni illeciti sul territorio senza un previo accordo con i poteri della criminalità organizzata locale. Si parla anche dell'esistenza della presenza della mafia nigeriana (organizzazione denominata «ascia nera») ma non esistono riscontri diretti nelle inchieste giudiziarie; mentre da quello che sostiene l’associazione «Libera», che segue da vicino le inchieste della direzione investigativa antimafia, non sono ancora emersi collegamenti dentro la pista tra micro criminalità e organizzazioni criminali locali foggiane: il fatto che non siano venuti alla luce tali connessioni non vuol dire che non ci siano. Comunque sia, c’è sicuramente un problema di prostituzione che riguarda prevalentemente donne nigeriane controllate dalle cosiddette mummy, come hanno riferito diversi operatori delle organizzazioni umanitarie che operano sul posto. L'altro aspetto di cui hanno spesso parlato gli operatori è il consumo di stupefacenti, testimoniato tra l’altro da diversi articoli di cronaca locale sui blitz delle forze dell’ordine nella pista, in una di queste operazioni di polizia, condotta nel 2023, è stato rinvenuto circa un chilo di hashish nella baraccopoli. Le inchieste hanno portato allo scoperto anche il consumo di analgesici, per lenire il dolore del lavoro nei campi.
Premessa l’importanza della presenza del sindacato a borgo Mezzanone, potresti dire dalla tua esperienza che l’azione di quest’ultimo è efficace?
Se evoca la nozione di efficacia può essere utile richiamare quanto ha osservato il leader del Centro Baobab, una struttura di accoglienza dei rifugiati che opera a Foggia. In un progetto che hanno realizzato con il sostegno della Regione sono riusciti ad assistere 200 braccianti stranieri. Li hanno aiutati a mettersi in regola con la documentazione, nella ricerca di un lavoro con un contratto regolare, di un alloggio decoroso, ecc. Per favorire la loro integrazione ci sono voluti due anni, con un costo complessivo pro-capite di circa 6.000 euro. Se si moltiplica tale somma per i 2.000 residenti che vivono stabilmente nella pista si previene ad un totale di 12 milioni di euro con cui si potrebbe dare una prospettiva di vita dignitosa a queste persone, che è molto meno dei 53 milioni di euro stanziati dal PNRR per il superamento dell’insediamento di Borgo Mezzanone. Questo per dire che il più delle volte non basta mettere solo le risorse, ci vuole un lavoro sartoriale di welfare, magari si impiegano uno o due anni per accompagnare i percorsi di inclusione sociale di soggetti fragili (molti braccianti hanno subito traumi fisici e psichici prima di entrare in Italia); però questa possibilità viene vanificata da un problema alla radice: ci vuole un censimento socio-legale (analisi dei bisogni e della posizione di soggiorno), per iniziare una politica fondata sulla legalità e sull’inclusione sociale. Va detto però che la presenza del sindacato, nello specifico della Flai CGIL, è importante. Ad esempio, la scorsa estate, nel mese di agosto, è divampato l'ennesimo incendio nella baraccopoli, proprio perché non c'è corrente e i braccianti usano dei lumicini a gasolio durante la notte, oppure l'inverno hanno stufe a gas che si rivelano molto pericolose. Dopo l’incendio il sindacato ha organizzato un corteo e con questi lavoratori sono arrivati davanti la prefettura di Foggia attenzionando al Prefetto il problema, che ha ripristinato 300-400 container legali, anche se non si capisce con quali criteri siano stati assegnati in assenza di un censimento dei residenti.
Insomma, i programmi dall’alto spesso non funzionano, la strategia va costruita con i beneficiari, dal basso, partendo dai bisogni concreti…..
Esattamente. Alcuni pensano che la pista potrebbe diventare una comunità residenziale, ma bisognerebbe dotarla di infrastrutture adeguate, ad oggi non c’è neppure la rete fognaria. C’è anche un problema di architettura istituzionale del Piano di superamento dell’insediamento a valere sul PNRR, che vede come capofila il comune più distante, quello di Manfredonia, mentre la sindaca del Comune di Foggia è intervenuta quando abbiamo presentato il Rapporto nella chiesa protestante dei nigeriani, all’interno della pista, impegnandosi a fare qualcosa per gli abitanti della baraccopoli. Ma sembra arduo implementare il Piano, anche perché i progetti del PNRR dovrebbero essere rendicontati entro il 2026, una scadenza davvero troppo ravvicinata per intervenire in modo adeguato in una «terra di nessuno».
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Cristiano Caltabiano è sociologo ed è stato direttore scientifico dell’IREF (Istituto di ricerche Educative e Formative) di Roma. Ha svolto numerose ricerche nell’ambito del terzo settore, del welfare, del mercato del lavoro, dedicando particolare attenzione alle forme di partecipazione sociale e politica dei cittadini. È autore di numerosi saggi e ricerche. Tra le pubblicazioni recenti: Viaggi con la speranza (con G. Budano, Meltemi editore, 2021); L'associazionismo dell'emigrazione italiana in transizione (con M. Angrisano e C. Caldarini, Futura editrice 2022)
Francesco Maria Pezzulli è sociologo e ricercatore indipendente. Ha insegnato presso l’Università La Sapienza di Roma e svolge attività di ricerca e inchiesta nel Laboratorio sulle Transizioni, il mutamento sociale e le nuove soggettività dell’Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa delle tematiche inerenti lo sviluppo capitalistico e il mezzogiorno italiano.
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